martedì 24 settembre 2024

Giovanni Bilotti, poëta maximus dell’anima*

 

  Nella mia missione di recuperare e rilanciare nel panorama letterario italiano personalità che meritano di occupare un posto di assoluto rilievo, ho avuto la preziosa occasione di occuparmi di uno scrittore ligure, al quale mi sono progressivamente legato da rapporti di sincera amicizia e di approfondita conoscenza letteraria: Giovanni Bilotti, che ha, a sua volta, la fortuna di risiedere in uno dei luoghi più letterari del nostro straordinario Paese: quel Golfo dei Poeti, nel quale hanno trovato rifugio, tra mare e colline, personalità di alto spessore culturale.

   Il mio incontro con Bilotti è stato profondamente segnato da fattori territoriali, biografici e intellettuali, i quali mi hanno, all’inizio, consentito di penetrare quelle radici umane, che sono all’origine della sua poesia, come dimostra una mia monografia a lui dedicata.

   Sin da questi primi incontri e dalla conoscenza progressiva della sua biografia intellettuale e poetica, ho avvertito le notevoli potenzialità che la sua vita e la sua opera conquistavano all’interno di un contesto ambientale e letterario, nazionale  e internazionale, che nel tempo si sarebbe naturalmente amplificato e arricchito di tematiche, ma soprattutto di intime e intense proiezioni poetiche; risultato, si direbbe, biologico di una personalità, che non poteva essere condizionata dai pur ragguardevoli risultati di una tradizione ligure consolidata, ma con inquieta intelligenza e sensibilità, cercava e trovava orizzonti più vasti, che rinvenivano il loro focus e il loro slancio nella scontrosa, ma fertile, socievolezza della sua personalità, la quale nella poesia aveva finalmente scoperto l’isola del tesoro, sepolto e sommerso da un mondo, nei confronti del quale egli assumeva un atteggiamento di indipendenza creativa e critica, che inevitabilmente lo avrebbe coinvolto.

   Il poeta vive nel silenzio e nella solitudine di una vocazione autentica e assoluta, che offre a chi bene intende e sente, nella speranza che il suo respiro venga riconosciuto nella sua totalità e vitalità.

   Già dalla prima silloge poetica La voce in antiorario (Padova 1977), non a caso riedita nel 2021, Bilotti rivela la sua “antiorarietà” nei confronti di una poesia contemporanea, che ben conosceva e che proprio in Liguria aveva celebrato i suoi trionfi, com’è accaduto di rilevare in altre occasioni. Ma il poeta — e qui consiste la radice più profonda del suo “caso” letterario — è come, senza condizionamenti e compromessi, volesse cercare se stesso e dare a questo personaggio, che la poesia gli avrebbe offerto, la possibilità di indovinare e individuare un linguaggio che fosse tutto suo, perché scaturito dai recessi della sua vita e della sua anima.

   Le prime raccolte di Bilotti affondano, sin dai titoli eloquenti, le radici in quel vissuto biografico, segnato da eventi determinanti, da luoghi e persone che hanno dato una o più svolte alla sua o alle sue vite. Come un fiume può nascere da una polla per farsi mare, così il poeta, con una filologia sentimentale ardua e fedelmente aderente a quei “sentimenti”, che, come ha ben notato Alberto Zattera, costituiscono le voci originarie della sua vita e, inevitabilmente, occorre aggiungere, la sua poesia, da devoto e discreto figlio e nipote, come dimostrano le poesie riportate, diventa marito, padre e nonno amoroso, seguendo un corso profondamente umano, che si rispecchia fedelmente nella sua poesia e che troverà nella scoperta dell’amore per Mariangela una luce nuova.

   Da critico, anche classicista, a parte le intime interferenze emotive ed esistenziali con il mondo classico, messe fino ad oggi in parte in luce soprattutto dall’acribia di Paolo Bertini, mi sembra di potere per la prima volta affermare, anche e soprattutto sulla scia di quanto qui documentato, che Giovanni Bilotti si sia, efficacemente ed esemplarmente, creato un Pantheon familiare, al quale si rivolge, per trovare la forza di vivere, per amare, sognare, scrivere. Leggendo, con particolare partecipazione queste raccolte, sembra attraverso le parole, e, io aggiungerei, le voci, dei vari personaggi, il che potrebbe rappresentare un suggerimento scenografico, di assistere, in un teatro greco dall’acustica perfetta, alla interpretazione di parti legate ai singoli personaggi, che hanno miracolosamente e pirandellianamente trovato finalmente in Bilotti il loro auctor, termine, e lo dice un professore anche di greco e latino, che non va banalizzato nell’automatica traduzione italiana di autore, ma va ricondotta alle sue più autentiche radici filologiche, dal momento che l’autore è colui che accresce, amplifica e assolutizza le personalità e le loro storie, trasferendole dal mondo della realtà apparente a quella dell’arte effettuale. E che cos’è la poesia, scorrendo i tasti bilottiani, se non questa sconfinante esigenza di umanità, che, proprio grazie alla parola, può farsi eternità?

