lunedì 20 ottobre 2025

Angela Ambrosini :" SPAZIO E TEMPO IN ANGELO DI MARIO, POETA SCULTORE " ( Bollettino Lunigiana Dantesca n. 218- ottobre 2025 )

 

                                                               Famiglia bronzo 1980

 

 Senza titolo,creta


Spazio Tempo, creta

Crocefisso, creta bianca

 PUNTO DI SPAZIO

 

L’innominabile Spazio,

senza nome, senza limite.

Non archi di luce o cerchi di confine.

Ma ogni punto di Spazio vuoto

è Dio.

Ma ogni punto separato di spazio è energia

e tutto ciò che è-non è diviene, senza mai toccare o essere raggio.

Innumerevoli punti divengono

velefuocoluce. Innumerevoli.

Ognuno si stringe, stringe, abbraccia

così immensamente, con tanta enormità

che diventa Dio. E non chiedergli nulla,

perché piaga e spada,

perché voce e silenzio,

perché vita e morte.

Non ti può ascoltare,

le sue orecchie non ascoltano

che il furore e la pace.

Da ogni lato sopravviene,

per ogni lato vola via,

con l’immane eternità.

E quando lo preghi,

ti dici le preghiere

per il tuo cuore vuoto

verso il proprio spazio.

 

Angelo Di Mario, da Spazio Tempo, Il Club degli Autori,1998

 

Poeta, scultore, etruscologo reatino scomparso nel 2013, Angelo Di Mario ha profuso inesauribile slancio di ricerca e creatività visionaria in ogni ambito della sua poliedrica attività artistica e culturale custodita, grazie alla tenacia e all’amore della figlia, la giornalista Maria Grazia Di Mario, nella suggestiva Biblioteca Casa Museo di Vallecupola di Rocca Sinibalda, scrigno documentario tangibile della corposa produzione del nostro studioso. Dicevamo “visionario” e questo è tanto più vero se pensiamo che il suo fervore d’indagine si spinse persino in ambito etruscologico, ideando un innovativo metodo di decifrazione di questa lingua così controversa proprio a causa del suo mistero. Ma non è dell’etruscologo (autore di un centinaio di articoli e numerose pubblicazioni specifiche sulle iscrizioni non solo etrusche) che vogliamo parlare, quanto del poeta, favorevolmente recensito da critici di rilievo come Bàrberi Squarotti, un poeta spesso intrinsecamente avvinto alla fluidità scultorea del segno espressivo e all’indomita ricerca del senso dello spazio.

La lirica qui proposta, Punto di spazio, tratta dalla raccolta Spazio Tempo, 1998 (titoli entrambi non certo casuali, come casuale non è il titolo Spazio Tempo di una sua scultura) ne è esemplare dimostrazione. Abbiamo scelto questa poesia, tra le tante dei tredici libri da lui scritti, per l’arduo approccio filosofico che l’autore impone a se stesso e al lettore. A partire dal primo verso, “L’innominabile Spazio, il poeta pone il focus su quello che crediamo sia il rovello filosofico di ogni scultore, di ogni scultore che faccia della sua arte una tensione creativa oltre le capacità stesse della possibilità umana. Il rapporto con lo spazio incarna in Di Mario scultore il rapporto con il divino, inteso non solo in senso religioso (si pensi alla serie di crocefissi e pietà), ma sacrale in senso lato, non esclusa “la serie numerosa di sculture a forma circolare”, come da lui spiegato nella densa postfazione al volume 118 di A più voci (Mosaico, Casa Editrice Seledizioni, Bologna, 1987). E ben sappiamo, in merito, come il cerchio sia simbolo dell’eterno ritorno e dell’infinito. L’indagine ossessiva sul tempo e sullo spazio, sull’eternità e sulla forma, sull’assenza e la presenza, si coagula in un pensiero speculativo per il quale (ci riferiamo ancora alla succitata postfazione) la forma, cioè l’apparenza, coincide con il tempo nel quale tutto muta e l’eternità si trova pertanto associata all’assenza di cui lo spazio è espressione suprema. “L’assenza rappresenta lo spazio/l’eterno”. Di qui il senso dell’incipit della poesia “L’innominabile Spazio / senza nome, senza limite”, incipit nel quale la tautologia “innominabile/senza nome” risuona come un’eco nella mente di chi legge. E ancora “ogni punto di Spazio vuoto / è Dio”, laddove, al contrario, il concetto di energia si salda alla materia, cioè a “ogni punto separato di spazio”. E di nuovo: “Innumerevoli punti divengono / velefuocoluce. Innumerevoli”, quasi a voler visualizzare nell’unico spazio (appunto) tipografico del neologismo velefuocoluce il senso del calore e del colore con tutte le sue sfumature (vele) possibili, ipotizzando un ambiente di punti nel quale “ognuno si stringe, stringe, abbraccia / così immensamente, con tanta enormità / che diventa Dio”. Versi solo apparentemente indecifrabili ma che, riteniamo, intendono tradurre in pensiero lirico il mistero della creazione contemplata nella dimensione dello Spazio (non a caso recante l’iniziale maiuscola).

