venerdì 7 maggio 2021

MARIA GRAZIA FERRARIS: "SPAVENTO" DI D. STARNONE, EINAUDI



D. Starnone- Spavento. Ed. Einaudi, 2009

 

M. Grazia Ferraris,
collaboratrice di Lèucade

Il tema del romanzo Spavento, che fin dal titolo pone l'accento sulla paura provocata dalla visita inattesa nella nostra storia personale della malattia e della morte  è appunto quello della morte.  Una lettura che ben si adatta a questi nostri tempi di pandemia. Ma la paura di morire che è un tema storico, può diventare vero oggetto di racconto, un tema letterario, e mai ce ne siamo accorti, patendolo, come in questi nostri tempi infelici.

La  letteratura occidentale dell'Otto-Novecento ha nondimeno individuato nella morte e nella malattia i suoi temi forse più frequentati : basti pensare a La morte di Ivan Il'ič di Lev Tolstoj,  La montagna incantata di Thomas Mann,  L'animale morente di Philip Roth, al racconto di Moravia Inverno di malato…, ma gli esempi, più o meno alti, sarebbero infiniti. Sulla terza età poi, che ci avvicina alla morte, s'è detto tanto.

Scriveva Simone De Beauvoir nel suo La terza età (Einaudi) : “La vecchiaia resta un segreto vergognoso, un soggetto proibito. È proprio il motivo che mi ha indotto a scrivere queste pagine. Ho voluto descrivere la condizione di questi paria e il loro modo di vivere, ho voluto fare ascoltare la loro voce: saremo costretti a riconoscere che si tratta di una voce umana. Si comprenderà allora che la sorte infelice loro riservata denuncia il fallimento dell'intero nostro sistema sociale: é impossibile conciliarla con la morale umanista professata dalle classi egemoni... Ecco perché bisogna rompere una congiura del silenzio. Chiedo ai lettori di aiutarmi in questa battaglia”.

Ci prova anche Domenico Starnone,  giornalista e scrittore, noto come insegnante  nella scuola media superiore ( si è occupato di didattica dell'italiano e della storia, Fonti orali e didattica, 1983, e come scrittore di Ex cattedra e altre storie di scuola, pubblicato alla fine degli anni ottanta, e Solo se interrogato,  Appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso….

Scrive nel 2009 per Einaudi questo  romanzo  colto, certo faticoso, per certi aspetti noioso, ridondante, ostico, che affronta nondimeno temi veri, scabrosi e messi in genere tra parentesi, forse poco allettanti per un pubblico giovanile. Infatti non penso proprio che i giovani lettori andranno oltre le prime pagine.

 

Domenico Starnone sceglie di osservare la malattia e la vecchiaia con verità ed ironia, firmando un romanzo profondo e contemporaneo, in cui è nondimeno facile riconoscere uno dei tabù della nostra epoca, il senso comune e rimosso  della precarietà della vita. Una precarietà che Starnone racconta con un gioco di specchi, intersecando la storia e le paure di Pietro Tosca, una creatura letteraria, il protagonista del suo progettato romanzo Morte allegra, con l'esperienza reale autobiografica del suo creatore, lui stesso, colpito all'improvviso da un male che lo costringe al ricovero in ospedale.

Il protagonista, lo scrittore che inventa la storia, l’uomo che è al centro di quella storia, Pietro Tosca, sceneggiatore sessantanovenne,  sente che “sta cominciando la vecchiaia vera” e forse qualcosa di peggio…. “Lo avverte dalla «sindrome del corpo sfiduciato», e poi da un segno che ha la forza di una rivelazione: qualche goccia di sangue nell’urina. Mentre intorno a lui la vita scalcia, soprattutto nella piccola cerchia dei giovani pronti a rubarsi le idee a vicenda, a imporsi nel mondo con un’autentica e inguardabile furia di vita, Tosca forse sta per morire. E all’idea della morte reagisce inventandosi una strategia di elusione...”

Tosca sembra rifiutarsi di prendere contromisure di fronte ai sintomi, tanto che quando, cedendo alle premurose insistenze della moglie, effettua finalmente le opportune analisi, scappa dalla clinica senza nemmeno attendere di conoscerne l'esito. E la sua carriera, al pari della sua salute, sembra essere minacciata dall'arrivismo di due giovani, Ornella e Gianfranco, che, per migliorare le proprie rispettive posizioni, cercano in qualche modo di servirsi di  lui, se non addirittura di sostituirsi a lui.

