Recensione
a
ROSE DI LUCE
di
Carla Baroni
Teme ogni uomo, fragile creatura,
molto di più le cose che non vede:
il buio, il buio, ancestrale paura
assorbita nell’utero materno
segreto anfratto che gli diede vita.
Il
poemetto che la Baroni
dipana in endecasillabi fluenti, scorrevoli in tutte le loro variazioni, è
musicalmente avvincente quanto una romanza pucciniana (oh l’intermezzo composto
dal Maestro sul lago di Torre del Lago, mentre i barcaioli, muniti di torce,
cercano il corpo della serva affogatasi per amore) Si nutre di morte e di vita,
di vita e di morte. Ed è proprio nella coscienza di tale percorso, nella
coscienza della brevità dell’esistere, della sua fragilità e precarietà, che sta
tutto il nerbo di questo poema, immensamente largo di motivazioni etico-esistenziali
e umanamente fragili. Il dialogo tragico e risolutivo tra il vecchio alla fine
degli anni e la morte umanizzata si conclude con una esplosione di luce più che
divina, o metafisica, direi estremamente umana nell’idea di un tramonto vitale,
che tanto simboleggia, con valore ossimorico, l’ultimo respiro. Quasi la poetessa voglia alleggerire
l’idea di un trapasso con ciò che di più bello e poetico si lascia sulla terra;
o voglia che ci portiamo dietro, come ultima visione, quella bellezza effimera
che più si avvicina al cielo. E la morte è cosa umana. E la Baroni ha questa grande
virtù poetico-intimistica di saper tradurre un grande dolore, l’ineguagliabile,
quello della morte della madre, in una prova universalmente valida, in una
prova che nella sua drammaticità, chiede a tutti, al suo epilogo, che cosa sia
poi questa nostra esistenza. La morte stessa assume proprio contorni benevoli,
contraddicendo il senso che traspariva dall’incipit, figura ostica, nemica, o
orribilmente avversa nella sua funzione di sottrazione, di azzeramento, di
rapina delle nostre cose più preziose e insostituibili. Un addolcimento in cui
il trapasso si fa più naturale, come
appuntamento inderogabile, giustificato dalla vita in quanto vita, finitamente
creata per essere terrena; ed i contorni e le parole e gli atteggiamenti ed il
dialogo tutto sembra che si rassereni con contorni naturali che si
predispongono all’evento. E si fa avanti la memoria a dare degna entità
all’esistenza. In fin dei conti le cose che rimangono sono quelle degne di
restare, degne di essere storicizzate. E sarà la memoria ad assumere il suo
grande compito di mantenere in vita, di protrarre oltre la morte avvenimenti,
fatti e immagini del nostro percorso terreno. E sarà la memoria, nella sua
funzione catartica, a sensibilizzarci e a creare quel patrimonio di affetti,
metabolizzati e traslati, da tramandare per sconfiggere il nulla. Mettere
insieme tutti i tasselli rimasti, significa ritessere un filo estremamente sottile, e altrettanto breve quanto la vita
ricostruita. Poche sono le cose che
rimangono ed enorme è il potere dell’oblio: Dum loquimur fugerit invida aetas. E’
un resoconto umano, è una poesia forte, e talmente potente e concentrata,
questa della Baroni, che si innerva nel lettore fino a riempirgli il cuore di
sangue nuovo , caldo e pulsante. La linearità e la compattezza del poema sono
esemplari. Il dialogo si fa sempre più eccitato ed umanamente eccitante. L’uno
attaccato alla terra, alla sua storia, l’altra alle sue ragioni, al suo compito
irrevocabile, naturale, in quanto vita, in quanto sommativa di tanti piccoli o
grandi atti che si susseguono nell’arco dell’esistenza. Carla Baroni sa rendere
tutto questo con estrema naturalezza, senza mai cadere nel sentimentalismo decadente, né nel
discorso tragicamente eccessivo. Ed il
suo poetare ampio e nutrito di un verbo ricco e appassionato ci giunge con
immediatezza. Lo stesso spartito fatto di note cucite fra loro da continui
enjambement, ripetuti in maniera quasi ossessiva, denota la necessità di
raccontare, di dare sfogo e apertura ad un’anima rigonfia che vuole liberarsi,
gettando sul foglio i suoi ingorghi. Ma è sempre la robustezza del metro, la
stabilità degli argini a contenere quel fiume in piena nel suo alveo,
impedendogli esondazioni a sommergere
campi ricchi di humus. La poesia della Baroni si fa sempre più poesia/arte,
quanto più la realtà si trasforma in immagine, in sentimenti rivisitati. Quanto
più gli avvenimenti della vita si spogliano della loro cruda realtà, e si
alimentano di un terriccio fertile a far crescere fiori unici ed intensi per
colori e profumi. E i colori e i profumi sono dovuti anche a quelle figure
stilistiche impiegate con spontanea generosità in una amalgama di accorgimenti
metrico-fonici e guizzi poetico-intuitivi. Un mio vecchio professore diceva: “"Se
sventuratamente vi avventurate nella poesia, vi sconsiglio di registrare la
realtà; prima vivetela, poi immaginatela, e se riaffiora, lavorate e provate a
farne poesia ". E la Baroni ha covato la
sua tragedia in un’anima disposta a
raffinarne e a smussarne le sporgenze
graffianti, tanto che il suo dolore si è
tradotto in monito per tutti noi: vivere
la vita come il bene più grande che ci è dato. Un bene grande, forse, perché
contiene proprio la morte.
Nazario
Pardini
Arena Metato 28/11/2011
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