martedì 25 febbraio 2025

Nunzia Gionfriddo legge :"L’arcobaleno nelle pozzanghere " di Maria Rizzi


L’ultima fatica letteraria  di Maria Rizzi presentata nell’accogliente e suggestiva libreria “Hora Felix” di Roma, “L’arcobaleno nelle pozzanghere”, Graus Edizioni, ieri 15 febbraio ha riscosso un successo di pubblico straordinario.

Ben meritato!

Nonostante una trama tragica che coinvolge  i suoi personaggi per i fatti esecrandi che sarà il lettore a scoprire, che a nessuno venga in mente di sigillare il romanzo con l’etichetta di libro GIALLO, senza nulla togliere a un genere degno di entrare a testa alta nella letteratura italiana e straniera dell’Ottocento e i primi del Novecento ma che  oggi ne rimane  ai margini tranne pochissime eccezioni.  Per amore della verità un solo libro, a mio avviso,  “giallo”” si discosta da queste mie riflessioni ed è quello che vede protagonista Poirot, l’investigatore uscito dalla penna di Agatha Christie che ne “Assassinio sull’Orient Express” viene assalito da una tal pietas per gli assassini e per la causa del loro misfatto che li lascia andare liberi. Ma gli orrori del Nazismo ammorbidiscono persino  un integerrimo difensore della legge.

Torniamo al  romanzo della Rizzi che affascina soprattutto per i molti temi di riflessione  che turbano l’animo della protagonista e del suo gruppo di lavoro. Prima fra tutti è la presenza del Male. Liberi ormai dalla Vulgata che vorrebbe Satana, l’angelo ribelle, il male assoluto,  lanciato da Dio nelle viscere della terra, La domanda che ci si pone è la stessa per tutti: cosa è il Male? Da dove ha origine? Anche se mai direttamente espressa, la questione è sottintesa nelle continue riflessioni di Miriam,( la commissaria trasferita in un commissariato lontano dalla famiglia), sulle azioni malvage, inaccettabili, becere. In un libro giallo non succede mai. L’autore è interessato ai fatti, non ai perché. Giusto così se il romanzo è un Giallo.

Ma questo non lo è. i ‘perché’ avevano innondato la stazione di Polizia come innondarono la mente, di Anna Aren’t, che   si recò a Gerusalemme per assistere al processo al terribile capo delle SS, Eichmann.  ad ogni domanda del giudice il boia degli ebrei, il torturatore di donne e bambini, rispondeva con gli  occhi impassibili con una sola risposta: “Era un ordine”. Il male non nasce con l’uomo.  “L’uomo nasce buono e la società lo rende cattivo” – afferma Rousseau. E nemmeno questa risposta è completamente giusta. L’essere umano è il risultato della ambiente che lo circonda. Il male è banale, come lo definisce la Aren’t, perché il soggetto non si rende conto di cosa gli sta intorno e assorbe tutto inconsciamente. Un solo individuo emerge, il boia, il tiranno, il despota, insomma il carnefice e tutti lo seguono senza domande.  Se si volesse allungare l’analisi a Darwin … ma non è questa la sede. In questo libro vivono lupi e agnelli, vittime e aguzzini. Vero è che i carnefici della nostra autrice hanno aspetti lombrosiani, truci econ gli occhi infiammati di odio, ma nulla camia nella nostra analisi.

Lasciamo da una parte per il momento l’aspetto tragico del racconto per seguire i pensieri di Mirian, non quello che riguarda le indagini, ma quello dei ricordi. La commissaria vive in una dicotomia continua tra presente e passato, tra giovinezza e maturità, tra nostalgia e arido vero, come direbbe il Poeta.  Conosce bene il Comune dove ha passato la sua giovinezza nella villa della nonna Bea, di cui oggi rimane ben poco. Ne ricorda il giardino pieno di fiori di mille colori e profumi, ne ripercorre i ruderi con la disperazione che la sua memoria abbia subito una lacerazione insanabile.

La stessa la scopre  nel mondo reale.

La “sedia del dovere”, che si era imposta di  usare sia per sognare sia per razionalizzare un mondo nel quale  voleva essere maschio ribelle o un poliziotto, era rimasta vuota permeata solo di nostalgia per un tempo che non sarebbe tornato più.

Ma alla nostalgia si univa la dolcezza del ricordo. Il porticciuolo, il primo bacio del futuro marito, le strade ridenti del riverbero del mare e del sole.

Cari pensieri che si intrecciavano quasi beffardi con il presente terribile, narcotici dell’orrore  da necessariamente vivere immergendosi nel fango delle pozzanghere.

Il sole però non manca di brillare. Qui, la salvezza, qui, gli amici d’infanzia, le compagne della consolazione e soprattutto lui, l’amico vero, quello che sente in anticipo le sue telefonate, che la consola, la consiglia, le vuol bene come solo un amico di infanzia sa fare. Ma sopra tutto e al di sopra del tutto c’è la famiglia che Miriam sente solo per telefono, ossigeno che riceve e dà coraggio. La lontananza angoscia lei, il marito e i figli ma ognuno nasconde l’ansia fino al coraggio estremo. Passioni, dolori, orrore, vittime e carnefici investigazioni complesse si intrecciano con ricordi, nostalgie, amori, profumi ,  olezzo di discariche e pozzanghere dove, a volte, ma per Maria Rizzi sempre, si specchiano colorati arcobaleni.   Una frase questa e un titolo che non lasciano dubbi sulla prosa limpida e soprattutto lirica della scrittrice. Non vi è pagina che non contenga un aggettivo o una intera frase che non rimandi al linguaggio poetico. La descrizione dei fiori di villa Bea, la sistemazione dei pesci sulla mensa del ristoratore Pasqualino, la grazia con cui questi mostra la sua mercanzia, la natura stessa nella sua complicità con il dolore sembrano usciti dalla penna di un poeta fattosi pittore.

Vogliamo per forza chiamare questo psicologico e sensibile  romanzo un “giallo”?

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