Sdraiato nel suo letto di ospedale continua a scrivere, e più scrive …più sanguina.

Scrivere è il suo lavoro, lo è sempre stato. Le parole però ora cominciano a vivere di vita autonoma, a sembrargli “lo strumentario di un gioco infantile, veramente stupido se a giocarlo è un uomo di 56 anni che in quel momento sta perdendo sangue”.

Una riflessione sconsolata lo induce a stabilire una relazione tra il mondo della salute fisica, della giovinezza piena di illusioni, e la vita della scrittura, a pensare  con malinconia “….che dire della superbia di scrivere, di voler essere letto come un oracolo.  A guardare lì, sul comodino  le pagine della  Morte allegra. Mi sembrò che la priorità assoluta che aveva imposto il sigillo alla mia esistenza fosse venuta definitivamente meno. Era stato uno stupido inganno credere di avere un dentro da riversare per  tutta la vita su fogli bianchi, in forma di ghirigori di nero inchiostro. Tutto ciò che contava, dentro, era il buon funzionamento degli organi interni. Tanta fatica per dare funzionamento degli organi interni. Tanta fatica per dare una forma alla volatile esperienza, dargliela in modo che il prima caotico, una volta ordinato sulla pagina, contenesse miracolosamente anche un poco del dopo, l’infinito radioso futuro, e perciò durasse. Un’ottusa presunzione.”

La scrittura, da malato, diventa una operazione di rassicurazione consolatoria di cui è consapevole. “ …scrivevo pomeriggio lento. Scrivevo corridoi vuoti, verdi e gialli. Scrivevo ponte all’aperto sul cortile squallido. Scrivevo una ragazza nera mormora in inglese parole al telefono e piange. Scrivevo vento entra dalle finestre spalancate, si rischia la polmonite, per sfuggire a questo orrore…e nel farlo mi pareva di calmarmi.”

Presto il vero centro del libro diventa quel male reale, con le sue rituali, prosaiche necessità: l’ospedale, le analisi, le ecografie, le visite specialistiche, i consulti medici, l’assistenza infermieristica…

 E da Tosca l’attenzione si sposta sul vicino di letto: un vecchio ingegnere silenzioso che giorno dopo giorno acquista nella coabitazione forzata sempre più spazio, amicizia solidale: a chi altro raccontare storie bellissime e dettagli insignificanti, a chi altro leggere pagine indimenticabili di Tolstoj, se non a lui? "Eravamo diventati sodali, vale a dire associati nella religione della sofferenza, nello scontro con la mala sorte".

«Ci vuole più verità» e quell’uomo, con una singola sgangherata parola o con un gesto davvero inaspettato, riesce di schianto a gettar luce su ogni cosa.

 

Questa storia è però, in realtà, un libro nel libro, dato che in Spavento le vicende di Tosca si intrecciano con quelle di Starnone stesso, che si racconta in pagine dall'evidente timbro autobiografico. La mise en abyme narrativa è una tecnica vecchissima che risale agli esordi stessi del romanzo, ma il modo in cui Starnone la applica è certamente singolare, originale  per la compenetrazione delle due storie che si incrociano e si sovrappongono di continuo, si confondono, come se fossero legate da un filo invisibile ma resistentissimo.

L'esperienza ospedaliera modificherà e segnerà profondamente anche l'evolversi della Morte allegra, tant'è che a Tosca l'autore attribuirà alcune caratteristiche dell'ingegnere con cui aveva condiviso la stanza d'ospedale.  Cerca cioè nella realtà, attraverso un continuo gioco di scambi, i fili di un possibile sviluppo per il suo racconto rimasto interrotto.