   Ma c’è ancora un altro aspetto critico, che, in ambito classico, va evidenziato e che non si limita alla impostazione strutturale dei componimenti, i quali nel tempo risentiranno, rinforzandosi, di influenze anche orientali, ma è quel tu del dialogo, che merita di essere sottolineato e che a volte sembra aspettare la morte per essere proclamato e dare l’avvio a un dialogo, che non sempre la vita consente. Compito della poesia, del resto, è quello di dire l’indicibile, quello che non sempre si riesce a dire, ma, che, nel momento in cui viene detto, conserva una tenuta salda nel suo mancamento.

   Ed è forse qui il nucleo centrale della poesia di Bilotti, che qui si espone, la quale, innanzitutto, si muove in antiorario, seguendo cioè un’alternativa cronologicità emotiva, ma, elemento importantissimo, inverte, con una libertà inventiva tutta sua, impossibile da cercare e trovare altrove, i termini di codificati rapporti, creando una metaforologia, interna ad ogni singolo componimento, ma capace di determinare una suggestione spiazzante, che non si concentra, come generalmente accade, nel finale, ma si distende in tutto il testo, con effetti senza dubbio personali e originali, che non hanno nulla di artificiale, come per molti esperti poeti contemporanei, ma conservano una sorta di indifesa verginità, una purezza emotiva ed esistenziale, che giustifica pienamente il dérèglement, che il poeta opera senza chiedere permesso a nessuno. Ed è, questa, una delle ragioni che ha indotto a ritenerlo un caposcuola poetico, che non ha bisogno di ismi e di referenti vicinamente lontani. Bilotti è Bilotti e basta e, pur non amando definizioni categoriche e convenzionali, lo si può considerare un involontario maestro di poesia e di se stesso, insomma un ineludibile simbolo poetico del nostro tempo.

   A questa naturale predisposizione lirica, dunque, non a caso, si congiunge un’altra più propriamente poematica, che agevolmente rinvia a modelli della classicità, che Bilotti non ha mai rinnegato, semmai consapevolmente valorizzato. Con moderna modestia, i suoi si definiscono pseudo-poemi, che prendono l’avvio da un testo esemplare La farfalla, recentemente ristampato. Lo pseudo-poema dà l’avvio ad un’autentica serie animalista, come documentano i titoli: Animali, Il cane che si morde la coda, che saranno raccolti nel 2021 con la mia prefazione. Non si tratta solo di una reale forma di animalismo comunitario, tra l’altro familiare e realmente praticato in casa Bilotti e fuori, ma della ferma persuasione ecologica di una animalità, che aiuta a penetrare la pseudo-poematica dell’umanità, le sue fragilità, le sue intemperanze, persino le sue criminalità nei confronti di un mondo, che ancora oggi dagli animali ha molto da imparare. La farfalla, lieve e colorata, si posa sui suoi fiori e rivela, nella brevità della sua esistenza, la bellezza del mondo, che noi potremmo godere per un maggior tempo, ma che invece violentiamo e distruggiamo, non traendo alcuna lezione da quegli animali che Bilotti e sua moglie Mariangela amano e nutrono come amici fidati, a volte, più degli uomini. Andando più a fondo, c’è in questo poeta, come ho amato spesso definirlo, scontrosamente socievole, una ecologia dello spirito, ben diversa da quella sbandierata dai mezzi di comunicazione di massa, che lo induce realmente ad amare la natura, a rispettarla, a sentirla respirare dentro di sé e con essa i suoi ospiti, cioè gli esseri umani, quelli che la abitano e la devastano, molto simili a un cane che si morde la coda e scappa via.

   È questa la poesia civile di Bilotti, nella quale egli esibisce una serie di esempi sconcertanti, che dovrebbero far riflettere uomini che non vogliono pensare ma solo vivere a modo proprio, dimenticando il semplice fatto di essere parte di una società, cosiddetta civile. E questa socialità, che ha fruttato il Nobel a molti poeti e scrittori, dovrebbe costituire uno dei nuclei vitali di una poesia, che sente, come ebbe modo di dichiarare apertamente Quasimodo, di non poter pensare solo a se stessa, ma di doversi aprire al mondo e alle sue problematiche più deliranti e urgenti. Sarebbero, queste, opere destinate alle scuole, che sembrano avere dismesso il compito di impartire in maniera adeguata una educazione civica, quella che, per la sua mancanza, provoca ogni giorno morti e violenze. Come si può pensare, seguendo Bilotti, che la poesia sia inutile? Lo sarà, forse, per alcuni suoi aspetti, ma resta comunque un bene inutile, di cui però non si può fare a meno.

   E, a tal punto, sembra opportuno inserire un significativo spartito critico, dedicato alla narrativa di Bilotti per l’infanzia, suggerita dal suo rapporto con il nipote Filippo e un giovane amico, ma poi destinata ad assumere un ruolo strategico non trascurabile nell’affermazione del valore inestimabile della cultura, ovviamente adattata all’infanzia, forse anche per l’inconscia consapevolezza del ruolo rivoluzionario dei libri svolto sulla sua formazione giovanile, grazie alla mediazione dello zio Marco.

