domenica 20 ottobre 2024

Sandro Angelucci legge :" Madri, Muse e Amanti " di Alessandro Ialenti


La raccolta Madri, muse e amanti di Alessandro Ialenti reca, come sottotitolo, la seguente didascalia: “Sonetti dedicati alla sacralità dell’universo femminile”. Bene, credo si sia tutti sostanzialmente d’accordo nell’asserire che al genere letterario della poesia non necessitano indicazioni o chiarimenti esplicativi. L’Autore ne è consapevole, cionondimeno, “al fine di evitare fraintendimenti possibili”, ritiene opportuna una delucidazione su quella frase, cui si è fatto riferimento in apertura, e nella quale egli stesso individua il motivo conduttore dell’opera. In particolare, il Poeta incentra la propria riflessione sul termine sacralità, specificando che la medesima “è intesa qui come un valore assoluto, che prescinde dalle credenze religiose […] è quella sfera - prosegue - di originaria purezza spirituale ed emozionale che avvertiamo nel profondo dell’animo…”.Ma c’è dell’altro: Ialenti tiene a sottolineare che “quando parl(a) di universo femminile intend(e), anche e soprattutto, la polarità femminile, universale e cosmica, presente in tutti gli esseri umani”. Questa ulteriore precisazione, oltreché trovarmi in piena sintonia, mi convince sempre di più circa la profondità e lo spessore dell’opera: non c’è - nello Scrittore - la volontà di perorare una causa, di prendere le difese di una parte; tutt’altro, egli desidera che i suoi versi siano latori di un messaggio pacifico e costruttivo per la sensibilità di ognuno dei suoi lettori. Dopo il Proemio evocativo, il libro si divide in tre parti di dieci sonetti ciascuna: la prima, Madri, non a caso apre il trittico, soffermandosi sull’aspetto peculiare della femminilità: la maternità, appunto; il dono che loro spetta per volontà di Natura: “Forza d’amor celeste in te vive” - canta l’Autore in Madre allattante - mettendo in evidenza quella sacralità di cui si è parlato sopra. Il secondo gruppo di sonetti s’intitola Muse. Sono componimenti lirici di carattere prevalentemente morale, civile e amoroso. “Inebriato fui io dal dio Bacco, / quando giunsi al monte d’Elicona; / eppoi, dal mondo, presi già distacco, / dove la bella luce si ridona.”: così inizia a cantare Ialenti, elargendo odi appassionate a ciascuna delle nove Muse, profondamente ispirato dalla loro bellezza esteriore ed interiore. I sonetti della terza sezione sono raggruppati sotto il titolo Amanti. La Donna - similmente alla poesia - è ritenuta Maestra d’amore, ossia colei che è in grado d’insegnare il sentimento per antonomasia all’intero genere umano.È una visione che affonda le radici nel Dolce Stil Novo italiano e nel Romanticismo germanico: tradizioni letterarie “che hanno avuto sempre un ruolo predominante” - lo afferma lui stesso - nella formazione poetica bilingue del Nostro. Il volume si chiude con un Poemetto Idilliaco, seguendo un’ispirazione, che rispecchia fedelmente la predisposizione romantica dell’Autore. Egli si lascia andare allo scorrere armonioso e spontaneo della rima baciata dei versi di un’egloga. Tengo a precisare - perché chi mi ascolta non si formi un’idea sbagliata - che il canto, qui, non va confuso con un certo genere di pastorellerie dai contenuti prevalentemente bucolici e disimpegnati. Tutto questo non accade in quanto il fine del Poeta resta sempre quello di esaltare la femminilità come unico mezzo per raggiungere la cultura della pace: “Solo la donna risvegliata la vera pace disegna”, scrive. Ecco - e mi accingo a concludere - fermiamo la nostra attenzione proprio su “risvegliata”, che sottintende un precedente assopimento, un oblio, troppo spesso volutamente generato. L’esortazione, e insieme la speranza, con la quale Ialenti ci consegna il suo lavoro, è che possa essere ripristinata quella sacralità da cui ho voluto prendere abbrivio. Nella cultura e nel linguaggio del suo Paese d’adozione, il Sole: l’astro che illumina e riscalda e permette la vita sul nostro pianeta è un vocabolo di genere femminile. Vorrà pur dire qualcosa? Non credete?