Ma il vizio della letteratura è sopraffatto dal pensiero della propria morte, tutt’altro che "allegra", dal modo in cui mettersi alla prova. Le domande che si pone sono quelle tradizionali. Bisogna aggrapparsi agli affetti o piuttosto strapparsene per non far soffrire le persone care? Bisogna vergognarsi dei propri errori, coltivare un’immagine scostante di sé per accettare più facilmente la fine? Riconoscere di essere stato fortunato per essere vissuto felicemente per tanti anni? Nessuno di questi interrogativi offre consolazione; non giova neppure  il ricorrente contenzioso con Dio, neanche la potente suggestione esercitata dal racconto tolstoiano, dallaMorte di Ivan Ilic.

In fondo al buio tunnel non si annuncia una luce salvifica ma "un baluginìo di stupore e indignazione".

Lo scrittore malato riuscirà a mettere una pezza alla salute compromessa, sarà dimesso dall’ospedale.

Anni dopo, riordinando gli appunti, si prova a concludere la storia di Pietro Tosca. Difficile conclusione, come se il personaggio gli fosse diventato estraneo, ostile, sconosciuto.

Il personaggio continua infatti a eludere le cure prescritte, cerca conforto nei ricordi della esuberante adolescenza napoletana e si appresta a una "festa della fine", concedendosi una difficoltosa esuberante, esagerata, inutile trasgressione a base di cibo e di sesso.

Condotta all’insegna del vitalismo, la festa si rivela funebre e conduce a una disperata allegria: "Via, quante storie: ce la fanno tutti, ce l’hanno sempre fatta tutti, ce la farò anch’io a morire".

“Era bello quell’avvitarsi intorno al nulla di ipotesi contraddittorie, tra benessere e malessere. Io è questo, infine, pensai con piacere, un turbinio di incoerenze che elabora tecniche per fingere coesione.” Non sappiamo se l’esorcismo della pagina scritta valga anche per l’esistenza del suo autore, se dopo tante proteste in contrario egli si pieghi all’accettazione della sorte comune. Infatti non sentiremo più la sua voce.

Il libro di Starnone  cattura quando racconta le vicende intrecciate e parallele del protagonista e del suo eroe,  ma lascia perplessi nel  finale.  Come se Starnone, al pari del suo alter ego scrittore, avesse consegnato a un artificio letterario il compito di sbrogliare la matassa, e concludere, confessando la sua stanchezza dibattere alla porta dell’ineluttabile.

Chiude: “Lasciai sul tavolo cinquemila lire, il cellulare e salii sul primo autobus che andava il più lontano possibile dalle diagnosi, dalle terapie, da casa.”

Maria Grazia Ferraris, maggio 2021

2 commenti:

  1. Mi è scomparso tutto quello che ho scritto... e riprendere il filo non è facile, ma la tua esegesi di un romanzo mi ha colpita in modo particolare, carissima Maria Grazia. Credo che nel tuo lungo percorso di studiosa ti sarai confrontata in molte occasioni con la narrativa, ma io leggo per la prima volta la tua esegesi di un testo, che tratta tematiche così attuali e complesse: la malattia e la morte. Innanzitutto metti in luce quanto possa verificarsi nella scrittura in prosa uno sdoppiamento tra lo scrittore e il personaggio. Quest'ultimo, una volta creato, esige vita propria, diventa padrone della storia e chiede tempo, risarcimento del perduto... L'autobiografia si verifica quindi quasi al contrario. Il protagonista del volume tiene in scacco con l'ironia, la rabbia, il dolore, l'esistenza dello Scrittore, che senza ombra di dubbio, ha riversato le sue ansie e la sua volontà di esorcizzare il male sulla vita di Pietro Tosca. La tua pagina permette ai personaggi di vivere e di trasmettere
    messaggi che in un periodo come questo sono aghi nell'anima, per coloro che l'anima la conservano... Grazie amica mia. Splendi come Sirio. Ti stringo forte al cuore con affetto antico.

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  2. Ringrazio come sempre Nazario per l'ospitalità sollecita su Leucade e ringrazio Maria Rizzi sempre così attenta e generosa nella sua lettura empatica:in questo tempo di pandemia e solitudine leggo anche autori che a suo tempo ho trascurato. Scopro così contributi notevoli, anche se non rassicuranti, come nel caso di D. Starnone, il cui titolo-Spavento- dice molto dello stato d’animo che la maggioranza di noi vive.Non si è mai finito di leggere, di capire e ...di invecchiare. Grazie amica mia da lungo tempo.

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