Maurizio Noris e In del nòm del pader.
Tera
Mati Edizioni, Bergamo, 2014
In del nòm del pader, pur nella brevità di soli dieci testi, può
esser considerata più che significativa ed esemplificativa della produzione e
della poetica di Maurizio Noris, autore tra i più affermati e validi della
nostra poesia in dialetto. Nella scrittura in bergamasco della media Valle
Seriana, poeta più che attento anche alla risonanza civile del mondo, dei mondi
di suo riferimento, formatore e promotore socioculturale nell'ambito delle
professioni sociali e delle politiche giovanili, ci restituisce in questi versi
tutto l'affidamento e il volto di una terra la cui fatica è una fatica d'amore,
e di passaggio, di consegna alla luce di generazioni che pur nella distanza, o
nel dolore del distacco continuano a guardarsi ad invocarsi nel riferimento
reciproco. Centrale, come da titolo, la
figura del padre nella dilatazione e nella sacralità verso un padre più alto
come già avuto modo di rilevare nella bella postfazione Giulio Fèro. E nella
tensione dicevamo d'apprendimento della terra stessa, affrontata, lavorata e
curata e restituita infine all'incanto di una rinascita cui l'uomo può solo
riconsegnarsi e affidarsi dopo una lotta che proprio per questo è anche lotta
d'assenso dove lo stesso "segà", il falciare, appare in divenire
caduta e aderenza ("dal còr de la téra/l'èrba udurusa/per creansa la
scalmana//sentùr de sfacia spusa"-""dal corpo della terra/l'erba
odorosa/ trasuda per creanza/sentore di sfatta sposa"), come da immagine
l'erba quietamente ubbidiente ad accovacciarsi a file. File sì come la schiera
di cari scomparsi che pare avanzare a buon passo "olce a gröp/ch' i par màgher fó/o murù per sò cönt/largh
cóme imbràss" ("alti a
gruppi/che paion magri faggi/o gelsi da soli/larghi come abbracci") a
rammentare quella fratellanza di occhi e di poche parole che viene proprio da
tanta disputa, tanto ardore condiviso, anche loro adesso sottoterra a ritornare
piante. Dietro tanta luce Noris però, come è, come sa, intreccia il buio di
nodi raschiati, vegliati, gridati; quei nodi per cui viene da imprecare anche e
chieder pietà per una "éta/de
pelagra" ("per una vita da pellagra") nel riflesso di un
chiarore maestro rivolto "fò sö
la crùs" (lassù sulla croce"), e per cui ogni
sera ritrovarsi sotto al noce del padre a riseppellirlo in scarabocchio, e tenerezza
di sguardo. Dispute, nodi che sono gli stessi del lavoro della lingua, la sua
quella "dei genitori, dei fratelli, del paese, della valle (oggi periferia
nord della città infinita), il parlato di sempre", la "lingua
prima" come da lui raccontato. "Una parola irruente e lavorabile come
un codice sonoro (..) in cui c'è tutto lo spazio per re-inventare le
parole" facendosi la poesia immagine nel racconto del suono dialettale,
della sua forza "e gusto per la delicatezza espressiva che è capace di
sollecitare" Ed in cui ben riesce a far "risuonare in una lingua
montanara, di per sé aspra e rugginosa, quale è il bergamasco delle valli, le
più sottile e sensibili essenze delle cose" (Franco Loi). Cose che sono
dell'universo umano da sempre, che lo compongono in una veglia e una custodia
che ha sempre, e non potrebbe essere altrimenti, del femminile come da ultimo
testo nella intensità di un ritorno, eterno, di madre nel bisbiglio di
preghiera dai loro letti ai figli, finché porteranno "il segno/e il loro
cantare slegato/sul colmo/dei tetti" (" l segn/ e 'l sò cantà
desligàt/ sö la culma/ di tècc").
Un canto non dissimile allora a quello del contadino, "cantore", in
una voce "ariusa de pórtech/desligada/
che và" ("ariosa di portico/slegata, /che va"). E allora grazie
Noris.
Nessun commento:
Posta un commento