Sandro Angelucci

Giusy Frisina :" senza titolo.... Dedicata a un amico poeta improvvisamente scomparso "

  

Sentirti sempre sull'orlo di un precipizio

con sotto il mare

e amarlo di un amore sviscerato
come fosse  salvezza.
Abbracciata a uno scoglio, 
i sassi come fossero perle,
nella  folle misura della dismisura
nell'orizzonte dove l'acqua si sfuma
nel tuo respiro
con lo sguardo sull'onda che si schiuma
e che va e poi ritorna incessante
col suo messaggio segreto nella bottiglia
frantumatasi non si sa dove....
Eppure  resti lì
aspettando che l'acqua ti lambisca
ben sapendo che ricambia il tuo amore
con la dolcezza  di uno schiaffo di pace.

GF@

sabato 12 ottobre 2024

Donatella Zanello :" Tutti i colori del mare "


 Continua la presentazione in vari luoghi ed eventi del bel romanzo dell'amica e collaboratrice di Leucade oltre che instancabile organizzatrice del premio letterario internazionale Cesare Orsini, che proprio quest'anno ha spento 40 candelina, Donatella Zanello: "Tutti i colori del mare".........presente quest'anno anche al prestigioso appuntamento della nautica internazionale, il salone di Genova, che si tiene ogni anno nella città della lanterna. Un bel romanzo che "odora di salmastro" con forti richiami D'Annunziani.

Nazario Pardini

Deborah Somma : " Una scivolata sul pelo di Geo" .





 Giovedì 17 Ottobre, alle ore 18:00, presso il centro sociale Ruffini (AUSER), si trascorrerà uno splendido pomeriggio in compagnia delle gesta di un canetto ribelle attraverso le parole del libro di Deborah Somma dal titolo " Una scivolata sul pelo di Geo" .

Durante la presentazione verrà ricordata Carmen Claps, straordinaria critica letteraria con la quale l'autrice e la Biblioteca civica Arzelà hanno condiviso tante significative avventure tra i libri.
Evento adatto a grandi e piccini, il ricavato andrà devoluto all'Associazione Brisky.
Saranno presenti anche tutti gli altri libri dell'autrice.
 Per informazioni
Biblioteca 0187699041


Franco Donatini ci segnala.......


 

Note critiche sezione edito premio Aeclanum

 

Adriana Pedicini: Quintessenza,Edizioni Il Foglio,Piombino (LI),2024

E’ il Verso poetico della Natura, col suo divenire, scorrere, ruere, procedere che porta suoni, odori, sfumature di colori in un cantelinare lento a procurare pace e silenzio in chi sa ascoltare,ma anche schegge di doloroso soffrire, contrassegnato dal faro che diviene tranello per la farfalla notturna alla quale canta un canto di morte / il sonnambulo gufo.

Foglie in bilico allo spirare dei venti riportano il senso della caducità, rafforzata dalla similitudine : Noi come loro/ sul ciglio di vita pronti ad allontanare l’abisso. L’albero dispogliato riavrà la sua verde chioma , di contro  si stimmatizza: A noi non è concesso il ritorno. Là dove si percepisce l’acre eco foscoliana di una illacrimata sepoltura o l’acre condizione della Saffo leopardiana. La poetessa si spinge oltre nell’ amara presa di coscienza, accentuando l’inevitabile con l’uso dell’inversione nel costrutto logico: consunte una volta dei piedi le piante/ alcun vento si alzerà, se non la tenebra nera.

Dopo ogni lampo c’è certezza di serenità e questo è quello che desidera la poetessa: che il tempo dilati in fiducia e rassereni / il cielo riflesso dell’anima.

