martedì 18 giugno 2024

Giancarlo Baroni :"Italo Calvino…per me"



Ci sono scrittori con cui ci si sente particolarmente in sintonia, con i quali si crede di avere delle affinità anche caratteriali, scrittori che contribuiscono a plasmare la nostra sensibilità e il nostro modo di vedere, giudicare e comprendere il mondo, che svolgono il ruolo di maestri. Una di queste guide è stata ed è tuttora per me Italo Calvino (1923-1985), generosamente prodigo di consigli ogni volta che rileggo un suo libro.
Quando confessa di sé: «sono un saturnino [malinconico e introverso] che sogna di essere mercuriale [aereo, agile e leggero] e tutto ciò che scrivo risente di queste due spinte», rimango affascinato dalla precisione e concisione dell’analisi e ho l’impressione che, involontariamente, stia parlando anche di me. È un sentimento di rispecchiamento e di identificazione che tutti i lettori almeno una volta provano, una specie di transfert che consente alla letteratura di restare viva e attuale anche a distanza di anni, di durare.
Siccome mi ci riconosco pienamente, ho fatto mio questo motto latino adottato fin dalla giovinezza da Calvino: «Festina lente» («Affrettati lentamente»); un ossimoro che acutamente accosta due termini apparentemente inconciliabili.
Soltanto due altre massime mi hanno colpito altrettanto positivamente imprimendosi nella memoria: la prima, «Nec spe nec metu» («Né con speranza né con timore»), decora lo Studiolo di Isabella d’Este nel Palazzo Ducale di Mantova; la seconda, «Nec tumultus nec solitudo », campeggia sulla facciata neoclassica di Villa Levi-Tedeschi a Parma.
Se iniziamo la conoscenza di Italo Calvino leggendo per esempio il Castello dei destini incrociati (1973) o Palomar (1983) può nascere in noi l’idea che il loro autore sia soprattutto un occhio che in disparte guarda, osserva, scruta, indaga, e una mente che con lucido e distaccato rigore ragiona, riflette, combina, medita, elabora. Se proseguiamo però nella lettura dei suoi libri ci accorgiamo della varietà dei temi e dei toni e rimaniamo forse un po’ sorpresi dalla appassionata, calda e ravvicinata descrizione che Amerigo Ormea (il protagonista del breve romanzo La giornata di uno scrutatore, ambientato nel 1953 nel seggio elettorale torinese dell’ospizio del Cottolengo e pubblicato dieci anni dopo quando Calvino aveva quarant’anni) fa di un’amica: «Amerigo sentiva un bisogno struggente di bellezza, che si concentrava nel pensiero della sua amica Lia. E quello che ora ricordava di Lia era la pelle, il colore, e soprattutto un punto del suo corpo – dove la schiena fa un arco, netto e teso a percorrere con la mano, e poi subito s’alza dolcissima la curva dei fianchi – un punto in cui ora gli pareva si concentrasse la bellezza del mondo, lontanissima, perduta». Quanta sensualità in questo ritratto.
All’inizio del mio percorso di scrittore ho provato a scrivere romanzi e due, di nemmeno cento pagine, li ho anche pubblicati. Presto però, per una serie di motivi e giustamente consigliato da un autentico narratore come Antonio Pennacchi, ho abbandonato la narrativa a favore della poesia: ognuno deve trovare il linguaggio che gli è più naturale. I meccanismi narrativi non mi sono tuttavia estranei e sconosciuti, mi sono dovuto inevitabilmente confrontare e scontrare con loro. Ho sempre avuto l’impressione che quando scriviamo racconti e soprattutto romanzi diventiamo alcuni o tutti i personaggi che inventiamo; ci mettiamo nei loro panni, guardiamo le cose dal loro punto di vista. Il nostro io non scompare e non si annulla, ma si spezzetta; ciascuno di questi frammenti (che coincidono con parti della nostra personalità e della nostra esperienza) viene attribuito a un personaggio e costituisce ciò che di nostro gli portiamo in dote. Poi il personaggio cresce e si rende autonomo, separandosi da noi come un figlio anche un po’ ribelle. La sua libertà può entrare in conflitto con la nostra, ma le due indipendenze devono trovare un accordo se si vuole che il libro raggiunga la propria meta. Fra autore e personaggio si instaura una relazione dialettica, un fruttuoso scambio reciproco.