   Non è certamente il caso di scomodare autori, come Leopardi o Pascoli, per confermare l’idea ineliminabile che l’infanzia è, in qualche modo, la stagione fondamentale dell’esistenza e, rincarando la dose, che quanto resta è una sorta di rendita, che in letteratura capita spesso di richiamare, come accade del resto allo stesso Bilotti, il quale in diverse occasioni importanti del suo cursus vitae, ha avvertito l’esigenza di ricomporre le radici e gli sviluppi della sua genealogia familiare e personale.

   Ma lo spazio critico che si intende qui riservare alla complicità letteraria che nonno Giovanni è riuscito narrativamente a stabilire con il nipote Filippo acquista una rilevanza non trascurabile sia per la sua continuità sia per la sua creatività. Bilotti, innamorato della letteratura, ha voluto fermare e raccogliere momenti irripetibili di un incontro, fertile per le parole ma anche per le immagini che ne sarebbero scaturite, mostrando una sorta di concordanza appunto creativa, capace di rinsaldare i rapporti affettivi e mentali tra nonno e nipote, rivelandosi in questo un efficace pedagogo, che ancora affida alla letteratura il compito di connettere anime e storie, ma, allo stesso tempo, ha mostrato di assorbire, con umiltà e amore, i segnali, gli stimoli, che questo incontro generava nel suo animo poetico, il quale è particolarmente esposto a cogliere e maturare i germi che gli vengono sottoposti, animando, arricchendo, in qualche modo, ringiovanendo felicemente la visione del mondo, che solo i ragazzini, con la loro fantasia esuberante e la loro segreta saggezza riescono a dare a un mondo spesso in letargo, che ha bisogno di scosse vitali per potersi risvegliare, come hanno mostrato scrittrici, dalla Morante a Maraini e, per il mondo maschile, il geniale Rodari. L’esperimento di Bilotti è, tuttavia, ancora una volta, originale e significativo, perché non è l’adulto che si assume il compito di insegnare, attraverso il racconto favolistico, la vita, peraltro a lungo vissuta, ma accade paradossalmente il contrario, dal momento che è come se lo scrittore si facesse umilmente da parte per lasciare tutto lo spazio creativo e critico a quella infanzia, che, anche negli anni più avanzati, ha sempre qualcosa da suggerire, da insegnare.

   E qui si inserisce, secondo la metodologia adottata, ad incastro, sul quale la critica non sembra essersi sufficientemente soffermata, il surrealismo del nostro autore, che sarebbe agevolmente correlabile alle immagini suggestive e spesso spiazzanti contenute anche nei libri per l’infanzia.

   L’amico e collega Giorgio Barberi Squarotti, in una delle molte missive, inviate al nostro autore, evidenziava la particolare validità letteraria di un’opera narrativa, anch’essa recentemente ristampata, I Celestini, la quale conferma in pieno quanto si sta tentando di dire, in relazione a un surrealismo letterario, che tuttavia sempre rinvia a ragioni reali, anche se le vicende avvengono in un mondo iperuranio: prima fra tutte la lotta ciclicamente ineliminabile tra bene e male. Il richiamo surreale affascina tutta la produzione bilottiana, compiendo il miracolo, evidenziato in altra sede, di accomunare e accostare prosa e poesia, secondo un procedimento, che sarebbe letterariamente agevole rinviare a una metodologia di marca simbolista di derivazione non nostrana, ma che, nel caso di Bilotti, si abbarbica tenacemente a una teoria di umani sentimenti, che conferiscono ai suoi racconti una carica di umanissima interdipendenza tra parole e voci, tra le cose che si dicono e quelle che si immaginano, si sognano, in un rapporto estremamente dialettico e stimolante tra realtà e surrealtà, tra ciò che si tocca e si vede e ciò che rischia di essere relegato, come notava Pirandello, in una dimensione energicamente misteriosa. Ed è forse qui il nucleo della questione, che autorizza a considerare il nostro autore tra i più acuti e originali del nostro tempo, per la capacità di evitare un corto circuito tra realtà e surrealtà, riuscendo a estrarne il valore etico ed esistenziale e ad assimilarle quindi ad una dimensione estetica, la sola capace di proteggerle da una contrapposizione disperante. Bilotti dimostra che la sintesi è la più alta forma di congiunzione tra critica e creazione e basterebbe questa intuizione per qualificarlo tra i più rappresentanti testimoni e interpreti del nostro tempo.

   Si resta, a volte, sorpresi che autori, i quali non hanno pubblicato con grandi case editrici, non hanno partecipato e ricevuto premi di risonanza nazionale, abbiano però recato un contributo di rilevante spessore alla letteratura del proprio Paese, il quale va però scandagliato, con onestà intellettuale e partecipazione passionale, generalmente bandita dai critici di professione, nei gangli, nei passaggi, nelle intersezioni delle loro creature. Ecco perché ho ritenuto di dover suggerire a una casa editrice, generosa e intelligente, anche per lunga esperienza, di restituire a scrittori, come Bilotti, ciò che hanno donato con disinteresse e amore.

