lunedì 22 maggio 2023

Anna Vincitorio ci propone : " MAKOTO OOKA e la nuova poesia giapponese "

 

MAKOTO ŌOKA e la nuova poesia giapponese

Traduzione da Pierre Dubrunquez

 

 

Come succede che, all’improvviso dall’intrico di una lingua sconosciuta una parola si distacchi circondandosi di echi stranamente familiari? “Inquietante stranezza”, di essere, dall’altra parte del mondo, interpellati da questo poeta moderno, testimone del crepuscolo degli dei, degli elementi restituiti alla loro avventurosa gravitazione e a un surrealismo esacerbato.

Grido del nostro desiderio accolto nel vivo di una sconcertante tradizione culturale. La poesia Makoto Ōoka ci riporta alla “parte più nascosta del nostro essere”. Forse ciò che Henri Michaux aveva scoperto in Asia? Due volte si fa udire la voce dell’Origine. La prima volta nella lingua. Lingua mitica che noi sogniamo anteriormente alla scissione dell’essere e del suo manifestarsi. Lingua connaturale al mondo. Simbolica e feconda a fasi alterne. Suo tramite gli imperatori decaduti continuarono segretamente a regnare; e ricorderemo a questo proposito Go – Toba che ricostituisce, al tempo di Bernard de Ventadour, l’ordine delle stagioni delle feste, dei sentimenti con il retaggio di duemila poemi. Lingua che il poeta canta soltanto in una scelta antologica, dove egli appare fugace, nella successione di voci innumerevoli che tessono la frase di un renga. Lingua che conoscerà né la storia né i torbidi commerci dell’anima. Lingua felice, per vocazione poetica, la sola nella nostra immaginazione fornita di capacità intuitive sotto la ragnatela serrata delle parvenze di complesse rispondenze, meno simboliche che sensibili. Talmente privilegiata questa lingua che, pur spogliata d’essa stessa alle nostre orecchie, la poesia di Makoto Ōoka fisserà tra l’uomo e la terra ancora un sorprendente connubio:

 

                   I tuoi seni brillano nella sorgente

                   e sotto le nostre ciglia

                   un mare e un frutto saturi di sole

                   calmi si schiudono nella loro compiutezza

 

Surrealismo creato qui appositamente come conseguenza della Lingua considerata nella sua assolutezza.

Ma la voce che canta l’origine del mondo è anche la mia voce che grida, che annunzia ai pochi di questa terra e di questo tempo una nascita più inquietante: quella della sensibilità moderna dei suoi incredibili dissidi, del suo scontrarsi in modo radicale col demone saturniano della storia.

Faccio riferimento a un popolo che interroga nell’uomo questo essere singolare né dio né bestia permanentemente solo nel concerto delle realtà naturali. Ma un popolo in cui la poesia ha iniziato nuovamente nella sua veste più essenziale eö più intensa. Makoto Ōoka che aveva 14 anni nel 1945, è fra coloro che nel Giappone del dopo guerra, hanno sentito la poesia come esigenza che scopre nel surrealismo europeo questa identificazione dell’uomo con il poeta che aveva già azzardato Hönderlin. Ma, malgrado le rovine della guerra, malgrado Hiroshima e Nagasaki, “l’uomo, occorre ripeterlo, abita poeticamente la terra”. E proprio quando il suo rapporto col mondo è più teso che la sua parola sorge, più nuda per dare uno scopo al suo soggiorno. Vicina al Giappone, la Germania nelle tenebre della sua “luce”. Vicina al giovane Ōoka, ai suoi primi poemi, alla primavera, all’amore, Gunther Eich e Paul Celan che reinventarono la parola attraverso la semplice enumerazione delle cose.

Necessità di ritornare oggi, contro le frivolezze dell’evidenza, a quegli anni della poesia dove essa è ritornata alla sua essenza. Se Makoto Ōoka canta sempre oggi il “rollio di questo pianeta”, il cielo lussurioso delle stagioni, le acque, l’erba di Tokio, o semplicemente “una fanciulla a primavera” noi non ci vediamo assoggettamento a una tradizione le cui dislocazioni convenute impallidiscono davanti a questa polifonia di percezioni, questo accesso di lirismo dove l’impeto del verso libero si sfuma talvolta di ricordi: il metro di un tanka, la forma ellittica di un haiku. E se occorre ad ogni conto determinarne la provenienza, pensiamo può darsi a Boshò, che per primo, avvicinò con occhio nudo, spoglio delle convenzioni di corte, la polvere del cammino, l’erba del viandante e il loro margine di silenzio. Vicino al pellegrino della “Sente étroite” abbandonando gli orizzonti troppo frequentati dello sguardo, il poeta moderno ha notato:

