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inizio d’autunno:
un solo verde nel mare
e nelle risaie
*
ad ogni parola
le labbra si fanno fredde:
vento d’autunno
MATSUO BASHO
*
fiori di colza:
anche l’autunno si piega
sotto la luna
YASUKO ANAMI
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lontano e vicino si ode
scrosciar di cascate
tra foglie cadute
MASAOKA SHIKI
*
nebbia d’autunno
sembra uscire dai solchi
della campagna
LUCA CENISI
Una breve carrellata di haiku sull’autunno, in omaggio alla stagione che stiamo
attraversando. Ma potremmo proseguire all’infinito, sia nelle stagioni che nei
vari momenti del giorno, per celebrare attraverso i sensi la bellezza
dell’universo percepito nei minimi dettagli del quotidiano, anche i più umili e
anti celebrativi. Tale è infatti il focus
di questo modello lirico giapponese risalente al XVII secolo, l’haiku, dilagato poi via via nella produzione di
letterature in altre lingue nello schema prevalente di 17 sillabe (5-7-5) su
ispirazione immediata del paesaggio e delle cose. Detta anche poesia delle
cose, degli oggetti, deve difatti contenere nel testo un elemento lessicale (kigo) che faccia immediato riferimento o a una stagione
o a un momento del giorno. In pratica è una specie di istantanea del mondo
circostante, un macrocosmo nel microcosmo, una lente
d’ingrandimento sulla natura. Il
grande poeta Matsuo Basho (sec. XVII), ideatore dell’haiku, lo definì come “ciò che accade qui, in questo
momento”. Se volessimo tradurlo in latino, avremmo hic et nunc, una specie di trasposizione in poesia dell’assioma en plen air della corrente pittorica dell’impressionismo,
fatte salve tutte le differenze del caso (e del genere). Lo scrittore inglese
Chamberlaine definì l’haiku
“un lucernario aperto per un istante sul mondo”. Genere minimalista per
eccellenza, alla sua brevità sillabica si saldano uno stile preferibilmente nominale,
l’assenza di un titolo (se c’è, coincide con il primo verso), la mancanza di
maiuscole (l’incipit
è sempre in minuscola, salvo ovviamente nei casi di toponomastica o di nomi
propri di persona), un esiguo ricorso alla punteggiatura, a meno che, ad
esempio con i due punti, non si introduca il lettore a un passaggio fondamentale
di sovrapposizione di due immagini in apparenza contraddittorie. Non compare mai
il punto finale perché è poesia del non-concluso, di un’immagine del mondo che
nasce e svanisce per poi perpetuarsi nel ciclo inesauribile della natura
evocato costantemente dal poeta nel kikan,
ossia quel “sentimento della stagione” che per mezzo del giusto kigo mostra il legame indistruttibile tra uomo e natura
stessa: questo è infatti lo scopo del kigo,
non un accessorio estetico o banalmente sentimentale. L’haijin, cioè lo scrittore di haiku,
per essere un buon poeta è tenuto a espungere ogni manifestazione
d’individualità soggettiva, ogni impronta di ego “laddove la differenza tra
soggetto e oggetto è trascesa” penetrando “l’essenza profonda dell’oggetto (…)
in una serena contemplazione del silenzio universale”, come spiega il
presidente dell’AIH (Associazione Italiana Haiku) Luca Cenisi nel suo
ineludibile saggio sull’haiku,
La luna e il cancello,
Castelvecchi, 2018, al quale facciamo riferimento. Minimalista è anche
l’impiego dei tempi verbali, prevalendo il tempo presente a voler evidenziare questo hic et nunc di stampo orientale, questo “presente che non
cela né il futuro né il passato, ma solo se stesso” in una visione statica ed
estatica del cosmo e che necessariamente si sbarazza di ogni divagazione
retorica legata al ricordo del passato o al desiderio del futuro. Impossibile
disgiungere una tale visione poetica dalla spiritualità Zen imperniata sull’omissione
dell’io, sull’esperienza di quel Grande Vuoto che a livello di creazione
letteraria approda a una destrutturazione dell’io poetante, senza risvolti
metaforici, simbolici o ridondanti. “Il tempo dell’haiku
è senza soggetto”, afferma Ronald Barthes, poiché “articolato su una metafisica
che non ha né soggetto né Dio” (L’impero dei segni, Einaudi,1984)
e che riconosce nella neutra “quiddità” del quotidiano, della realtà delle
cose, la verità assoluta, una verità che contiene in sé il vuoto e
l’annientamento di categorie e opposizioni per noi irrinunciabili, come il
giusto e l’ingiusto, il bene e il male, il bello e il brutto, l’astratto e il
concreto. Ma non è nostro intento addentrarci nella complessità e nell’alterità
delle dottrine Zen, quanto piuttosto semplicemente assaporare quel senso
trasognato di vaghezza sensoriale che trapela dai versi dei grandi maestri e che sconfina nell’estasi nonostante l’immersione
totale nei sensi. Illuminante è al riguardo la riflessione del Barthes nel suo
succitato saggio: “l’haiku
non descrive mai: la sua arte è antidescrittiva nella misura in cui ogni stadio
delle cose è immediatamente, caparbiamente, vittoriosamente trasformato in una
fragile essenza d’apparizione”. Sono infatti l’elusività, la fugacità e la
soppressione del superfluo i cardini di quella che potremmo chiamare filosofia
dell’haiku, assimilabile in certa
misura all’arte figurativa nipponica del sumi-e,
gli scarni dipinti a inchiostro nero e grigio, nei quali i colpi di pennello
dialogano con il supporto bianco della pagina, delegando a questo non colore le
implicazioni dilatate del messaggio visivo.
Tornando al genere poetico, vogliamo
concludere con le parole di Luca Cenisi: “Dote principale di un buon haijin è, dunque, quella di saper cogliere adeguatamente
l’istante in cui la propria mente si stacca dal sé ed entra nell’oggetto, ricevendo
gli stimoli esterni pur senza trattenerli, respingerli o interpretarli e
lasciando che siano questi a parlare per lui”.
La vastità e il mistero del mondo nell’attimo
fuggente di diciassette sillabe.
Angela
Ambrosini
Rubrica “Il sofà delle muse”, pp. 46-47
Bollettino Lunigiana Dantesca n. 219

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