Parti del carattere di Calvino sono ad esempio presenti nell’intellettuale comunista Amerigo (come Vespucci) Ormea (anagramma di “amore”) che incontra e scopre una umanità sofferente, malata, infelice; nell’eccentrico e anticonformista Cosimo Piovasco di Rondò del Barone rampante (1957) che abbandona la famiglia e si ritira sugli alberi continuando tuttavia da là in alto a partecipare alla storia e alla vita collettiva («Nella tomba di famiglia c’è una stele che lo ricorda con scritto “Cosimo Piovasco di Rondò – Visse sugli alberi – Amò sempre la terra – Salì in cielo”»); sono presenti nel Marco Polo de Le città invisibili (1972) dove l’ambasciatore Marco descrive all’imperatore dei Tartari Kublai Kan alcune città dell’Impero che non esistono se non nei racconti che inventa: «A me sembra», sospetta scaltro l’imperatore, «che tu non ti sia mai mosso da questo giardino»; nel signor Palomar (del romanzo omonimo) che «ha deciso di limitarsi a guardare, a fissare nei minimi dettagli il poco che riesce a vedere, tenendosi alle idee immediate che suggerisce ciò che vede».
All’esploratore veneziano (viaggiatore per antonomasia assieme a Ulisse) ho dedicato la mia raccolta di versi Le anime di Marco Polo.
Oltre alla nitidezza dello stile e alla limpidezza della riflessione, i libri di Calvino affascinano per le massime memorabili, vere e proprie perle di saggezza che sanno armonizzare bellezza e morale, diletto e utilità, eleganza e rigore, estetica e conoscenza. Durante la lettura di ogni suo libro, almeno una frase illuminante e perfetta si fissa nella memoria e ci induce a pensare, riflettere e meditare.
Ecco una prima frase esemplare contenuta ne La giornata di uno scrutatore che, precisa l’autore in una nota, è un racconto «più di riflessioni che di fatti»: «D’altro canto, c’era sempre la morale che bisogna continuare a fare quanto si può, giorno per giorno; nella politica come in tutto il resto della vita, per chi non è un balordo, contano quei due principi lì: non farsi mai troppe illusioni e non smettere di credere che ogni cosa che fai potrà servire». Non illudersi e non rassegnarsi, non sperare in risultati eclatanti e non arrendersi al fallimento, alla cupezza, all’immobilità e alla sconfitta: fare ciò che si può e che va fatto. Evidenti le affinità con quest’altra dichiarazione compresa in un saggio pubblicato nel 1962 e intitolato La sfida al labirinto; qui l’autore ribadisce che la sfida deve prevalere sullo stallo, la ricerca sull’accidia: «Quel che la letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. È la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto».
Laconica, lapidaria, acuminata, la seguente sentenza dalle pretese all’apparenza minime, più adatta e comprensibile per un anziano come me piuttosto che per un giovane: «Tu sai che il meglio che ci si può aspettare è di evitare il peggio» (Se una notte d’inverno un viaggiatore, 1979). Invecchiando si diventa sempre più selettivi, si smette di accumulare, dal marasma dei fatti salviamo poche cose, frasi, libri, pensieri, immagini, emozioni, pensieri. Ci aggrappiamo a quello che resiste e rimane come fosse una scialuppa di salvataggio, coscienti che il naufragio sia inevitabile. Quando si discute di vecchiaia, del tempo inesorabile che scorre, delle rimembranze, dei rimpianti e dei rimorsi, inevitabilmente occorre citare, per la sua perfetta esattezza malinconica questo brano contenuto ne Le città invisibili: «Isidora è dunque la città dei suoi sogni: con una differenza. La città sognata conteneva lui giovane; a Isidora arriva in tarda età. Nella piazza c’è il muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù; lui è seduto in fila con loro. I desideri sono già ricordi».
Marco pronuncia a fine libro una frase da conservare per sempre nella memoria: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Discernere, distinguere, saper cogliere sfumature e differenze, affinare sguardo e giudizio, ecco i presupposti per una scelta e per un’analisi ponderate non costrette e ingabbiate dentro a un unico punto di vista.
Nelle Lezioni americane (1988) Calvino rivela la sua fondamentale propensione e preferenza verso le forme brevi: «Come per il poeta in versi così per lo scrittore in prosa, la riuscita sta nella felicità dell’espressione verbale, che in qualche caso potrà realizzarsi per folgorazione improvvisa, ma che di regola vuole dire una paziente ricerca del “mot juste”, della frase in cui ogni parola è insostituibile, dell’accostamento di suoni e di concetti più efficace e denso di significati. Sono convinto che scrivere prosa non dovrebbe essere diverso dallo scrivere poesia; in entrambi i casi è ricerca di una espressione necessaria, unica, densa, concisa, memorabile. È difficile mantenere questo tipo di tensione in opere molto lunghe: e d’altronde il mio temperamento mi porta a realizzarmi meglio in testi brevi: la mia opera è fatta in gran parte di short stories». Parole che suonano melodiosamente alle mie orecchie di scrittore di versi e che in una raccolta inedita intitolata Brevi, brevissime accoglie come epigrafe esplicativa questo ruvido ma icastico invito di Charles Simic: «Poesia breve: falla corta e dicci tutto quanto» (Il mostro ama il suo labirinto).
