FEDERICO
GARCIA LORCA, BALLATA DELLA LUNA, LUNA
La luna venne alla fucina
col suo cesto* di nardi.
Il bambino la guarda, guarda.
Il bambino la sta guardando.
Nell’aria commossa
muove la luna le braccia
e mostra, lubrica e pura,
i seni di duro stagno.
Fuggi luna, luna, luna.
Se venissero i gitani
farebbero col tuo cuore
collane e anelli bianchi.
Bimbo, lasciami ballare.
Quando verranno i gitani,
ti troveranno sull’incudine
con gli occhietti chiusi.
Fuggi, luna, luna, luna
che sento già i loro cavalli.
Bimbo, lasciami, non calpestare
il mio pallore inamidato.
Il cavaliere s’avvicinava
suonando il tamburo del piano.
Nella fucina il bambino
ha gli occhi chiusi.
Dall’uliveto venivano,
bronzo e sogno, i gitani.
Le teste sollevate
e gli occhi socchiusi.
Come canta il gufo,
ah, come canta sull’albero!
Per il cielo va la luna
con un bimbo per mano.
Nella fucina piangono,
lanciando grida, i gitani.
Il vento la veglia, veglia.
Il vento la sta vegliando.
(Traduzione
italiana di Angela Ambrosini)
* N.d.T. Il termine polisón, da Carlo Bo tradotto con “sellino”,
indica questo accessorio della moda femminile, successivo alla crinolina, con
cui si rendevano più gonfie e strutturate le gonne nella parte posteriore, ma
riteniamo che la voce “sellino” in italiano moderno sia fuorviante, non
esistendo più questa accezione riferita a uno specifico articolo della moda.
Preferiamo quindi la traduzione “cesto”, altro termine ai tempi in uso per
indicare lo stesso manufatto e che nel testo di Lorca ben si adatta alla
plurivalente semantica italiana della parola, abbinata al richiamo dei fiori e
per di più visivamente associata alla forma rotonda della luna.
Di nuovo un evento astronomico, l’eclissi
parziale di luna del 28 ottobre ultimo scorso, ha riacceso in tutti noi antiche
fantasticherie e quello strano desiderio di rapimento irrazionale che il nostro
satellite esercita sulla psiche, quasi un’alta marea dell’anima. Dissonanti ma
in egual misura ipnotiche le sensazioni di timore e di attrazione per un evento
che ciclicamente segna il calendario astronomico. Ma lasciamo agli astronomi le
loro esatte, matematiche valutazioni e addentriamoci ancora (dopo il nostro
ultimo breve excursus di settembre sulla luna lorchiana) nella suggestione con
cui da sempre l’archetipo lunare titilla l’estro poetico, essendo parte
integrante di quell’inconscio collettivo che esula da esperienze personali
rimosse. Il concetto junghiano di “realtà trascendentale” accomuna l’uomo
moderno a quello primitivo al di là delle sue coordinate storiche e sociali ed
è indubbio che la luna incarni uno degli archetipi più dibattuti e perlustrati
a livello artistico in senso lato. Esempio paradigmatico, come sappiamo, è il
magma allegorico e onirico della luna lorchiana, ancestrale entità cosmica
spesso di natura esotericamente trina (come non pensare alle denominazioni
classiche di Artemide, Selene ed Ecate) che nella sua produzione sia lirica che
teatrale si delinea protagonista di riti funesti e funerari. Esaminiamo
ora una tra le poesie più note del poeta
granadino, La ballata della luna, luna tratta dal “Romancero gitano”.
In virtù della
valenza narrativa che il genere della ballata racchiude fin dalle sue origini
medievali, la lirica dipana un breve schema tripartito di
esordio-svolgimento-epilogo, disseminato di uno strano dialogo a due (elemento,
anche questo, tipico delle ballate popolari) nel quale la consueta alternanza
dei tempi verbali, ora in passato ora in presente, enfatizza il senso di sospensione
e di estraneità affiorante già dal titolo nella reiterazione del sostantivo
“luna”, divinità ctonia che in questa lirica Lorca antropomorfizza nel ruolo di
madre-matrigna-amante. È evidente come la natura di Ecate maligna, rapitrice di
bambini, prevalga sul suo fulgore apparentemente benevolo (vedasi nell’incipit
il simbolo fuorviante dei nardi) e come, parimenti, il connotato mitico e
cosmico della luna si innesti in un contesto di vivo realismo, tratteggiato
nella citazione concreta di tipiche usanze gitane e con un lessico di immediato
riferimento oggettivo, quasi anti-lirico. La fucina è il primo richiamo alla
vita dei gitani, maestri nell’arte di forgiare i metalli. I versi dipingono
inoltre cavalli, oliveti e ancora bronzo e incudini, ulteriori cenni alla
fucina dove, tra l’altro, i membri di queste comunità, in epoca lontana,
iniziarono a intonare, al ritmo del martello sull’incudine, il primo genere di
canto flamenco, denominato toná de la fragua (“canto della fucina”) probabilmente
la più antica creazione vocale del repertorio flamenco stesso. Lorca dà voce, pertanto,
a un circostanziato universo andaluso in connubio profondo con le forze
primordiali del mito e del rito. I gitani dei suoi versi appaiono sempre
congelati in atteggiamento sonnambolico, vittime del sortilegio lunare.
