lunedì 10 giugno 2024

Luisa Martiniello legge :"Lampi di quattro stagioni" di Antonio Crecchia



I versi sono affidati al quasi consueto scrigno di carta, questa volta quale strenna natalizia per i pochi amici di penna, che permangono nella rubrica del tempo, e giungono come l’ennesimo canto alla vita, a testimonianza del familiare esercizio nell’affrontare con coraggio una condizione esistenziale ancora una volta tormentata da deliri devastanti di guerra, promossi dalla ratio degli stolti, che richiamano nelle piazze spiriti ribelli in contrasto con la ragione positiva, solidale e costruttiva. Mala tempora currunt solevano dirci gli antichi e dopo l’esperienza del covid, ci saremmo aspettati una solidarietà leopardiana, di porfiriana memoria e invece l’ala nera dell’ingordigia, la sete di sangue, il disprezzo per la vita di tanti innocenti ci costringono a fare i conti con i satrapi di turno, per parafrasare Raffaele Bussi, soggetti alla legge dell’occhio per occhio, quella del taglione, dell’affamare e annientare. Non è più alla moda passare alla storia per essere umili servitori dei più deboli, Caino riprende il podio e guida la sua partita con minacce da traumi d’apocalisse con mani incallite di sterminio, con rigurgiti di empietà e trova seguito in servi esecutori, obbedienti/ai latrati aizzanti del despota. Vittima, ne è esempio, mons. Oscar Romero, che lottava per la dottrina pacifista/della terza via, contro le ingiustizie secolari/legalizzate dall’oligarchia dominante/ asservita al liberalismo feudale, per una evangelizzazione volta a sciogliere/ le catene d’infinite schiavitù, contro un potere inscalfibile da chi non ha arma su misura, nutrito di quella salda Fede nella Croce di redenzione.

Crecchia ci ha abituato a scenari naturali nei quali, però, convivono sempre due facce della medaglia e in questo lavoro poetico, per esempio, il sole assunto a simbolo di calore, che dirada metaforicamente le nebbie della vita, è in contrasto con la foglia, simbolo dell’umanità tremante, che è affidata all’usura del tempo: si sta come foglia uncinata/agli strappi dell’attesa. Così i petali di una rosea vita si stagliano eufemisticamente sul bianco lenzuolo dell’inverno, a segnare una dipartita, che vede spegnersi il sorriso su labbra sottili, consumate/al leggìo delle preghiere dell’amica Anna De Santis.

Con Lampi di quattro stagioni ci guida tra i colori dei mesi. Così febbraio, freddo, nell’incostanza abituale con la sua coda di giorni grigi presenta il conto da parte dell’inverno che, con spire di serpente viene personificato e abbranca e stritola nella morsa del gelo anche lo spazio ove soleggia una mimosa fuori ora.

Un’antitetica situazione si trova in Proteo, nome del cane da soccorso delle Forze Armate Messicane, che muore di fatica per salvare vite, stravolte dal terremoto del 6 febbraio in Turchia, mentre altrove cani umani ossimoricamente oleavano la macchina della guerra. Di fatto, dopo un anno, la terra è ancora sanguinante e sinistrata in Ucraina e ai tavoli per l’intesa Crecchia vede solo sorrisi di serpenti con il veleno/ nei denti, bocche aperte di coccodrilli alla ricerca di gloria per primato di crimini o la conquista d’una nicchia/nel museo degli orrori, sì che definisce i seguaci di Putin: mostri, che limano la dentiera/ per sbranare gli oppositori del regime. Significativo l’uso del termine dentiera, che, se da un lato, può per metonimia riferirsi a vecchi gerarchi, dall’altra può metaforicamente indicare la precarietà a fronte di una resistenza che l’onore/antepone al servile inchino. Il poeta non si lascia incantare dai commenti all’inizio di novella stagione. Giungono sempre echi di rombi e fragore di guerra, non vi presta attenzione, giacché afferma: hanno la ragione nel calzino, /sotto la pianta dei piedi, / e in tasca denaro caduto dalla luna.

