Marisa
Cossu legge “Rime” di Paolo Alessandro Coscione
Una
voce poetica limpida e sofferta quella di Paolo Coscione, sempre connessa alla
dimensione e al senso del tempo in cui si dipanano le immagini e gli abbrivi
emozionali alimentati da un realismo ricco di immagini che prendono forma in
modo soggettivo. Gli elementi visivi sono lo scenario in cui il Poeta colloca
le proprie ansie, le emozioni, i ricordi e gli affetti più sensibili.
Una
poesia narrante, immersa nel viaggio interiore di un’anima che affronta la
grande fatica del vivere con lo sguardo rivolto alla perduta fiducia nella Natura
e nel valore salvifico della parola.
Il Nostro si spende in una poetica che
comprende, sopporta, mai subisce l’indifferenza, ne è al contrario lucida
osservatrice. L’io poetico dell’Autore, provato dalle durezze e dagli inganni
della vita, si fa luce nella narrazione e in essa trova sfogo e conforto. Il
“dirsi” equivale a pensare a sé stesso con distaccato disincanto.
Speranza, sofferenza e spiragli di luce
lo accostano ai poeti del Novecento portatori del “malum vitae”; la chiave
musicale è veritiera, sentita come scavo interiore, ricerca di un punto fermo capace
di restituire all’uomo e al poeta l’approdo agognato. È un percorso doloroso di
indagine sul sé rievocato nella formulazione metrica e in alcuni contenuti da echi
petrarcheschi e leopardiani:
“Oh solitaria e triste anima mia,
tu speri che domani ancor ci sia
l’incanto che adornò questo momento … “
Paolo
è consapevole della caducità dell’attimo: la sua anima oscilla in irreparabili
perdite del “sé” che resta ancorato al vissuto con struggente malinconia.
Ma
la poetica del Nostro abbraccia, nella passione del vivere, anche temi attuali,
riguardanti la solitudine del Contemporaneo, la sua triste dispersione in un
mondo che appare ostile ed assente. Si presta, la silloge, ad una pur sempre
arbitraria, lettura psicologica: del resto il Poeta si svela anche nelle
sfumature dell’ermetismo, ama guardarsi dall’interno e fa della realtà
oggettiva uno specchio soggettivo, metafora della propria esistenza.
Il
nostro si apre ad una confessione in versi che lo riconcili con l’altro da sé;
e sono endecasillabi musicali, sonetti di vario tipo, nella cui essenzialità egli
tenta di misurare il dolore contenendolo. È l’immagine
di un bambino fragile, con pochi scambi affettivi e con giocattoli non adeguati
alle aspirazioni e fantasie proprie dell’età; non sembra un bambino felice
quello descritto da Paolo nei suoi versi, piuttosto si disegna la caduta
dell’età adolescenziale:
“Ero un bambino schivo, magro e biondo;
amavo i gatti ed anche qualche gioco,
che privo di valor costava poco.
Da ragazzo, lontano dal mio mondo,
sprofondai negli abissi e con gran pena,
restai da solo, assorto nel mio pianto
…”
Echi montaliani passano da diversi registri
nonostante l’apparente stabilità del sonetto e della metrica classica cui il
Poeta concede l’anima in un abbraccio esigente, raffinato e controllato. La
versificazione chiusa non ingabbia la freschezza della comunicazione ma
risponde con naturale semplicità al modo di pensare del Poeta che fa uso di
enjambement per fluidificare le relazioni tra i versi. È un fatto congeniale al
suo linguaggio pensato. Paolo Coscione usa un lessico semplice e significativo
per spiegare la malattia del suo tempo superficiale, virtuale, avaro di
relazioni umane vere, soffocato da parole prive di sacralità, da poesia senza
approdi, da una incontrollata dispersione dell’esperienza vitale:
“Non appartenni a nulla per davvero;
fui un sognatore che amava vecchi usi,
insieme a quanti ancor s’erano illusi,
che il demodè piacesse al mondo intero”.
E
nulla è affidato all’immaginazione nei versi citati: vita reale e sentimenti
veri. Il Nostro è pienamente consapevole delle difficoltà, dei pesi, della
perdita degli affetti e dei luoghi del cuore cui si appiglia con immagini vive
di città, strade, paesaggi.
È Porto Mantovano la culla delle sue prime
esperienze emotive, i primi entusiasmi amorosi; la sua città, i dati
paesaggistici, le antiche mura, sono forse l’indice di una stabilità che non
può essere ricercata che fuori da sé:
“Mantova, cittadina tanto antica…
E nell’istante in cui infine riparte
per un destino a te del tutto ignoto,
il cuor ti lascerà, città mia d’ arte! “
Dentro
è il groviglio delle emozioni, fuori lo sguardo vigile delle cose che si
modificano lentamente e danno l’illusione dell’eternità possibile.
