sabato 13 gennaio 2024

Anna Vincitorio :" La Strada"

 

LA STRADA

Nello scorrere degli anni non molto è cambiato. Venendo dai lungarni si snoda

ben dritta la strada. L’alto campanile del Nervi taglia fette d’aria. In lontananza

la collina di Fiesole. La scuola è stata restaurata e le suorine, quasi accanto,

salutano i passanti nella loro corsa mattutina. Alle quattro e mezza grida e

sciami di bambini che urlano festosi addentando schiacciatine. Sono cambiati i

volti delle mamme di un tempo. Ora molte straniere e alcune col capo avvolto

in un velo scuro. Mi rivedo giovane in un tempo ormai lontano aperto alla

speranza. C’è sempre il bar di Dario, leggendario da una cinquantina d’anni e la

sua voce, sempre uguale, si spande. Due soli tavolini e, quasi tutti i giorni,

quell’anziano signore col canino bianco seduto davanti a una tazza di caffè.

Sono una veterana che percorre la strada col carrello della spesa e tanti ricordi.

Escono in fila parlottando e con lo sguardo imbambolato quelli di Don Orione.

Qualcuno sorride, qualche altro dice strane cose ai passanti frettolosi.

È rimasto solo il ricordo del potente scampanio. Dove le campane?

Gruppetti di ragazzi fanno bivacco sul sagrato. Telefonini, merende e spesso

fogliacci lasciati in terra. Tanti anni fa non uscivano nell’intervallo dalla scuola

ma si sbrancicavano dalle finestre aperte; si udivano le loro risate e il semellaio

col suo grido si fermava lì davanti.

Quando cala il buio, quell’aria allegra scompare. Nella parete più riparata

all’esterno della chiesa ci sono gli invisibili sdraiati su cartone e coperte. Per un

certo periodo, uno di loro, più fortunato, aveva una tendina. Non usciva quasi

mai. Fuori qualche sacchetto con cibo. Queste persone che nessuno conosce,

sono come oggetti nella notte, loro compagna.

Non se ne vede il volto, s’indovina la sagoma e, qualche volta, affiora una

mano che stringe la coperta. Devono essere lunghe quelle notti all’addiaccio. È

raro che qualcuno si fermi. Si dice: “È una loro scelta, potrebbero andare alla

Caritas”. In effetti nessuno dedica loro più di una frettolosa occhiata. La

mattina, solo lunghi sacchetti neri appoggiati nell’incavo del muro con i loro

oggetti.

Una mattina un camioncino con piante verdi e qualche palma sosta

davanti alla chiesa. Penso: “Sistemano il sagrato”. Però negli anfratti dove si

rannicchiavano gli invisibili, sono poste delle piante che adornano lo spazio. Ci

stanno bene, pero non accoglieranno più i senza dimora. Non c’è posto per loro.

Ripenso ai tempi ormai lontani di Don Giuliano, alla sua umanità; per lui i

poveri avevano un volto e le sue braccia erano aperte.

Da alcuni mesi c’è sempre di giorno un ragazzo. Piuttosto robusto, bruno

di capelli. Un viso tondo con occhi scuri, attenti. Nella mano destra un berretto

con visiera sventolante; lo tende ai passanti. Attacca discorso con me. Viene

dalla Romania. Addenta con voracità un pezzo di pane e me lo offre. Fa molte

domande che sembrano inadatte alla sua condizione, ma, forse, è perché ha

bisogno di parlare. Gli dico: “Sei troppo giovane per vivere così. L’elemosina

più spesso viene data agli anziani, ai menomati”. “Ma io lavoro anche” mi dice.

Qualche volta porta le borse della spesa a qualcuno. Guarda il mio

carrello: “È vecchio”, mi dice. Rispondo: “Sì, ma funziona ancora bene”. Forse

sono il suo unico interlocutore. Mi mostra una foto mezza stracciata di dove

abitava in Romania. Lì un’anziana donna si prendeva cura di lui. Vede in me,

forse, una specie di nonna.

Io insisto perché si dia da fare. Ama stare isolato e credo non abbia un

posto fisso per dormire. Da una parte mi fa pena, dall’altra mi sento come

inseguita. Appena mi scorge attraversa la strada di corsa col suo berretto

sventolante. Gli spiego che non posso sempre dargli qualcosa. Deve lavorare.

“Ma che ci fai tutto il giorno seduto su quello scalino? Sei giovane, devi darti

da fare”. Da una parte mi fa pena, dall’altra non sopporto quel suo vago

ciondolare. Un giorno mi dice che torna in Romania. Gli do dei soldi per il

viaggio.

Il non vederlo più mi fa sentire più libera. Non riuscivo a comprendere il

perché della sua costante presenza e ricerca nei miei confronti. Non ha l’aria

violenta, semmai è un po’ spaesata. È andato via...

Poche sere fa me lo vedo venire incontro di corta col solito berretto

sventolante. È tornato indietro perché quel rifugio che lo accoglieva non c’era

più. Mi racconta di essere rom. I genitori lo hanno abbandonato da piccolo.

“Allora sei apolide, non puoi godere di nessun diritto”. Mi guarda; il viso

rassegnato ma privo di qualsiasi impegno di vita.

Scende la sera di questo lungo autunno. Va via di corsa e gira l’angolo.

Non può essere aiutato. Ho intuito che ama la solitudine. Anche lui uno dei tanti

che dormono su una panchina? Quali i suoi sogni? Mi sono abituata a rivederlo

la mattina quando rientro verso mezzogiorno. Mi chiede cosa ho nel carrello;

cosa mangio oggi. Mi dice: “È tanto buona la pasta”. Lo vedo come un

rinunciatario che riempie i suoi giorni di niente. Ci sarà mai per lui un futuro?

Seduta al mio desco solitario mentre mangio il salmone, mi sento in

colpa. Ho una casa, non mi manca niente e la solitudine mi è compagna.

Esiste un destino che ci rende differenti l’uno dall’altro o è solo il caso?

Accendo la televisione.

Firenze – 9 novembre 2023

Anna Vincitorio

 

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