“Dall’uliveto venivano / bronzo e sogno, i gitani. /Le teste sollevate / e gli
occhi socchiusi”. Le forze cosmiche, come sempre nelle sue opere al servizio
imperioso della luna, interferiscono sul piano umano, determinandone il destino
di morte. Il chiarore lunare (immancabilmente nefasto nella cosmogonia
lorchiana e spesso abbinato al verde, aggettivo mortifero per eccellenza nella
personale simbologia del poeta) è qui a poco a poco moltiplicato nei “nardi”,
nei “seni di duro stagno”, nelle “collane e anelli bianchi” per poi esplodere
nell’ “pallore inamidato” della luna, della sua verginità “lubrica e pura”
(splendido ossimoro) che non può essere calpestata dalla dimensione umana alla
quale si esige comunque un sacrificio. Il bambino, sopraffatto dalla divinità
ctonia, intuisce il pericolo che questa arreca, cercando però allo stesso tempo
addirittura di proteggerla, come fosse sua madre, dalla reazione dei gitani:
“fuggi, luna, luna, luna”, versi nei quali la reiterazione insistita della
vocale cupa “u” si salda al canto del gufo, uccello notturno foriero di mala
sorte, facendo eco alla duplicazione sintattica della prima e dell’ultima quartina
“il bambino la guarda, guarda / il bambino la sta guardando” e “Il vento la
veglia, veglia/il vento la sta vegliando” (dove è evidente il valore funebre
del verbo “vegliare”). La morte del piccolo è preannunciata da un andamento
verbale di progressivo avvicinamento culminante nella proposizione “quando
verranno i gitani / ti troveranno sull’incudine / con gli occhietti
chiusi”. Tutto il cosmo partecipa
all’evento delittuoso, accennato con una ellissi di grande impatto lirico: “Per
il cielo va la luna / con un bimbo per mano”. La volontà lunare nella sua
ipnotica danza cosmica della morte si è già compiuta, i gitani piangono il
bimbo e il vento (in Lorca sempre antropomorfizzato) veglia la fucina dove si è
consumato l’atto sacrificale. Il doppio piano cosmico e umano di cui è tessuta
la produzione lorchiana, ha una volta ancora trovato una sua fatale
congiunzione. È palese come i gitani di Lorca nulla abbiano a che fare con
pittoresche macchiette folcloristiche, essendo piuttosto interpreti lirici di una
complessa cosmogonia nella quale gli elementi aneddotici, pur molto frequenti,
si stemperano attraverso il ricorso alla metafora (cavallo di battaglia
retorico-formale della “Generazione del ‘27”) in una volontà di astrazione che
spesso anticipa movenze e stilemi di tipo surrealista. Questo procedimento di
depurazione da ogni scoria cartolinesca di “gitanismo” spicciolo induce la
critica alla definizione di un’Andalusia mondiale, universale, quasi anti-geografica
della produzione lorchiana e non si dimentichi che lo stesso poeta, in una
famosa conferenza, rivendicò la natura “antipittoresca, antifolclorica e
antiflamenca” della sua opera.
L’insolito
affresco che Lorca dedica alla luna nella sua volontà di cruento sacrificio
rituale, ha un curioso, sia pur diverso e casuale parallelismo nell’ orrore
lunare della bellissima, inquietante lirica Luna d’agosto di Cesare
Pavese (in Lavorare stanca) che ci spalanca un omicidio nel momento
esatto dell’apparizione di un’infera luna rossa da cui la figura femminile,
prossima a un demoniaco parto, sembra essere posseduta.
“E si leva la luna.
Il marito è disteso/in un campo, col cranio spaccato dal sole/…/Si leva la luna…/
La donna nell'ombra/ leva
un ghigno atterrito al faccione di sangue /che coagula e inonda ogni piega dei
colli /…/ Si precipita fuori, nell'orrore lunare, /e la segue il fruscio della
brezza sui sassi/…/ e la doglia nel grembo. Rientra curva nell'ombra/ e
si butta sui sassi e si morde la bocca. / Sotto, scura la terra si bagna
di sangue”.
Torna la corrispondenza sotterranea con Ecate, riaffiorando
forse l’archetipo di un inconscio collettivo trasversale a più strati di eterogenee
culture popolari.
Angela
Ambrosini
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