Il “dentro” e il “fuori” giungono ad unità
attraverso la dimensione dell’anima che gli opposti ricongiunge e riporta
all’unità del sentire, mentre il destino si fa carico di tracciare sentieri
obbligati.
Tra
un “odi et amo” di oraziana memoria e un isolamento turbato dall’esperienza,
l’Autore non nega, tuttavia, la bellezza. Vorrebbe conquistarne un barlume,
vorrebbe essere amato, lasciarsi andare; rimemora incontri spesso caduchi e
deludenti, pone domande sulla sua condizione di triste malinconia. Così il nome
e i profili delle donne amate, entrano nel suo mondo poetico:
“Se fosse ahimé sbagliato amarti tanto,
allor sarei il più grande peccatore,
ché sol sentir per te più folle amore,
felice mi fa stare e non sai quanto”.
Alla
madre dedica una delle più belle poesie della silloge. Egli vorrebbe veder
rifiorire in salute e bellezza colei che si è sacrificata per tutta la vita,
vorrebbe che il sole le baciasse il volto dallo “sguardo basso e dalla pelle
bianca”. Vorrebbe che il mondo tornasse ad esserle amico. E ancora la voce
poetica di Paolo, consola la madre, le dà speranza, le promette aiuto e la
sostiene. La vita è stata avara, ma c’è un barlume di attesa nell’amore del
figlio:
“O madre è tempo sai di rifiorire,
non dirmi sempre che è ora di morire,
ché il tempo tornerà sempre splendente,
e ti sorriderà se a lui sorridi”.
Natura,
amore, ricordi, malessere esistenziale, si snodano nei contenuti e nel ritmo
delle composizioni. Il timore che il “tenero fiore nato dal mio ramo”
possa subire un destino avverso, induce il Poeta a una riflessione dolce e
dolente che svela un amore, finalmente eterno, espresso con delicatissime
parole:
“In questi tempi forse un po’ dolenti,
nella silente stanza tanto studi
e con profitto, eppure non ti illudi,
che il tuo percorso sia tra rose
aulenti”
In
questa insostituibile presenza, Paolo versa tutte le residue speranze, tutte le
ansie alimentate dalla persistenza del pessimismo.
Nel
processo ideativo si svela l’esperienza estetica, conoscitiva ed emotiva
dell’Autore, il suo destino diverso da quello della Natura, la quale é distante
nella sua ciclica bellezza ed armonia, tanto che il Poeta la avverte come
matrigna:
“Oh natura, natura, quanto piaci
a chi ti osserva in tutte le tue forme!
Facesti piante, frutti e fiori aulenti,
ed ogni ambiente tuo tanto difforme,
con acque, piane, monti e poi deserti.
Ovunque i tuoi animali son contenti,
mentre gli umani hanno volti sofferti …”
Piace
la vita! La meraviglia riesce ad entrare nel cuore e nella mente del Poeta, ma
le domande insolute sulla sua presenza di creatura diversa, discriminata dal
destino, resistono al messaggio di continuità e d’infinito lanciati dalla Natura
stessa all’uomo dolente e affaticato.
La
poesia di Paolo Coscione arriva all’animo carica di messaggi non solo estetici,
ma soprattutto umani, etici: costringe a pensare alla sofferenza non espressa
che ciascuno, più o meno velatamente, reca dentro di sé.
Marisa
Cossu
Ringrazio di cuore Il Prof. Nazario Pardini per questa condivisione che mi onora, anche a nome del caro Paolo Coscione, poeta delicato e sensibie dedito alla consolazione della poesia
RispondiEliminaNon conosco l'autore di "rime" ma l'esegesi di Marisa me lo ha reso famigliare in quanto mi sono rivisto quasi in toto tramite la poetica. Ho avuto la sensazione che Marisa Cossu, seppure indirettamente, parlasse anche di me. Parecchie cose ci accomunano con l'autore perciò come dicevo mi risulta famigliare. Il suo "travaglio a vivere" lo definisco il retro di una stessa moneta. Forse cambia solo il modo di porgersi rispetto al mio che riscontro meno lirico ma che comunque l'autore con purezza di dettato, semplicità verbale e chiarezza espressiva riesce eccome ad incidere nell'animo del suo lettore. Pasqualino Cinnirella
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