 

                   Anelli di fuoco

                   altari dal loto tremante nella brezza

                   assurdità

                   incapacità di reazione

                   riconciliazioni infamanti

 

Tranne il fatto che lo sguardo qui è critico di una dissolvente lucidità. “Un poeta deve essere un critico acuto” ha notato dopo Baudelaire Makoto Ōoka. Perché sulla “terra vana” di un Giappone dissacrato, il “pensiero di ritrovare una totalità nella poesia”, di farne l’ultima sorgente dei senti, depositaria di una esperienza di universalità, questo pensiero è oggi troppo forte per non incidere sulla coscienza.

“Vivendo la guerra nella sua totalità e la distruzione nucleare, i poeti giapponesi poterono così riconoscere la dimensione mondiale della loro tragedia personale”. Dopo aver formulato questo concetto, Makoto Ōoka venne a cercare in Europa e in Francia in special modo, le testimonianze di una poesia colma di interrogativi, aperta dopo il romanticismo a tutti i venti dello spirito. Traduttore di Éluard e Breton, autore di una versione giapponese delle “Troiane” di Euripide, egli ha tessuto tra una cultura e l’altra questo canto meno soggettivo che generale delle antologie imperiali, invitando allo stesso tempo, in questi ultimi anni, il poeta americano Thomas Fitzsimmons al gioco sottile del renga. Perché Makoto Ōoka lo prova, non ci sono luoghi privilegiati dell’esperienza in poesia. C’è soltanto la parola che ritorna all’origine, parola della sera alla ricerca del suo oriente.


 

I confini del vento

 

 

Il vento non ha seme né calice. Del frutto egli non conosce la fine.

Appena io cammino si solleva sotto i miei passi. Sospiro che all’improvviso                                                                                                                         svanisce.

 

Ma il vento, quello vero sempre nasce e scompare nella lontananza.

Il vento non ha seme né calice. Del frutto egli non conosca la pienezza.

Scivola e piroetta. Evanescente viandante, sposo del vuoto.

Corpo sublimato dello spazio.

 

È cessata la pioggia. Ecco un guado. Passeggiata tra i boschi

Cangiante proliferazione di uccelli.

Bianca infiltrazione di suoni nel cielo.

Vibranti sfinteri. Anche le pietre vibrano afflitte nella loro carne

 

Si leva il vento e il sole capovolto si spande sulla campagna.

Improvvisa la visione di dissolventi lontananze.

 

Il vento mi sussurra nelle orecchie: – afferra la luminosa essenza

di queste droghe e io ti mostrerò una Chimera che naviga sotto terra.

 

Ah, questo vento che adoro

Questo vasto patto ingannatore

così bello!

 

Un vento diverso allora spazza via

fruscianti parole dell’uomo

che non hanno saputo aprirsi alla verità

Perché mi è sì caro il loro torpore?

 

Forse che la notte nel mobile ripetersi di corpi gassosi

che fanno sgorgare rugiada

sulle ciglia degli alberi

non è essa intrisa di flebili rumori?

 

Nell’uomo il vibrante impulso delle dendriti

risuona ogni notte

con i fremiti della linfa in tutti gli alberi

 

Tra i due un trasparente viandante scivola e piroetta

innamorato del vuoto

Non tende forse i suoi impulsi nervosi verso l’essenza della specie?

Nascita degli dei

 

 

L’inverno era sempre nell’acqua

Il ghiaccio tra le sue labbra

scintillanti

Lui rideva

La primavera dal fondo del suo ritrarsi

mille volte

aveva cantato e vissuto

la ballata dell’empia primavera (del tempo dissoluto)

mille volte

morendo di noia

ha cantato

e improvvisamente divenne

Dea radiosa

Germinale e deiscente

Marzo e Aprile

Maschio e femmina

non svelate ancora le parti

Ma il tempo è venuto

Il Giappone sulla cresta delle acque

è attraversato dagli Dei.

 

Essi filano

tra mari e monti

per fondersi e morire

nel Grande Sud.

Canto della fiamma

 

 

Quando mi tocca

grida di paura

 

ma io non so se sono

calda o fredda

io

non sono mai simile

al momento precedente

io

non lo sono più

sempre io muto sembianze

e fuggo

         io brucio

 

Chiara appaio

contro l’oscurità

ma sempre mi proietto

verso il nero

 

Lui mi teme perché

         io corteggio

non sapendo perché

albero carta carne

ogni mia carezza

celata e mai chiesta

è destinata a

                   perire

tra le ceneri

 

grida dell’uomo

mi dicono quanto terribile

sia il mio amore

per lui.