   Anzi, dal momento che l’occasione si offre propizia, bisognerebbe insistere non tanto e non solo sulla fatica dello scrivere ma, nel caso specifico di Bilotti, su una encomiabile maniacalità, che accompagna la sua scrittura, la quale non conosce la staticità e la immobilità, ma rincorre le parole, perché conquistino lo spazio perfettamente corrispondente al pensiero e al sentimento dell’autore. Un lavoro — e mi fermo qui — silenzioso e solitario più degli altri, che impegna contemporaneamente il corpo e la mente. Gli scrittori partoriscono parole e il loro percorso creativo è molto più tormentato ed esaltante di quanto possa apparire. E anche questo per Bilotti andava detto, data la concordanza di un lavoro, che lo porta tenacemente ad elaborare nuove opere, mentre è faticosamente intento a perfezionare le precedenti. Forse è l’unico caso italiano in cui la bibliografia, nonostante gli sforzi dell’ottimo Zattera, suo quotidiano compagno di viaggio e avventura, sia in continuo, stimolante movimento, creando una sorta di compagnia di trovatori, votati alla scrittura e alla critica, alle quali hanno dedicato una parte non trascurabile della loro vita.

   C’è un altro aspetto della personalità e della produzione di Bilotti, che merita di essere evidenziato ed esaltato, perché generalmente compiuto a sue spese. I liguri sono falsamente celebri per la loro parsimonia, Bilotti ha dimostrato in letteratura il contrario, valorizzando proprio la territorialità storica e culturale de La Spezia e di quella Lunigiana storica, sulla quale si è efficacemente accanito, producendo, con il relativo aiuto di coloro che gli sono più vicini e che avrebbero talvolta voluto fare di più, opere testamentarie, destinate a durare e ad entrare anch’esse nella più ampia e articolata bibliografia nazionale. Ci si limita a un testo che ha generalmente dato spazio alle personalità degli autori presi in esame: dall’Antologia poetica “Il Torretto” (1990), ma poi, in mirabile sequenza, La Spezia letteraria. Profilo storico della poesia e della narrativa spezzina (2002); Storia della letteratura spezzina e lunigianese (2007); Ciao, Paolo (2012), opera dedicata al poeta Paolo Bertolani; La letteratura della Lunigiana storica, in ben tre corposi volumi, e infine, ma solo per il momento, il Dizionario-bibliografico degli scrittori spezzini, immodestamente dedicato a chi scrive, con il quale ha intrattenuto, come con Giorgio Barberi Squarotti, una fitta corrispondenza, entrambe pubblicate, questa nostra, con i testi critici a lui dedicati.

   Lo scrittore, come nel caso di Bilotti, se è dotato di una vocazione operativa, deve metterla in pratica, cosa che egli ha regolarmente fatto. Ma un’altra caratteristica del nostro autore è quella di avere favorito collaborazioni tra personaggi consentanei per formazione e produzione, sempre in nome di una territorialità, che, come dimostra la nostra collaborazione, è giustamente proiettata a valorizzare il proprio territorio e a farne diventare figli adottivi studiosi, come chi scrive, tenacemente convinti, come sosteneva Vinicius de Moraes, che la vita e, bisognerebbe aggiungere, la letteratura, la scrittura è l’arte dell’incontro, che sarebbe un’occasione mancata non coltivare, in nome di una comune passione, che, come l’amore, può unire due culture, due menti, due cuori.

   La Spezia e il suo territorio, diventato anche un po’ mio, devono dunque rispetto e gratitudine a un uomo che, come un gigante solitario, un gladiatore invincibile, si è battuto per restituire alle sue terre, alle sue genti, quella nobiltà, che ad esse spettava per diritto di sangue (si pensi alla straordinaria presenza dantesca) e che un presente, egoista e distratto, ha rischiato di rimuovere in nome di falsi miti.

   Ma c’è un altro leitmotiv, sul quale la critica non sembra essersi soffermata adeguatamente e che potrebbe rivelarsi di notevole momento per penetrare il segreto laboratorio creativo del poeta e rinsaldare la definizione di caposcuola di una nuova linea, che ho ritenuto di dovergli attribuire, anche e soprattutto sulla base di specifiche aperture, che senza rinnegare ovviamente la tradizione ufficiale di una consolidata sperimentazione poetica novecentesca, riescono a rivelare l’influenza anche di altre insospettabili esperienze poetiche, le quali proiettano la sua poesia in una dimensione internazionale, conferendole un respiro del tutto particolare, pienamente confacente alla sua vocazione letteraria.

   Aggirandomi nella sua biblioteca, affollata di testi fondamentali della letteratura di tutti i tempi e tutte le nazioni, fui colpito da splendidi volumi di autori orientali, di alcuni dei quali ero stato in precedenza indotto ad occuparmi per la intensità e originalità della loro ispirazione, a volte monotematica, altre ecletticamente argomentativa. Quelle incursioni mi convinsero ancora di più della necessità di una critica, che non continui a percorrere accertati sentieri, autorizzati dagli stessi autori, ma a meglio scandagliare terreni vergini, capaci di alimentare nuovi solidi arbusti.

   In verità, sia Bertini che Zattera, per le loro specifiche aree di competenza, avevano suggerito percorsi intertestuali, confortati da referenti filologici e ideali di sicuro interesse, ma qui si intende soprattutto segnalare la sostanziale attrazione che Bilotti, ancora una volta, mostra verso insospettabili esperienze, capaci di alimentare e rinsaldare la cosmica identità della sua poesia.