La rondine, che ha recato con sé il fremito/del risveglio primaverile, che s’appalesa/ con il vispo fiorire d’un biancospino, lascia un solco di pace nella cosmica armonia, ma questa è profanata dall’uomo votato a servire /deità infernali.

Anche la scia di fumo bianco lasciata da un aereo rimanda a nefaste emissioni e porta il lettore a concordare con il poeta l’accusa che ci si trovi di fronte a una guasta civiltà, per abbandono del vangelo/ e fiaccola di verità caduta/ nella cloaca della disonestà.

La natura con i suoi tremori ricorda l’incertezza dell’esistere e il poeta si rattrista alle notizie che giungono da oltre orizzonte e proprio in un giorno senza senso, l’anima risorge/ e sfoglia l’incertezza delle ore, /la precarietà del tempo che ci divora.

Fuori un tumulto di onde, il taglio gelido del vento siberiano, un groviglio di nuvole e se la penna si inchina al verso per descrivere la clemenza di un giorno di marzo che presenta candidi sorrisi, abbozzati sui rami di biancospino, dall’altra la meditazione sulla profanazione della natura con devastazioni e rovine, / a presagi di

fuochi assassini. Il sole sembra un timido cerbiatto, che non si offre a porre rimedio al cielo che diluvia piaghe su una terra devastata /da insaziabile voracità umana, nel cataclisma primaverile in terra di Romagna. Maggio si presenta con onde di luce solare, // calde sul prato e il poeta sottolinea la sua presenza con il verbo sto, in ripetuta anafora iniziale, ma con la pena dell’ora che avanza. Si paragona a un ceppo solitario in un mare verde, mentre è catturato da un canto di cince in amore e anche in questa lirica una ennesima accusa all’uomo che ha rinnegato le tenerezze e il volto della Madre terra. Al poeta non resta che riandare al mito de le fatiche degli avi, // il respiro affannoso dei buoi /aggiogati e l’ansia di un volo/ nella sfera sublime dei Beati, giacché in altra lirica si dichiara ombra che cammina e nel decreto del Fato vede la condanna al silenzio/al sonno della pietra/ che si sgretola e s’interra.

Le pratoline saranno d’auspicio all’arrivo di un nuovo fiore in casa Crecchia: la bambina di Danilo e Caterina, gemma attesa, voce tinnante delle ore/ che danno alla vita colore e sapore.

Ecco l’estate con la sua floridezza e il poeta rinasce al sussurro improvviso/di vento che sale dal mare e si smarrisce nel baratro dell’immensità, /nell’effimera lucentezza di un meriggio, che feconda sorgenti di versi. Nella lirica In sospensione l’autore si paragona a un fringuello nel nido disfatto da cruda/ estiva tempesta, la penna è tra dita inaridite, si attende il flusso dei pensieri e siccome l’antica sorgente/ del canto singhiozza, il poeta volge se stesso all’amarezza della salita di Cristo verso la vetta e riscopre nel balsamo della forza divina il sostegno //per le membra fiacche.

Luglio che accende roghi di sole e tacita pioppi e cicale rammenta al poeta che l’uomo, ancora una volta è dissennato e per ottusità di senno e lunga mira, /ha programmato la sua rovina.

Significativa la lirica Meditazione sulla funzione di silenzi che fanno più rumore di montagne esplose/alla furia dei venti. Si tace, giacché, oggi, le parole, prigioniere di fitte ragnatele, /non hanno il potere del fuoco/ che scioglie i metalli, /non hanno il suono che risveglia/dal torpore del non detto.

