Famiglia bronzo 1980
Senza titolo,creta
Crocefisso, creta bianca
L’innominabile
Spazio,
senza nome, senza
limite.
Non archi di luce o
cerchi di confine.
Ma ogni punto di
Spazio vuoto
è Dio.
Ma ogni punto separato di spazio è energia
e tutto ciò che
è-non è diviene, senza mai toccare o essere raggio.
Innumerevoli punti
divengono
velefuocoluce.
Innumerevoli.
Ognuno si stringe,
stringe, abbraccia
così immensamente,
con tanta enormità
che diventa Dio. E non
chiedergli nulla,
perché piaga e
spada,
perché voce e
silenzio,
perché vita e morte.
Non ti può
ascoltare,
le sue orecchie non
ascoltano
che il furore e la
pace.
Da ogni lato
sopravviene,
per ogni lato vola
via,
con l’immane
eternità.
E quando lo preghi,
ti dici le preghiere
per il tuo cuore
vuoto
verso il proprio
spazio.
Angelo Di Mario, da Spazio Tempo, Il Club degli
Autori,1998
Poeta, scultore,
etruscologo reatino scomparso nel 2013, Angelo Di Mario ha profuso inesauribile
slancio di ricerca e creatività visionaria in ogni ambito della sua poliedrica
attività artistica e culturale custodita, grazie alla tenacia e all’amore della
figlia, la giornalista Maria Grazia Di Mario, nella suggestiva Biblioteca Casa
Museo di Vallecupola di Rocca Sinibalda, scrigno documentario tangibile della
corposa produzione del nostro studioso. Dicevamo “visionario” e questo è tanto
più vero se pensiamo che il suo fervore d’indagine si spinse persino in ambito
etruscologico, ideando un innovativo metodo di decifrazione di questa lingua così
controversa proprio a causa del suo mistero. Ma non è dell’etruscologo (autore
di un centinaio di articoli e numerose pubblicazioni specifiche sulle
iscrizioni non solo etrusche) che vogliamo parlare, quanto del poeta,
favorevolmente recensito da critici di rilievo come Bàrberi Squarotti, un poeta
spesso intrinsecamente avvinto alla fluidità scultorea del segno espressivo e
all’indomita ricerca del senso dello spazio.
La lirica qui
proposta, Punto di spazio, tratta dalla raccolta Spazio Tempo,
1998 (titoli entrambi non certo casuali, come casuale non è il titolo Spazio
Tempo di una sua scultura) ne è esemplare dimostrazione. Abbiamo scelto
questa poesia, tra le tante dei tredici libri da lui scritti, per l’arduo
approccio filosofico che l’autore impone a se stesso e al lettore. A partire
dal primo verso, “L’innominabile Spazio”, il poeta pone il focus
su quello che crediamo sia il rovello filosofico di ogni scultore, di ogni
scultore che faccia della sua arte una tensione creativa oltre le capacità
stesse della possibilità umana. Il rapporto con lo spazio incarna in Di Mario
scultore il rapporto con il divino, inteso non solo in senso religioso (si
pensi alla serie di crocefissi e pietà), ma sacrale in senso lato, non esclusa
“la serie numerosa di sculture a forma circolare”, come da lui spiegato nella
densa postfazione al volume 118 di A più voci (Mosaico, Casa Editrice
Seledizioni, Bologna, 1987). E ben sappiamo, in merito, come il cerchio sia
simbolo dell’eterno ritorno e dell’infinito. L’indagine ossessiva sul tempo e
sullo spazio, sull’eternità e sulla forma, sull’assenza e la presenza, si
coagula in un pensiero speculativo per il quale (ci riferiamo ancora alla
succitata postfazione) la forma, cioè l’apparenza, coincide con il tempo nel
quale tutto muta e l’eternità si trova pertanto associata all’assenza di cui lo
spazio è espressione suprema. “L’assenza rappresenta lo spazio/l’eterno”. Di
qui il senso dell’incipit della poesia “L’innominabile Spazio / senza
nome, senza limite”, incipit nel quale la tautologia “innominabile/senza
nome” risuona come un’eco nella mente di chi legge. E ancora “ogni punto di
Spazio vuoto / è Dio”, laddove, al contrario, il concetto di energia si salda
alla materia, cioè a “ogni punto separato di spazio”. E di nuovo: “Innumerevoli
punti divengono / velefuocoluce. Innumerevoli”, quasi a voler visualizzare nell’unico
spazio (appunto) tipografico del neologismo velefuocoluce il senso del calore
e del colore con tutte le sue sfumature (vele) possibili, ipotizzando un
ambiente di punti nel quale “ognuno si stringe, stringe, abbraccia / così
immensamente, con tanta enormità / che diventa Dio”. Versi solo apparentemente
indecifrabili ma che, riteniamo, intendono tradurre in pensiero lirico il
mistero della creazione contemplata nella dimensione dello Spazio (non a caso
recante l’iniziale maiuscola).