   Già, in altra occasione, mi capitò di accennare a una sorta di esoterismo, che mi indusse a ricordare il geniale Battiato, invaghito dell’universo orientale. Il referente è significativo, perché congiunge vita e morte, e consente, come nel caso emblematico dei Celestini, di accostare, con consapevole coscienza critica e originale capacità narrativa, Cielo e Terra. Il poeta, lo scrittore resta uno speleologo del mistero, che è chiamato a interrogare, per provare a sfiorare l’assoluto, l’infinito, che egli rincorre e che resta l’anima più autentica della sua vocazione alla parola, alla voce, che spesso ha fatto risuonare, con affabile armonia, persino nel titolo delle sue opere, le quali, com’è possibile verificare, ora si distendono ora si restringono nella ricerca di una essenzialità esemplare, che rifiuta ogni facile orpello.

   Ed è qui che bisogna individuare una matrice, che si definisce generalmente orientale e testamentaria, nella capacità della parola di dare sostanza al mondo e di illuminarlo, perché, come accade nella tradizione occidentale, non si innamori di se stessa.

   E Bilotti, anche nelle composizioni più intime, conserva sempre il presunto distacco del grande poeta, dell’artista, che, nonostante la inevitabile partecipazione emotiva, attribuisce alla parola tutto il suo valore semantico, senza cedimenti o abbandoni, dimostrando quella magistralità, che appartiene a coloro che scrivono non solo per sé ma anche per gli altri e quindi aderiscono a una democrazia dello spirito, che la parola deve avvalorare e mai barattare o sciupare.

   Chi percorre la poesia orientale, si accorge di questo processo di complicità e di distacco del poeta, in nome di una visione noumenica, che può divenire gnomica, del fare poetico. Ecco perché alcune esemplari composizioni bilottiane sembrano talvolta accostarsi a degli haiku, epigrafi dell’anima, la cui voce ha spesso bisogno di poche parole, che, sgorgando dalle intimità più segrete, acquistano un valore indispensabile, persino sacrale. Il poeta, del resto, e Dante ampiamente lo dimostra, come ho tentato più volte di mostrare, è un sacerdote della parola, laicamente offerta come espressione di una umanità totale, nella quale sono chiamate a convergere tutte le espressioni di una creaturalità, che si propone come ostia offerta alla storia.

   Ed è in questo preciso momento che non si può non richiamare la religiosità, libera e felice, del nostro autore, di cui la sua poesia offre molteplici occasioni di verifica. L’attraversamento della vita nella poesia coglie i suoi magici momenti di sublimità, che annunciano una eternità, che ancora una volta la parola riesce a fermare e a non far trascorrere come atto precario e provvisorio. Machiavelli invitava a non lasciarsi sopraffare dalle apparenze; lo sforzo, talvolta eroico, dei poeti consiste proprio nello sconfessare ciò che il senso comune ritiene miticamente ineguagliabile. La religione di Bilotti è quella che crede in Dio e, soprattutto, e qui il poeta non può fare a meno di confessarsi, nella eternità dei sentimenti più puri e profondi.

   Forse per questo, insieme ad altri, pochi e veri poeti, può essere considerato un fratello d’anima, con il quale condividere alcune delle stagioni più autentiche e avvertite della nostra vicenda culturale.

   Il profilo tracciato lo pone quindi in prima linea nella faticosa esperienza di una poesia che nella parola non vuole mai tradire la vita, la sua essenza di solitudine e comunità. Chi non frequenta la cultura, rischia di non cogliere il titanismo di una esperienza, il più possibile, totalizzante, per sé e per gli altri. Per questo va riconosciuto a Bilotti l’alloro petrarchesco del poeta, amato e onorato, per la sua umile grandezza di uomo e la consapevole compiutezza di poeta.

   All’interno della poesia contemporanea, che continua a perseguire strade solitarie e non sempre conosciute nelle loro possibili corrispondenze, Bilotti percorre una strada maestra, che lo conduce ad elaborare una poesia alternativa, che affonda le radici nel suo essere più verace e lo fa con un linguaggio, che, pur attingendo alle parole della tradizione, come in una enigmatica scacchiera, le dispone secondo schemi, ogni volta dettati da metafore e sinestesie inedite e impreviste, che il lettore deve saper cogliere con la stessa attenzione che il poeta pone nel formularle, secondo un sistema, che si potrebbe definire filosoficamente poetico, in cui ragione e sentimento riescono a convivere armoniosamente.

   L’armonia, che la vita non sempre concede, Bilotti la cerca e la trova nella poesia, la quale appare intimamente percorsa e segnata ora da una intimità sentimentale prorompente ora da una civile partecipazione alle problematiche più coinvolgenti del nostro tempo, ma sempre secondo una espressività armonica, capace di dominare le intemperanze della parola e della vita stessa. Anche in tal senso, egli si rivela maestro accorto e consapevole, capace di ritmare prosodia e metrica ai sussulti dell’anima e della mente, evitando sperimentalismi e giochi linguistici, a cui la poesia contemporanea si è troppo abituata con risultati non sempre convincenti e soddisfacenti. La vera sperimentazione per il nostro poeta avviene nell’infinito dell’anima, che non conosce confini e ama aderire costantemente a quella identità dell’essere, di parmenidea memoria, che la scrittura del Duemila mostra talvolta di avere smarrito, in inevitabile complicità con l’accidia e la dispersione emotiva, che sembrano caratterizzare il nostro secolo.

