venerdì 14 novembre 2025

ANGELA AMBROSINI HAIKU: L’ ATTIMO IN POESIA


 

*

inizio d’autunno:

un solo verde nel mare

e nelle risaie

 

*

ad ogni parola

le labbra si fanno fredde:

vento d’autunno

 

MATSUO BASHO

 

*

fiori di colza:

anche l’autunno si piega

sotto la luna

 

YASUKO ANAMI

 

*

lontano e vicino si ode
scrosciar di cascate
tra foglie cadute

 

MASAOKA SHIKI

 

*

nebbia d’autunno

sembra uscire dai solchi

della campagna

 

LUCA CENISI

 

Una breve carrellata di haiku sull’autunno, in omaggio alla stagione che stiamo attraversando. Ma potremmo proseguire all’infinito, sia nelle stagioni che nei vari momenti del giorno, per celebrare attraverso i sensi la bellezza dell’universo percepito nei minimi dettagli del quotidiano, anche i più umili e anti celebrativi. Tale è infatti il focus di questo modello lirico giapponese risalente al XVII secolo, l’haiku, dilagato poi via via nella produzione di letterature in altre lingue nello schema prevalente di 17 sillabe (5-7-5) su ispirazione immediata del paesaggio e delle cose. Detta anche poesia delle cose, degli oggetti, deve difatti contenere nel testo un elemento lessicale (kigo) che faccia immediato riferimento o a una stagione o a un momento del giorno. In pratica è una specie di istantanea del mondo circostante, un macrocosmo nel microcosmo, una lente d’ingrandimento sulla natura. Il grande poeta Matsuo Basho (sec. XVII), ideatore dell’haiku, lo definì come “ciò che accade qui, in questo momento”. Se volessimo tradurlo in latino, avremmo hic et nunc, una specie di trasposizione in poesia dell’assioma en plen air della corrente pittorica dell’impressionismo, fatte salve tutte le differenze del caso (e del genere). Lo scrittore inglese Chamberlaine definì l’haiku “un lucernario aperto per un istante sul mondo”. Genere minimalista per eccellenza, alla sua brevità sillabica si saldano uno stile preferibilmente nominale, l’assenza di un titolo (se c’è, coincide con il primo verso), la mancanza di maiuscole (l’incipit è sempre in minuscola, salvo ovviamente nei casi di toponomastica o di nomi propri di persona), un esiguo ricorso alla punteggiatura, a meno che, ad esempio con i due punti, non si introduca il lettore a un passaggio fondamentale di sovrapposizione di due immagini in apparenza contraddittorie. Non compare mai il punto finale perché è poesia del non-concluso, di un’immagine del mondo che nasce e svanisce per poi perpetuarsi nel ciclo inesauribile della natura evocato costantemente dal poeta nel kikan, ossia quel “sentimento della stagione” che per mezzo del giusto kigo mostra il legame indistruttibile tra uomo e natura stessa: questo è infatti lo scopo del kigo, non un accessorio estetico o banalmente sentimentale. L’haijin, cioè lo scrittore di haiku, per essere un buon poeta è tenuto a espungere ogni manifestazione d’individualità soggettiva, ogni impronta di ego “laddove la differenza tra soggetto e oggetto è trascesa” penetrando “l’essenza profonda dell’oggetto (…) in una serena contemplazione del silenzio universale”, come spiega il presidente dell’AIH (Associazione Italiana Haiku) Luca Cenisi nel suo ineludibile saggio sull’haiku, La luna e il cancello, Castelvecchi, 2018, al quale facciamo riferimento. Minimalista è anche l’impiego dei tempi verbali, prevalendo il tempo presente a voler evidenziare questo hic et nunc di stampo orientale, questo “presente che non cela né il futuro né il passato, ma solo se stesso” in una visione statica ed estatica del cosmo e che necessariamente si sbarazza di ogni divagazione retorica legata al ricordo del passato o al desiderio del futuro. Impossibile disgiungere una tale visione poetica dalla spiritualità Zen imperniata sull’omissione dell’io, sull’esperienza di quel Grande Vuoto che a livello di creazione letteraria approda a una destrutturazione dell’io poetante, senza risvolti metaforici, simbolici o ridondanti. “Il tempo dell’haiku è senza soggetto”, afferma Ronald Barthes, poiché “articolato su una metafisica che non ha né soggetto né Dio” (L’impero dei segni, Einaudi,1984) e che riconosce nella neutra “quiddità” del quotidiano, della realtà delle cose, la verità assoluta, una verità che contiene in sé il vuoto e l’annientamento di categorie e opposizioni per noi irrinunciabili, come il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, il bello e il brutto, l’astratto e il concreto. Ma non è nostro intento addentrarci nella complessità e nell’alterità delle dottrine Zen, quanto piuttosto semplicemente assaporare quel senso trasognato di vaghezza sensoriale che trapela dai versi dei grandi maestri e che sconfina nell’estasi nonostante l’immersione totale nei sensi. Illuminante è al riguardo la riflessione del Barthes nel suo succitato saggio: “l’haiku non descrive mai: la sua arte è antidescrittiva nella misura in cui ogni stadio delle cose è immediatamente, caparbiamente, vittoriosamente trasformato in una fragile essenza d’apparizione”. Sono infatti l’elusività, la fugacità e la soppressione del superfluo i cardini di quella che potremmo chiamare filosofia dell’haiku, assimilabile in certa misura all’arte figurativa nipponica del sumi-e, gli scarni dipinti a inchiostro nero e grigio, nei quali i colpi di pennello dialogano con il supporto bianco della pagina, delegando a questo non colore le implicazioni dilatate del messaggio visivo.

Tornando al genere poetico, vogliamo concludere con le parole di Luca Cenisi: “Dote principale di un buon haijin è, dunque, quella di saper cogliere adeguatamente l’istante in cui la propria mente si stacca dal sé ed entra nell’oggetto, ricevendo gli stimoli esterni pur senza trattenerli, respingerli o interpretarli e lasciando che siano questi a parlare per lui”.

La vastità e il mistero del mondo nell’attimo fuggente di diciassette sillabe.

 

Angela Ambrosini

 

Rubrica “Il sofà delle muse”, pp. 46-47

Bollettino Lunigiana Dantesca n. 219

 

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