MARIA RIZZI
Prefazione
a Angela Ambrosini, Il
tempo rappreso, LuoghInteriori, 2024
Il segreto della vita sta nel diventare
adulti mentre la bellezza, ironicamente, si avvicina e accarezza l’anima. L’innocenza
e tutto quanto hai ignorato o non compreso appieno da giovane entrano dentro
come una danza, senza fermarsi mai.
Angela Ambrosini nella sua silloge recupera
liriche concepite in precedenza per cucire il tessuto artistico della memoria a
quello presente e sconfiggere l’assunto dell’inaffidabilità dei ricordi e di un
futuro sul quale sia concesso fare solo speculazioni. Introduce il testo con i
versi seguenti: “Tutto quello che ho
imparato / tutto quello che so ora, / prima vorrei fosse stato, /negli arpeggi
di gioventù, / nel tempo che il tempo ignora” che si legano all’incipit e rendono chiara
l’idea di un’interpretazione del tempo non immobilizzato, ma ‘condensato’, in
modo da lasciare tracce visibili. Non una speranza, quella dell’autrice, ma una
volontà di redimere il passato attraverso la rielaborazione delle esperienze
vissute. Si pensa al filosofo George W. F. Hegel che allude alla forma, “allo
spirito dell’età che pensa se stesso”, e si riferisce proprio a un tempo
rappreso, densamente popolato di significati e, soprattutto, di immagini.
L’Opera non è divisa in sezioni proprio per
attuare un procedimento di consecutio. E il tempo della Ambrosini,
presente in tutte le poesie, declinato in ogni accezione, cantato con rara
padronanza dell’arte lirica, rifugge il movimento del mondo esterno, quello
delle lancette dell’orologio, diviene tempo interiore, quantitativo, mezzo
attraverso il quale si svolgono gli stati di coscienza. Attraverso la sua
esperienza artistica, che potrebbe definirsi un romanzo in musica, noi lettori
proiettiamo lo spirito in una nuova consapevolezza del passaggio terreno e
intuiamo insospettati, possibili potenziali.
La poesia che apre la silloge Ruit hora
è annuncio dell’ora che precipita, ma
Ci troviamo di fronte a una voce appassionata,
commossa, inarrestabile, che trascina i relitti dell’esistere verso un lido
insperato: la nostalgia del futuro. L’autrice, nell’indietreggiare, fluttuando,
di fronte al conto alla rovescia, raccoglie frammenti di giorni, di elementi
del creato, per farne dono all’amato, per rileggere insieme i capitoli di una
storia che non accenna a sfiorire: “Ascolta.
Qui, a quest’ora, /sussurra il canneto /e il lago immagine è / ferma di cielo
tra salici / e case di seta. / Nel bagnasciuga / fra odorose melme / trova
adagio / la sua radice l’alga / e grazie a te io ritrovo / il tempo rappreso /
nel frodo dei giorni / sgranarsi lieve /a dimenticate paludi: /com’è giusto che
sia” (da Al Trasimeno sul lungolago).
Lirica in levare, dal sapore di preghiera,
l’alga torna al lago, sua origine, e in amore, si percepisce il tempo della
coscienza, elastico, estraneo alla frode perpetrata dalla scienza. Ogni verso
di quest’autrice raffinata, seducente, è intriso di potere immaginifico. Ci si
può librare in dimensione atemporale, scegliere la metafora, la similitudine, l’allegoria,
per posare con levità le urgenze del vivere e nascere nuovi, tra ‘case di seta’ e ‘pagine terse come cristallo d’acque abissali’. La spiritualità vena lo spartito, è vento dolce di
risacca, approdo di ogni malinconica nostalgia. Le isole dei ricordi trascinano
nei vortici cari, consentono di distillare linfa per fronteggiare i furti del
tempo. “Rimbomba il tempo da stanza a
stanza, /da quadro a quadro e scrigno s’apre /al dolore e resa accorata è il
foglio stinto di grafie amate, /ciò che resta del nostro passaggio, /del nostro
fare. /Del nostro voler esserci.” (versi
tratti da La casa del tempo). In questa poesia, permeata di saudade,
è rilevante l’atteggiamento di acuta attenzione per gli oggetti, - ‘foglio stinto di grafie amate’ - unita a
una valorizzazione della loro umiltà e a un religioso rispetto. Infatti non
solo certe cose esistono, ma sono quelle che abbiamo visto usare spesso, strumenti
buoni della vita, ai quali noi, distratti in precedenza da preoccupazioni
apparentemente più complesse, non abbiamo saputo prestare il dovuto
riconoscimento.
Lo pseudo-materialismo della Ambrosini palesa
un’esperienza delle cose quotidiane di natura estatica e visionaria. A rigore,
anche il troppo usuale sarebbe ignorato e ineffabile, al pari dello
straordinario, se non ci fosse la rivelazione del Poeta. Le parti dell’Opera
legate alle memorie dell’infanzia sono caratterizzate da una capacità inesausta
di variazione del timbro, nell’ambito di uno stile omogeneo e inconfondibile. Pur
nell’inesauribile mutare della cifra stilistica i componimenti autobiografici
riescono spesso a trascendere gli oggetti cari e a divenire ‘museo di forme incostanti, simili a specchi
rotti’ (J. Luis Borges).