In Scrivere narrativa, Edith Wharton con proficuo buon senso ci ricorda che «si deve sempre poter dire di un romanzo “Avrebbe potuto essere più lungo”, e mai, “Non c’era bisogno che fosse così lungo”». Con altrettanta acuta ragionevolezza Flannery O’ Connor, Nel territorio del diavolo. Sul mistero dello scrivere, afferma che «Breve non vuol dire inconsistente. Seppur breve, un racconto deve svilupparsi in profondità e trasmetterci una pienezza di sentimento».
Nella lezione americana dedicata all’esattezza Calvino confida: «mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile… il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni d’insoddisfazione di cui posso rendermi conto ». Ho la sensazione di guardarmi allo specchio: quando parlo in pubblico le parole giuste non arrivano alle labbra, le cerco senza scovarle, come se ci fosse un ostacolo, un impedimento. Se vengo interrogato direttamente e a bruciapelo la mia mente gradualmente viene occupata da una foschia che sbiadisce i pensieri e vela le parole. Le frasi devono sgorgare con immediatezza e naturalezza altrimenti si rischia di incespicare in balbettii, di scivolare dentro pause da cui la voce stenta ad emergere. Solamente mentre scrivo non ho fretta di dire e se le parole adatte, quelle necessarie per esprimersi al meglio, non compaiono subito posso aspettare con pazienza che escano senza fretta dall’angolo della memoria in cui sembrano momentaneamente accantonate.
Quale lettore ideale vorrei leggesse i miei libri e quale lettore vorrei essere a mia volta per i libri altrui? Tranquillo, indisturbato, concentrato, comodo, immerso nel silenzio e protetto dai rumori, proprio come quello descritto da Calvino all’inizio di Se una notte d’inverno un viaggiatore: «Stai per cominciare a leggere […] Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto […] Prendi la posizione più comoda: seduto, sdraiato, raggomitolato, coricato. La porta è meglio chiuderla, di là c’è sempre la televisione accesa […] Alza la voce, se no non ti sentono: “Sto leggendo! Non voglio essere disturbato” […] Prendi la posizione più comoda: seduto, sdraiato, raggomitolato, coricato… In poltrona, sul divano, sulla sedia a dondolo, sulla sedia a sdraio… Sull’amaca, se hai un’amaca. Sul letto, naturalmente, o dentro il letto».
Calvino conclude così le Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio: «magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata di un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica». Nelle mie poesie non gradisco raccontare in modo esplicito di me, preferisco parlare di altre persone, creature e personaggi, animali compresi, stabilire con loro un contatto, una relazione e uno scambio, riferire storie e vicende che li riguardano, mimetizzarmi e mettermi nei loro panni, guardare il mondo attraverso i loro occhi e perfino farli esprimere direttamente. Possono essere per esempio viaggiatori ed esploratori (come Marco Polo), eroi del mito (come Ulisse), scienziati (soprattutto Darwin), una serie di pittori (da Masaccio a Basquiat), uccelli (a cominciare dai merli), singole persone comuni, come un’anonima signora affacciata alla finestra e alle prese con il rito quotidiano del caffè. Confesso però che con l’avanzare degli anni è riaffiorata l’urgenza di dire io, di parlare anche di me, di rivelare ciò che è possibile confidare.
A Cosimo Piovasco di Rondò, il barone rampante, mio alter ego, ho dedicato queste due poesie:

Il sogno di Cosimo

Salgo sull’albero
più alto del bosco
ad ogni ramo una domanda
di botanica
e la risposta giusta
se voglio proseguire
verso la cima
se aspiro a volare
di ramo in ramo
come un rosso scoiattolo.

Dall’alto guardo il mondo
come gli uccelli che incontro
subito sospettosi.
Sfioro le foglie
le accarezzo sentendo
i loro brividi
sulla mia pelle
che si tinge di verde;
canto insieme a loro
nel coro del vento.

Il barone rampante

Affacciato sul torrente Merdanzo
che lo stato delle cose richiama

da vecchio un’immagine lo incalza
di Viola ardimentosa mentre ama.

Il pittore Gerri Lunatici è l’autore del ritratto di Italo Calvino che accompagna il testo di Giancarlo Baroni. È contenuto nel volume Ritratti (Youcanprint, 2023).

(A cura di Silvia Pio, pubblicato nella rivista online "Margutte" il 9 giugno 2024 )

 GIANCARLO BARONI

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