A parte certe reminiscenze, sicuramente improprie, ma inevitabilmente dirompenti nella nostra memoria dalla concezione epicurea del clinamen come origine  della materia nata dallo scontrarsi nello spazio di punti nella loro caduta dall’alto verso il basso, affiora anche un parallelismo tra il primo verso e “l’inconcepibile universo” del racconto L’aleph di Borges, la prodigiosa apparizione di un solo punto luminoso nello spazio nel quale lo scrittore argentino vede racchiuso l’intero universo in tutte le sue dicotomiche manifestazioni, sia passate che future. Analoga dicotomia si snoda nei versi di Di Mario nelle coppie nominali ossimoriche che conciliano “piaga e spada”, “voce e silenzio”, “vita e morte”, “furore e pace”. E questo misterioso Dio a sua volta, quasi ossimoricamente, in una ciclicità inesauribile a moto alterno “da ogni lato sopravviene, / per ogni lato vola via / per l’immane eternità”. Un’eternità inafferrabile al pensiero umano che attonito sente il “cuore vuoto / verso il proprio spazio”. E con il concetto dello “spazio” si chiude in circolarità tematica questa bellissima, ermetica lirica, ermetica in forza dell’indecifrabile natura dell’essenza divina e della sua potenza creatrice.

Mutatis mutandis, con altra forma comunicativa, quella ardua della materia, il nostro artista esprime analoghi crucci, ma in modo non sequenziale come avviene nel linguaggio, bensì simultaneo, tipico della spazialità dell’arte scultorea. Illuminante, al riguardo, è l’acuta esegesi che della sua opera plastica fa il critico d’arte e giornalista Luigi Tallarico (in Angelo di Mario, dall’archivio alla parola poetica, “Atti della conferenza in merito all’autore”, 28 settembre 2024, Vallecupola, Rieti, Edizioni Angelo Di Mario APS, pp. 39-40). La poetica dello spazio, da cui è soggiogato il Di Mario poeta, è ora trasposta nella durezza della materia attraverso “l’arcana simbologia di un ritmo, di una tensione, di un concavo/convesso godibile come uno spettacolo di ‘interno plastico’ e composto da più figure concatenate dalla stessa polivalenza tensiva ed espressiva, servita fino all’astratta purezza, per completare il modulo della ‘sua’ forma plastica”. Qui, nella scultura, in questo gioco di concavo/convesso (afferma il Tallarico) si offre all’artista “la possibilità di un’interna rivisitazione dello spazio e della luce, sicché nei volumi cavi il gioco delle penombre consente arcane interpretazioni e nello stesso tempo tramuta in un’incorporea sostanza la materia, verificata da una plurispazialità che penetra nelle superfici bianche delle convessità (…) con il risultato di assicurare quella morbidezza di passaggi tra interno-esterno, nel gioco di luce ombra”.

 Persistono quindi nella scultura, sia in creta che in bronzo, quegli “archi di luce o cerchi di confine” negati invece dal Di Mario poeta nel terzo verso della succitata lirica, laddove il Di Mario scultore trascina nell’arte plastica con la schermaglia di vuoto-pieno anche quella consequenziale di ombra-luce.

Le varie serie in pietra, bronzo, creta bianca o colorata di depurate figure umane o di magmatiche forme antropomorfe alternate a informi geometrie circolari spesso dentate o recanti orbite vuote al loro interno e non di rado riferite a una visualizzazione plastica del tempo, non possono non farci riflettere sulla concezione che Angelo Di Mario possiede della fragile condizione di noi esseri umani definiti, in un’altra significativa poesia, grinze di tempo inesorabilmente corrosi da questa categoria labile e peritura contrapposta, nuovamente, a quella dello spazio, sovrano e incessante:

“Perché nasciamo restando ai traguardi / mummificati dal caotico silenzio: / grinze di tempo sullo spazio interminabile/ che è mare violento e duraturo equilibrio” (in Proiezione fossile, Pellegrini Editore, 1972).

 

Angela Ambrosini

Rubrica “Il sofà delle muse”, pp. 67-68

 

 

 

 

 

 

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