giovedì 17 aprile 2025

Livia Cattan legge :“FALCONE E VESPAZIANI. Un’alleanza per la verità. La straordinaria collaborazione tra il Magistrato e l’Avvocato” di AMALIA MANCINI


 Siamo stati abituati a immaginare la vita e il lavoro del Magistrato Giovanni Falcone nella torrida quanto ammaliante Sicilia. Lo abbiamo fatto nascere a Palermo, in un caldo giorno di maggio, e come in un immaginario presepe, lo abbiamo posizionato a guardia e difesa della Giustizia e della Legge, dove più serviva. Un luminoso, eroico Arcangelo sceso sulla terra che fu degli arabi e dei Normanni, e infine della rozza Mafia, un angelo con le ali fatte di pagine di diritto penale, gli occhi profondi e neri come il mare siciliano e la spada affilata da ideali immortali.

Così, quando ho cominciato a leggere il Libro di Amalia Mancini, “Falcone e Vespaziani. Un’alleanza per la verità. La straordinaria collaborazione tra il Magistrato e l’Avvocato”, tutto mi sarei immaginata tranne che di trovarmi improvvisamente a Castel di Tora, nel boscoso reatino, lungo la morbida valle del Turano.

Conosco benissimo quei posti perché la mia famiglia ha una casa a Rocca Sinibalda e da quando sono nata non scorre estate senza che io passi qualche giorno nella nostra amata casa di campagna, tra Rieti e il lago del Turano.

Ed eccomi perciò ad immaginare l’arcangelo magistrato che piomba a Rieti in un giorno qualunque del 1988. La voce narrante dell’avvocato Giovanni Vespaziani racconta, come in un diario, di quella formidabile esperienza che lo vide collaborare con il magistrato Giovanni Falcone e partecipare quindi alla scrittura della Storia, di quella parte della Storia di cui possiamo e dobbiamo andare fieri come italiani, così come fiero e pieno di coraggio fu il “SÌ” che l’avvocato dette al magistrato, pur consapevole dei pericoli a cui andava incontro, per sé stesso e per la propria famiglia.

La famiglia di Giovanni Vespaziani era di umili origini, ma lui, quintogenito di otto figli, aveva già da giovanissimo chiara la strada da percorrere: si laurea in giurisprudenza con il massimo dei voti e costruisce con passione e determinazione il suo futuro, sia dal punto di vista professionale che sociale. Nel 1978 insieme all’amatissima moglie, Elena Fiordeponti, avvocato anche lei, apre uno studio legale che si occupa prevalentemente della confisca e del sequestro dei beni di indiziati o condannati per associazione mafiosa, e si impegna contemporaneamente in prima persona per il benessere del proprio paese di origine, Castel di Tora, in qualità di primo cittadino, e lo farà per 26 anni. 

È naturale pensare che quando nel carcere di Santa Scolastica di Rieti arriva un pentito di mafia importante, Antonino Calderone, il magistrato venuto dal mare pensi a lui, all’avvocato onesto e coraggioso che vive lungo il lago. I due si incontrano, si conoscono, si piacciono, e da questo sodalizio nascerà un legame professionale ma anche una cristallina amicizia, perché l’anima di entrambi si nutre dello stesso sogno: rendere giustizia non solo ad un’isola magica e dannata, culla di antiche civiltà, ma all’Italia tutta.  Faranno conoscere al mondo quella parte di Italia che non esporta mafia, ma onore, amore per la giustizia, orgoglio per la propria terra. Ecco, in quel lontano 1988 Giovanni Falcone e Giovanni Vespaziani unirono le forze perché l’Italia non rimanesse “casa e cosa” di pochi uomini senza anima, ma diventasse la terra unita di tutti gli Italiani onesti.

Ogni tanto succede: in un mondo che va alla deriva, dove tutto sembra perduto, dove la speranza è una colomba cieca che sbatte contro le travi del potere e dell’oblio, dove la giustizia è solo una parola vuota che rimbomba nei vicoli oscuri dell’anima, ecco che da qualche parte, alla spicciolata, quasi senza un vero nesso logico, si incontra e si riunisce un manipolo di uomini, un piccolo esercito di idealisti testardi e coraggiosi oltre ogni umana comprensione.

Questo piccolo esercito serrato e volitivo si trova a combattere su due fronti: uno, quello noto della Mafia, di Cosa Nostra, l’altro, quello forse più pericoloso, delle istituzioni conniventi che ufficialmente appoggiano le azioni dei magistrati impegnati nella lotta contro le cosche mafiose ma che ufficiosamente agiscono nell’ombra dell’inganno per non modificare lo status quo.