   Bilotti, al contrario, vuole faticosamente ricomporre i frammenti volanti di una Odissea dello spazio e del tempo, dopo avere pensato e sofferto, per restituire alla poesia il suo valore etico ed esistenziale, come antidoto epocale a quel male di vivere, che va ben oltre la montaliana memoria e sembra infiltrarsi sempre più negli interstizi dell’anima contemporanea.

   La poesia, come la vita, se vuole avere un futuro e se vuole finalmente penetrare la sostanza della società, deve, come Bilotti docet, impegnarsi ad essere se stessa in tutte le forme che la parola detta, senza inganni e simulazioni, che già la cronaca allinea quotidianamente, ma soprattutto le imperdonabili violenze del passato e del presente, che non dovranno mai diventare futuro. La poesia resta la consapevole frontiera da non superare per non perdersi nel baratro di una disumanizzazione incombente e inarrestabile.

   Le molteplici notazioni, qui raccolte e offerte a tutti coloro, che vorranno occuparsi della sua opera, confermano una rara sintonia tra l’uomo e il poeta, verificata direttamente sul campo dal critico che le propone e confermano soprattutto la sua funzione di guida etica ed estetica, che lo impone come antesignano di una nuova possibile linea, che, sulla base dei dati evidenziati, supera una statica idea di ligurità per schiudersi ad orizzonti, che, a volte, anche la poesia contemporanea più consapevole non è riuscita a raggiungere. 

   Per poterlo fare, come Bilotti dimostra, pur nel sacro rispetto delle radici, bisogna che l’albero della vita, come della poesia, attinga ad humus diversi e convergenti, i quali daranno nuovi frutti, da cogliere, come nel caso del nostro poeta, quando avranno raggiunto quella maturazione, che il nostro autore mostra di avere raggiunto. Si consideri questo saggio come doveroso attestato a un uomo, che alla letteratura ha consacrato la propria esistenza, evitando rigorosamente compromessi, a rischio di esporsi a una solitudine creativa e critica, e che, allo stesso tempo, quando ha voluto e potuto, ha saputo scegliere, con libertà e sincerità, i propri compagni di viaggio e di avventura, come basterebbero a dimostrare i suoi molteplici testi collettanei, gli epistolari, quegli scambi giusti, che salvaguardano e assicurano i lavori letterari, evitando sempre possibili incidenti di percorso.

   Attraversando la bio-bibliografia letteraria, contenuta nel recente Dizionario degli scrittori spezzini, si riporta la piena consapevolezza di una coerenza e di una fedeltà a una idea di letteratura, che onora il territorio e insieme lo proietta, come già accennato, in una dimensione internazionale. Potrebbe apparire un miracolo, ma non lo è, perché la storia non fa miracoli. Basta aderire alla sua pelle, con fatica, con sudore, ma anche seguendo quell’antica vocazione, dalla quale può nascere uno dei poeti, narratori, operatori culturali tra i più creativi e originali della sua e nostra generazione.

   Essergli amico e vicino, come mi è accaduto, in varie riprese e in diversi modi di dire, di dichiarare, mi ha consentito di addentrarmi in una avventura territoriale, che ha abbondantemente valicato i suoi confini, confermando che la poesia, l’arte, la letteratura costituiscono la vera arte dell’incontro, il quale non dovrà mai essere frettoloso e superficiale, a rischio di ripetere schemi già precostituiti, soprattutto non dovrà confondere, come in un ring, maggiori e minori, ma deve, con onestà intellettuale e modestia critica, scoprire nuove isole, nella speranza che possano diventare arcipelaghi di creatività e vitalità.

   Bilotti si è rivelato un maestro, prima di se stesso, che poi è il metodo più naturale per esserlo di altri, e poeta di alto rilievo e degno di essere criticamente scalato in tutte le stazioni del suo totalizzante percorso letterario.

 

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     È stato detto che ogni critico si occupa di autori con i quali stabilisce una consonanza emotiva ed estetica, per un comune modo di sentire, per una complice visione dell’arte e della sua funzione sia all’interno dell’esistenza, sia della società, per il suo riverbero su ispirazioni e azioni. Mai, come con Bilotti, credo sia esistita tale consonanza e, forse, proprio per questo, addentrarmi nel suo spazio poetico, letterario, ma anche esistenziale, mi ha restituito la consapevolezza del miracolo che l’arte riesce a compiere, se nasce ed è realizzata in maniera del tutto autentica e, soprattutto, fuori da ogni cristallizzazione, che la imprigioni a un ismo, impedendole di crescere e di agire oltre ogni schema precostituito.