A parte certe
reminiscenze, sicuramente improprie, ma inevitabilmente dirompenti nella nostra
memoria dalla concezione epicurea del clinamen come origine della materia nata dallo scontrarsi nello
spazio di punti nella loro caduta dall’alto verso il basso, affiora anche un parallelismo
tra il primo verso e “l’inconcepibile universo” del racconto L’aleph di
Borges, la prodigiosa apparizione di un solo punto luminoso nello spazio nel
quale lo scrittore argentino vede racchiuso l’intero universo in tutte le sue
dicotomiche manifestazioni, sia passate che future. Analoga dicotomia si snoda
nei versi di Di Mario nelle coppie nominali ossimoriche che conciliano “piaga e
spada”, “voce e silenzio”, “vita e morte”, “furore e pace”. E questo misterioso
Dio a sua volta, quasi ossimoricamente, in una ciclicità inesauribile a moto
alterno “da ogni lato sopravviene, / per ogni lato vola via / per l’immane
eternità”. Un’eternità inafferrabile al pensiero umano che attonito sente il
“cuore vuoto / verso il proprio spazio”. E con il concetto dello “spazio” si
chiude in circolarità tematica questa bellissima, ermetica lirica, ermetica in
forza dell’indecifrabile natura dell’essenza divina e della sua potenza
creatrice.
Mutatis mutandis, con altra forma comunicativa, quella ardua della
materia, il nostro artista esprime analoghi crucci, ma in modo non sequenziale
come avviene nel linguaggio, bensì simultaneo, tipico della spazialità
dell’arte scultorea. Illuminante, al riguardo, è l’acuta esegesi che della sua
opera plastica fa il critico d’arte e giornalista Luigi Tallarico (in Angelo
di Mario, dall’archivio alla parola poetica, “Atti della conferenza in
merito all’autore”, 28 settembre 2024, Vallecupola, Rieti, Edizioni Angelo Di
Mario APS, pp. 39-40). La poetica dello spazio, da cui è soggiogato il Di Mario
poeta, è ora trasposta nella durezza della materia attraverso “l’arcana
simbologia di un ritmo, di una tensione, di un concavo/convesso godibile come
uno spettacolo di ‘interno plastico’ e composto da più figure concatenate dalla
stessa polivalenza tensiva ed espressiva, servita fino all’astratta purezza,
per completare il modulo della ‘sua’ forma plastica”. Qui, nella scultura, in
questo gioco di concavo/convesso (afferma il Tallarico) si offre all’artista
“la possibilità di un’interna rivisitazione dello spazio e della luce, sicché
nei volumi cavi il gioco delle penombre consente arcane interpretazioni e nello
stesso tempo tramuta in un’incorporea sostanza la materia, verificata da una
plurispazialità che penetra nelle superfici bianche delle convessità (…) con il
risultato di assicurare quella morbidezza di passaggi tra interno-esterno, nel
gioco di luce ombra”.
Persistono quindi nella scultura, sia
in creta che in bronzo, quegli “archi di luce o cerchi di confine” negati invece
dal Di Mario poeta nel terzo verso della succitata lirica, laddove il Di Mario scultore
trascina nell’arte plastica con la schermaglia di vuoto-pieno anche quella consequenziale
di ombra-luce.
Le varie serie in
pietra, bronzo, creta bianca o colorata di depurate figure umane o di magmatiche
forme antropomorfe alternate a informi geometrie circolari spesso dentate o
recanti orbite vuote al loro interno e non di rado riferite a una
visualizzazione plastica del tempo, non possono non farci riflettere sulla
concezione che Angelo Di Mario possiede della fragile condizione di noi esseri
umani definiti, in un’altra significativa poesia, grinze di tempo inesorabilmente
corrosi da questa categoria labile e peritura contrapposta, nuovamente, a
quella dello spazio, sovrano e incessante:
“Perché nasciamo restando ai traguardi / mummificati
dal caotico silenzio: / grinze di tempo sullo spazio interminabile/ che è mare
violento e duraturo equilibrio” (in Proiezione fossile, Pellegrini
Editore, 1972).
Angela Ambrosini
Rubrica “Il sofà delle muse”, pp.
67-68




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