E il poeta si stupisce ancora al canto di cicale, quasi del tutto dimenticato, una variazione di note, rivelazione, un frasario estivo che coglie di sorpresa, mentre il simulacro di S. Basso è issato su una barca /per il consueto abbraccio al mare, un tripudio d’insetti che si unisce al tripudio d’applausi e supera, anche se per poco, il frastuono umano del tempo. Il poeta sosta turbato, giacché è una melodia che ritorna al suo udito dopo tanto tempo che ha voltato le spalle alla natura amica, /per legarmi del tutto a una scrivania.

La sera estiva rimanda alle prodezze/di sciacalli d’ogni lingua e religione. La sera, personificata, balbetta tra fauci di caimani e poi rosseggia per i lampi di guerra che sciupano l’esistenza umana in terra d’Ucraina.

Il primo mattino di settembre si presenta con tenere brezze che aprono varchi nella roccia dell’apatia. Un desiderio dirompente è la fuga là dove una rondine si spinge per inebriarsi d’infinito, a riparo dal lacerante lavoro dei coltelli, e il poeta ancora una volta trova rifugio nella compagnia devota della Musa della poesia. L’autunno si ripresenta con le sue malinconie senza motivo e il poeta si paragona ad una pergola che ha maturato uva/ e in abbondanza dato vino e si ritrova ancora a solcare / le brume di quest’era incrudelita e fa affidamento ai suoi versi per colmare la cupezza/ delle ore dentro il limo del dissapore, per opporsi a questo mondo di orrori. Le rime, assonanze, allitterazioni accompagnano ora l’armonia del divenire, ora acuiscono e scandiscono l’ansia ,il tormento delle vicissitudini.

Novembre porta con sé il tormento della vita che passa veloce come fiato di vento, sì che il poeta si trova a spiare la distanza del tramonto, il domani che s’annuncia senza festa e percorre sentieri ghiacciati di brina, richiama nostalgie di stagioni, tra lamenti di terra. Crecchia conserva nello scrigno della memoria quanti l’hanno resa fertile e fonte di nutrimento, e in questa alterazione dei colori e dei profumi si alternano furori di versi/e cadute nel deserto della pigrizia, con l’animo a specchio d’un raggio di sole che porti a infiorare l’opera del Creatore.

Il verde cupo delle colline rimanda alla sanità del silenzio, di contro alle luci di stelle che rimandano ad accadimenti che turbano il poeta, ma ciò che egli teme di più è il sigillo che pone il Fato alle labbra loquaci dell’amico poeta Vincenzo Rossi o il baratro dell’oblio, destinato ai seguaci della Musa, sì che non trova pace il suo acuto oscuro tormento. L’autunno della vita/ imbianca i capelli e anche i pioppi scolorano e annotano una perdita di vigore, ma il poeta che consuma il respiro/ sopra fogli scritti e lasciati/all’oscuro destino, nel momento in cui avverte il transito dell’omega sempre più vicino, non si dà per vinto: uno spirito inquieto/mi

sprona a incontri/con l’Arte della parola, conscio e con occulta pena/ d’essere inviso alla torma/dei passeggeri incontrati per via, ma rincuorato dalla sapienza, che come madre benigna gli ha accarezzato i capelli, quale figlio scampato al diluvio/della malevolenza e dell’invidia. Il poeta si chiede dove siano la ragione, il dialogo/ la legge della morale trascendente, /la comprensione e il perdono, come sia possibile che dove nacque Cristo prevarichi ancora l’aggressività ferina, / la smania prevaricatoria/a deviare il percorso della storia.

Nevica e il biancore improvviso di dicembre viene accolto dall’anima come purezza di Paradiso, e seppure fiori appassiti rimandino a un tempo annichilito da violenza, nell’ultima lirica del testo Fragilità emozionale, vi è il presagio di una meteora che squarci il buio e porti la speranza che riattivi una rinascita dell’uomo, che un celeste sorriso di culla possa ancora invitare a guardare oltre l’oscurità del divenire.

Luisa Martiniello

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