   L’arte di Bilotti, oltretutto, da come si è potuto desumere da quanto detto, presenta una poliedricità sorprendente e una pluridirezionalità, che crea di per sé una fluidità e una percorribilità che, pur traendo dalle radici liguri la sua ispirazione più naturale, direi primigenia, arriva lontano e apre prospettive, forse ancora non del tutto esplorate e ricche di soprese creative e critiche.

   Sia, a questo proposito, ben chiaro un concetto: ogni autore va sicuramente contestualizzato nella sua epoca, e Bilotti appartiene per certi aspetti, come del resto chi scrive, al nostro glorioso Novecento, e nel posto che non solo gli ha dato i natali e soprattutto dove ha vissuto, ma è altrettanto innegabile che i grandi maestri, e Bilotti come ho più volte ribadito in questa sede lo è, nella loro istanza di aprire nuovi cammini, pur respirando il loro tempo e il loro spazio, creano una forma di distanziamento, che li porta ben oltre i confini spazio-temporali, alquanto limitati, della biografia intellettuale, dal momento che la loro poesia, la loro opera parlano universalmente all’umanità di ogni tempo e di ogni regione e ad essa propongono, da un lato, la revisione di schemi ormai desueti o addirittura  inautentici; dall’altro l’apertura di orizzonti inediti o imprevisti, che ne fanno esemplari maestri nazionali e internazionali. 

   Dopo aver ripercorso, dunque, anche attraverso alcune opere fondamentali, il cammino artistico di Bilotti, vale forse la pena, proprio per la ricchezza di contenuti e di novità che esso propone, di focalizzare l’attenzione su alcuni punti di notevole importanza, che meritano di essere imposti a una critica, non sempre affidabile.

   Bilotti, nella cui poetica si respira una biologicità naturale, intrinseca a un suo stesso modo di essere e quindi di fare poesia e letteratura, non solo rifugge da ogni artificiosità ma, a differenza di molta poesia contemporanea, troppo spesso nutrita di cripticità, di intellettualismi, all’insegna di stravaganze concettuali e dissonanze ritmiche, sa esprimere una forte emozionalità con la naturale chiarezza, che non è solo della classicità, ma anche, e lo abbiamo sottolineato a chiare lettere, del mondo orientale, che potrebbe persino condurre agli haiku giapponesi, chiari, profondi, intrisi di simboli, di metafore, di cui anche la poesia di Bilotti è estremamente ricca. Ma c’è di più: lo sguardo del poeta, che, come la nottola, vede attraverso il buio della notte, compie una crasi tra la bontà, che nulla ha di banale, di veraci sentimenti e la bellezza che si legge nell’universo, perfino nelle cose e negli esseri più umili, ai quali il mondo non sempre dedica attenzione e amore, non escluso il mondo animale. Abbiamo, in tal senso, accennato a come in Bilotti mondo umano e mondo animale si integrino e si confondano; anzi, si ribalta la gerarchia comune ed è dagli animali, dal loro comportamento naturale che l’uomo, spesso malato di onnipotenza, può e deve trarre insegnamento per un corretto vivere.

   Universo classico, inoltre, derivante dalla formazione mai rinnegata, e universo orientale, etica ed estetica sono solo alcuni degli elementi, che, nella loro diversità, Bilotti fa convergere e convivere, nel miracolo di un’arte che non vuole percorrere strade già ampiamente battute, ma ha voluto e vuole invece, con il coraggio della inevitabile solitudine che ne può seguire, sperimentare sentieri ancora tutti da inventare e da scoprire. Del resto, questo è il cammino di un Maestro, che avverte i segreti e le potenzialità della parola e specie della parola poetica. Ed è in questa autenticità dei sentimenti, in questa profondità del sentire, in questo bagaglio tecnico, che piega e dilata la parola ad ogni espressione, che si delinea e si afferma il poeta, come accennato, spesso ignorato anche da certo mondo editoriale, affamato di mercato e poco incline a fiutare, per usare un termine che ci riporta al mondo animale, il vero, grande talento.

   Ma, tornando alla capacità di Bilotti di sintetizzare gli opposti o, comunque, le diversità, vale la pena di ribadire altri due aspetti interessanti e significativi della sua poliedrica arte, che, per quanto possano sembrare antitetici, finiscono col diventare anch’essi complementari: una dimensione esistenziale e familiare e una dimensione sociale e civile.

   L’attenzione all’infanzia, di cui si è parlato nella prima parte di questo saggio, presenta, è vero, una lunga e attestata tradizione, da Leopardi a Pascoli a Pavese, e si potrebbe continuare a citare esempi illustri e non solo italiani, come Wordsworth, ma l’argomento è stato trattato da Bilotti nella sua prosa in modo del tutto personale, poiché, riproducendo, sia pure con una inevitabile trasfigurazione letteraria, colloqui amorevolmente familiari, non crea, come nei casi letterari segnalati, un mito, da contrapporre all’infelice età adulta, ma la rappresentazione di una stagione essenziale ed esemplare della vita avviene nella sua filosofica semplicità, che, proprio per la sua naturalezza, attinge ed espone profonde verità, spesso più vicine al bambino che non all’uomo adulto, il quale, come ha molto da imparare dal mondo animale, altrettanto ha da apprendere da quello infantile. Siamo, ancora una volta, di fronte a un consapevole capovolgimento del sentire comune, secondo il quale l’adulto educa il bambino, quindi a un rovesciamento della gerarchia precostituita, ad una biologica, appunto antioraria, alternativa per affermare una nuova, autentica sapienza.