Tutto questo sa molto bene Giovanni Falcone quando, a partire dal 1988, si incontra a Rieti con Giovanni Vespaziani e a volte anche con Paolo Borsellino, per interrogare Antonino Calderone, strumento importante per far leva e scardinare la cupola di Cosa Nostra. Le sue rivelazioni, infatti, costituiranno parte fondamentale dell’impianto che Giovanni Falcone costruì per montare il Maxiprocesso.

E così la scrittrice Amalia Mancini, attraverso l’io narrante di suo zio, l’avvocato Giovanni Vespaziani, ci racconta come Antonino Calderone entrò a far parte di Cosa Nostra, per intercessione di uno zio e di suo fratello Pippo, entrato prima di lui. Perché la “La mafia è una cosa seria”, riferisce durante uno degli interrogatori Antonino Calderone e si entra solo se presentati da membri di assoluta fiducia.

Cosa Nostra è furba”, aggiunge in un altro momento, perché si insinua nella vita “normale” della gente, tesse la sua tela intorno a professioni rispettabili: poliziotti, negozianti, giudici, imprenditori, gente comune…. Costruisce una sorta di tossico intreccio intorno alla quotidianità delle persone, soffocandole.

Per fare un omicidio non si deve pagare (…) perché per un uomo d’onore un omicidio è qualcosa che dà carisma”.

Questa frase per Giovanni Vespaziani, che non è abituato come Giovanni Falcone alla ferocia del coltello che incide la carne viva del suo Paese, giunge terribile al suo orecchio; l’avvocato rabbrividisce al sentire queste parole, e il suo senso di profonda umanità amplifica la rabbia nel sentire questa frase. Ma il magistrato che gli siede accanto, armato di una sola penna, non si può soffermare: Giovanni Falcone scrive, annota, registra, confronta, mette in relazione.

867 pagine di deposizione, fondamentali per il Maxiprocesso.

1989. È finalmente arrivato il tempo per il mondo di non vedere solo il grigio cemento dei piloni trasformati in bare dalla Mafia, o sentire l’odore rancido dell’acido nel quale i condannati dal tribunale di Cosa Nostra venivano sciolti, ma è il tempo di entrare “nell’astronave verde”, come venne chiamata dai giornalisti l’aula bunker, per ottenere una nuova Giustizia, e consegnare alle generazioni future una nuova Italia.

30 gennaio 1992. Giovanni Falcone, dopo avere consegnato, non senza difficoltà, alla giustizia degli uomini 339 imputati, vede convalidata in Cassazione la sentenza: 19 ergastoli e 2665 anni di carcere, e mette la parola fine al Maxiprocesso. La sua Sicilia, la nostra Italia, e il mondo intero dei giusti, si stringono intorno a lui, eroe di una favola meravigliosa che nessuno aveva osato ancora scrivere.

23 maggio dello stesso anno. All’altezza dello svincolo di Capaci, la Mafia raggiunge Giovanni Falcone e si compie la strage. Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Ancora oggi il loro nome risuona come un canto di verità e di giustizia.

Tutto sembra irrimediabilmente crollare, ma invece niente è oramai più come prima. La morte di Giovanni Falcone, di sua moglie e della sua scorta, ancora più del Maxiprocesso, accelera il disfacimento di Cosa Nostra, nonostante la Mafia tenti di resistere sferrando altri attacchi mortali al cuore pulsante della Giustizia uccidendo pochi giorni dopo Paolo Borsellino.  Ma di fronte a queste morti oramai inaccettabili la gente comune insorge, lo Stato si risveglia, la Sicilia e l’Italia tutta scendono in guerra contro la mafia, in memoria del loro arcangelo Magistrato e del suo sorriso sotto i baffi.

Il libro di Amalia Mancini racconta tutto questo: la passione per la giustizia, la rabbia, il dolore, a tratti l’impotenza, la paura, e poi il coraggio che si fa grido per dire “NO” a tanta atrocità, da parte di uomini come suo zio, e di magistrati e di poliziotti, e di gente comune che trovandosi nel posto giusto, non ha voltato la testa dall’altra parte, ma ha colto “il momento giusto” per agire, ha cavalcato “la tempesta perfetta” per reagire, per cambiare il corso di una Storia che sembrava disperatamente già scritta, e consegnare un futuro diverso alle generazioni che sarebbero venute dopo.

Così ha fatto suo zio per il suo paese e per la sua famiglia, e per sua nipote Amalia, il cui tributo ha prodotto un libro appassionato e pieno di amore, perché Amalia nel suo libro ci parla anche dell’uomo Falcone e dell’uomo Vespaziani, del loro sentire comune, della loro luminosa amicizia, delle lettere che si sono scritti e delle risate che si sono fatti, come farebbe uno qualunque di noi, se non fosse che in questo caso stiamo parlando di due persone fuori del comune, di due eroici paladini della libertà e della giustizia.

 

Roma, 13/04/2025

Livia Cattan