D’altronde
la memoria tiene il lupo dell’insignificanza fuori dalla porta. La morte,
quella vera, comincia quando nessuno può più sognare di te. “Parlami, dimmi di te, del tuo sonno greve,
/ del mio sogno lieve, /dell’acre rimpianto che come stormo /dal mio cuore
migra per quel Dio /che di te ha fatto preda, benché d’amore.” (da A mia madre). Una lirica nella
quale la figura retorica è esaltata nel contenuto, nella parola e a livello
fonetico, evocando in modo superbo lo scorrere del tempo. L’autrice sa divenire
clessidra, misurarlo con piena consapevolezza, ma sa anche renderlo di luce,
con la litote della chiusa, che scuote le fronde dei cuori.
“Tu eri
la mia radice, padre, /la mia sola radice tardiva.” (da 2 Novembre). Il padre, figura che torna e torna ancora,
cara al cuore della poetessa, e soprattutto della donna, il padre in esilio,
senza più dimora, gettato lontano vero l’infinito. “Tempo sarà del ritorno, /dicevi, /ma fu solo vagare /da estate a
estate, /come gabbiano smarrito” (da
Esule). Nonostante l’autrice abbia compiuto un viaggio a ritroso per
includere liriche relative a periodi trascorsi, non si rileva alcun salto
temporale, il continuum di significanti rende il testo di rara coerenza
e originalità. La parola, nel senso del verbo greco poiein, produrre,
creare, è pregnante, tant’è che l’Autrice cita in esergo Camillo Sbarbaro: “A noi che non abbiamo / altra felicità che
di parole”. Si comincia a morire tacendo le cose che contano, le verità
dell’esistenza, “Solo la parola, la parola
/ già detta / soffia roghi di luce /nel baratro illune.” (da Solo la
parola). Gli elementi poetici del creato sono vivi, palpitanti, talvolta
travolgenti nel suo canto, ispirato a un sentimento panico, a un misticismo
naturalistico. “Sono qui, in questo buio
scheggiato /da grappoli d’albe dopo la furia /redenta dell’onda. Inesplorato / il
giorno brulica oltre gli spazi / liquidi d’una pace che arsura / si fa al vento
e degli anni nostri / custodia tenace è d’infinito.” (Dopo la tempesta).
I quadri danno vita, talvolta, a una realtà
figurativa, non soggetta ad alterazioni rappresentative, in altri casi, come
nella poesia riportata, a un repertorio di simboli con componenti tragiche e
misteriose, nella consapevolezza che gli eventi investiti di luce proiettano
altrettanta ombra. Ogni stella ha il suo lutto, ogni porto il suo naufragio. L’autrice
non è esente da impegno civile, non volta lo sguardo, è tesa a superare il muro
dell’indifferenza. La sua parola non diviene tirtaica, bruciante di furore,
resta densa di pathos, di autentica compassione e di quella levità che equivale
alla ragione per cui gli angeli sanno volare. “Giuseppe lui si diceva, di casa in casa, / di strada in strada, / barattando
il suo nome /algerino per una manciata d’avvenire/… italiano” (da Un
giorno come tanti).
Unica eccezione, la lirica dedicata
all’olocausto delle foibe. Angela Ambrosini, di fronte alla barbarie che
ha visto protagonista la terra della famiglia paterna, diviene voce di sangue e
inchiostro, di rabbia e filo spinato. Il suo mondo lirico addestra i sensi, li
rende adatti a realtà che pochi percepiscono: “Noi, progenie sconosciuta, / taciuta, azzerata / nel limbo di terre di
confine, /terre martirio, terre matrigne /noi qui sotto, da questa
profondissima, / inesausta verità, /noi, tralci di storia, della vostra storia,
/noi, qui, sappiatelo, / silentes loquimur.” (da Memento).
Le vittime “parlano in
silenzio” e ci si chiede quanti sanno ascoltarli, ricordare i loro sacrifici, in
una realtà elusiva, tesa a negare, a rimuovere. Credo che non esistano
sepoltura ed eredità più vere della memoria dei vivi.
Il Verbo di Angela Ambrosini è caratterizzato
da un rapimento estatico che vede il passaggio dalla vita temporale, imperfetta,
legata alle spine ostili delle radici, all’esistenza che attua teneri furti sul
tempo tramite gettiti incontenibili di note che la connotano come maga della
parola ed eccezionale animatrice dell’inanimato. Terminata la silloge mi sono
resa conto che i poeti, certi Poeti, custodiscono nel loro dire una forza che
non immaginano: la capacità di invertire il corso delle vite altrui.
MARIA RIZZI
Presidente del Circolo
I.P.la.C-Insieme per la Cultura-,
operatrice
culturale, poetessa, narratrice, critico letterario
.
È stato un grandissimo Onore scrivere la prefazione della Silloge di questa vera, immensa Poetessa, che concepisce versi che trafiggono e , come affermo nella chiusa, possono invertire le vite dei prescelti che le leggono. Io e Angela ci conoscevamo da molti anni, ma questa Silloge ha rappresentato l'occasione per instaurare un rapporto bellissimo. Lei è un'artista e una donna speciale e non sempre le due caratteristiche si coniugano. La ringrazio ancora, pubblicamente, per avermi scelta e auguro al suo tempo lontano dalla scienza e vicino alla coscienza, il successo che merita. Ringrazio altresì con smisurato affetto il nostro Nume Tutelare per aver dato spazio al testo di Angela e alla mia esegesi. Li abbraccio entrambi!
RispondiEliminaMaria Rizzi