   Tuttavia, è proprio questa visione alta, sapienziale della letteratura, a generare l’esigenza di non ignorare le problematiche sociali, che, del resto, non possono non riverberarsi e influire sul quotidiano personale e familiare; ergo, le due dimensioni sono più strettamente connesse di quanto si possa immaginare. E, se Quasimodo, nel dopoguerra, fece una scelta radicale, e anche politica, che comportò l’abbandono della poesia esistenziale per una più schiettamente civile, grazie all’idea sacrosanta che il poeta, con il suo canto, può cambiare e modificare il mondo, il nostro Bilotti si salva da una scelta tanto drastica, pur convinto dell’alta funzione della poesia sulla realtà circostante; e si salva perché una dimensione non contrasta l’altra ma la solitudine, il dolore, ma anche l’amore, ossia tutti i sentimenti umani non fanno dell’uomo un’isola ma trovano in ciò che accade intorno, nell’universo circostante, una fonte  a cui dissetarsi o un incendio, come le guerre, in cui bruciarsi. L’intuizione che entrambe le dimensioni si completano in un interscambio continuo è ciò che permette al nostro autore di farsi cantore di entrambe con uguale passione e profondità.

   Passione e profondità che Bilotti ha profuso e profonde ininterrottamente anche nella conoscenza e nella diffusione della letteratura territoriale, di cui si è parlato. Non si può non dargli atto e merito indiscusso di avere consentito al resto dell’Italia, e non solo, di entrare nelle pieghe di un territorio non sempre conosciuto, eppure ricco di sostanza letteraria, dai tempi lontani del Medioevo — non a caso si è citato il sommo poeta Dante —, di percorrerlo con una guida sicura ed esperta per gustare un’avventura culturale di sorprendente e straordinario valore. Solo un maestro, un letterato, che crede fortemente nel valore salvifico della letteratura, può evidentemente compiere un cammino simile, dilatando, come in tanti cerchi concentrici, la sua attività instancabile: dal personale al territoriale, al sociale. Siamo veramente di fronte a una dimensione universale dell’arte, della cultura, totalizzante, come ho più volte affermato, dell’arte, della cultura, che in un Paese diverso dall’Italia, non sempre molto riconoscente al talento e alla fatica, avrebbe mietuto a tal punto allori, lo ripeto; sembra che solo una critica giusta possa e debba testimoniarne il valore, anche e soprattutto se ignorato superficialmente da molti.

   Da quanto esposto fin qui, si deduce che la qualità, che è poi anche la cifra, dell’opera di Bilotti, è la costruzione naturale, ma allo stesso tempo sapiente, di un’armonia compositiva, sia sostanziale che formale, raramente raggiunta nella poesia, se non in quella appunto dei grandi, che trovano posto nella nostra letteratura, dove, lo ribadisco, se ci fosse un valido metro di giudizio, meriterebbe di assumere un ruolo di rilievo, non solo nazionale, come qualche critico ha sostenuto, anche il nostro autore.

   Siamo alle ultime battute di questo saggio, che ha provato a fare luce sull’opera e sulla personalità di un letterato a chi scrive molto caro, ma c’è ancora da chiarire in maniera diretta ed esplicita un concetto sostanziale: seguendo l’iter progressivo, evolutivo di Bilotti, risulta lampante la ricerca di una identità poetica che, senza rinnegare la tradizione, trova la sua autenticità e la sua unicità in una naturalezza mai scontata, in un’antiorarietà pienamente consapevole, ossia in un percorso spesso controcorrente, per tutte le ragioni ampiamente spiegate, al fine di creare un’armonica architettura, una morfologia tutta nuova, tutta da scoprire.

   La personalità, la produzione di Bilotti interrogano e fanno riflettere su questo nostro tempo, cinico e troppo barbaramente tecnologico, sulla funzione del poeta e sul valore della poesia. Se la poesia, così poco letta oggi, specie dai giovani, può davvero, come crede chi la crea e anche chi la gusta,  leggere oltre il leggibile, infilarsi nelle pieghe della realtà e cogliere quello che occhi comuni non vedono per miopia o per superficialità, e, quindi, stravolgere con un esperto e coinvolgente bagaglio di figure di significato e di suono la percezione dell’universo, allora il lavoro, di portata internazionale, del nostro autore non solo non può definirsi inutile e superfluo per l’economia del mondo, ma può fare da apripista ai credenti nella potenza della parola, di quel verbo, da cui del resto tutto è iniziato per la stupenda avventura della vita e a cui tutto ritorna.

Francesco D’Episcopo

 

 

 *Per una bio-bibliografia del nostro autore, si consulti l’ottima scheda di Alberto Zattera, contenuta nel volume Dizionario bio-bibliografico degli scrittori spezzini, a cura di Giovanni Bilotti, Egidio Banti, Alberto Zattera, Accademia Lunigianese di Scienze “Giovanni Capellini”, La Spezia 2024, pp. 138-150.

   

 

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