Ritratto

 

 

Campi e città oscure

nei freschi piani della tua fronte

 

sempre giungi

dopo il risveglio

spirale di vento

         continuità

         senza inizio

trepidante in un bosco

dove gli alberi sono scomparsi

                            eterno mezzogiorno

                            e leggenda

vespri

dove fiamme delimitano cammini di uccelli

tu sei una piccola nuvola accesa

 

in te

         al di sopra del tuo centro

         tuo alto atollo

pesce blu chiaro nuota in schiera

         tra le alghe

un occhio

(come) torre fissa nella lontananza;

occhio di fiamma nel centro

 

tu sei specchio opaco

io cado in te senza limite (senza potermi fermare)

talvolta io fluttuo in te

non fanciullo intorno

all’autunno che calmo mi avvolge

ma tu sei soprattutto

                   splendore

fulmine scaturigine del fervore

dieci dita protese

ai confini dell’universo

come lampo

o attesa

polpa delle dita sensibile e calda come labbra

 

un vento del largo

ti riporta al mare

         eccitato

         caldo di sole

 

tu avanzi nell’eternità

 

provando nel silenzio

 

         della forma perfetta

         niente che non sia movimento

Per la primavera

 

 

Tu dissotterri la primavera che dormiva nella sabbia

ti agghindi i capelli e ridi

e la spuma del tuo sorriso si disperde nel cielo

come rughe sull’acqua

sereno il mare sa guardare il calore

d’un sole colore d’erba

 

la tua mano nella mia

le tue pietre nel mio orizzonte ah

oggi nel cielo

l’ombra di petali scorre

 

alle nostre braccia che pulsano di gemme

nell’iride dei nostri sguardi

(mentre) infangato il sole gira

e noi – alberi e laghi

chiarità sulla tenera erba

luce tra il fogliame

terrazze della tua chioma sulla quale danzano –

noi

al vento novello si apre la porta

innumerevoli mani nell’ombra verde ci chiamano

frescura del cammino sulla docile pelle della terra

i tuoi seni brillano nella sorgente

e sotto le nostre ciglia

un mare e un frutto saturi di sole

calmi si schiudono nella loro compiutezza (maturi)

Chofu

 

 

Abitante in una città

Io penso alla città.

A questa città dove vivo

stranamente non riesco a pensare.

 

Ogni volta verso l’altra città

occhi e ricordi sono protesi.

Non è certo come pensare

a un’altra donna

 

Sul bordo del pendio sfiorando gramigna e zizzania questo tafano che

sempre s’allontana

e annega nel suo stesso volo,

urta la torre che oscilla al centro della città tra

le nuvole,

si libera,

e nell’altra città

dove turbina l’altra aria,

riesce a entrare

Senza che io lo sappia

Io

NOTIZIE BIOBIBLIOGRAFICHE

 

Makoto Ōoka

Mishima 16 febbraio 1931 – Mishima, 5 aprile 2017.

                   Pioniere della forma poetica del renshi negli anni ‘90.

Collaborazioni con Charles Tomlinson, James Lasdun, Joseph Stantou, Shuntarò Tanikawa e Mirkò Sasaki.

 

BIOGRAFIA

 

Figlio di un poeta tanka nel 1953 si laureò in letteratura presso l’Università di Tokio. Lavorò come professore e giornalista per il periodico Yomiuri Simbum.

Nel 1956 primo poema – Kioku to genzai (memoria e il presente).

Il suo successo come poeta. In seguito si focalizzò nella produzione letteraria ispirandosi agli stili dei poeti classici. Come Kakinomoto no Hitomaro, Fujimara no Teika e Matsuo Bashò. Nel 1970 iniziò a sperimentare con il renga.

Più partecipanti per creare un singolo poema. Seguendo le basi del renga e del renku, negli anni ‘80 ideò con altri la forma del renshi. Tale stile ebbe uno sviluppo intensivo successivamente con la collaborazione di autori come James Lasdun, Charles Tomlinson e Hiromi Itò

1979 – 207 – rubrica poetica Oriori no Uta (Poesie per ogni stagione) nel quotidiano Asahi Shimbum.

 

         Muore dopo lunga malattia il 5 aprile 2017 presso un ospedale di Mishiuma.

 

OPERE PRINCIPALI

 

Kioku to genzai – 1956

Toji no Kakei – 1969

Kino Tsiroyuki – 1971

Niou Shiko Kilò – 1978

Oriori no Uta – 1979

Nessun commento:

Posta un commento