Inutile arrovellarsi nei sensi di colpa , auspicabile , ma impossibile,  un nuovo spartito. In bilico col pensiero tra un abisso tremendo,un nulla doloroso come un rimpianto, o mondi altri infiniti ed eterni, basta che l’occhio abbracci un paesaggio per cogliere il  segno profetico / del Verbo di un tempo.

Funambuli ci si scopre nel vivere sempre protesi e assetati tra false chimere e la schiavitù dei reali bisogni. Un desiderio permane: giorni pacati/come a infante il sonno beato.

Tacitati i pensieri , vergando di rosso e di blu quelli altrui, passato il tempo a rispondere a domande di senso e di vita dei propri alunni ora che ci si riappropria del proprio tempo, nessuna domanda che come spillo ha martoriato l’anima, nessuna risposta consolatoria deve farsi spazio, ma questo tempo con l’anafora iniziale lo riempierò  deve essere colmo di fiori di biancospino, cieli azzurri, canti di fringuelli, del mormorio del fiume in una climax che conduce ad adagiarsi in questa meraviglia che in quanto tale permette di non avere rimpianti prima del guado.

Il crucciarsi è stato pane quotidiano con domande senza risposte, dunque  il fuoco divori in una sequela di metonimie e sineddochi parti di sé e nella muta che di vivere solo mi soddisfi il desiderio/ nelle foglie rosse e gialle del mio autunno.

Calato il sipario sul palcoscenico di una vita frenetica, la poetessa si vede rappresentata come un granello invisibile/ di polvere inutile anche agli uccelli/solo il lombrico se ne vedrà bene. L’emistichio finale ha sapore di atavica filosofia di vita a cui fa da contraltare la ricerca di pace nel divino abbandono.

Un sapore e un senso diverso ridimensiona questo autunno della vita: ogni attimo è un guadagno/ senza impegno e ogni impegno/ ha la leggerezza del piacere necessario. L’iterazione in anafora iniziale del già nella lirica “Poco a poco” rimarca lo scorrere del tempo, il passare veloce delle stagioni per ricongiungersi ai propri cari nel giardino di luce senza tempo.

Nella sezione “Colori e dolori del mondo” uno sguardo di condivisione accomuna la poetessa ai nomadi dei quali coglie il senso profondo della casa: la casa è ovunque noi siamo/perché la casa l’abbiamo nei cuori/ e l’adagiamo a terra solo se stanchi; a chi è stato impedito di vivere, creando un legame tra le anime vostre e nostre con l’utilizzo del verbo s’inanellano dal comignolo con quella sottolineatura del folle nonsense e di una negazione dei sogni anche per i più piccoli.

I versi degli ermetici a specchio ripropongono le ferite di un’altra guerra, “Ucraina 24 febbraio 22”che la poetessa coglie nella sua tremenda crudeltà: davvero pietruzze da stritolare/ per farne asfalto sulla via dell’oppressione  e in “Natale 2022” in cui ripropone un ritrovato Amore col cuore sanguinante che ha bisogno ancora di innocenza e di speranza.

In “Morta è la pietà” si evidenzia un assurdo franare di pietraie in cuori e terre diverse e un nuovo rivangare le zolle del dolore.

Nel trittico di chiusura in vernacolo i temi del sogno quale luogo d’incontri con chi non c’è più, che allontana la malinconia e trova positivo riscontro nell’amore che non muore; della giovinezza troppo in fretta svanita, al punto che la poetessa conterebbe ad uno ad uno i chicchi dei cumuli di grano messi ad asciugare dinanzi al portone di casa dei nonni in cui si tuffava da piccola , per averne ancora un poco, un poco della bella età della sua vita; della malinconia che strugge il cuore e fa pensare alla morte in un’aria immobile prima di sera, nello straziante silenzio per strada, nel pianto di una madre che invoca il figlio senza risposta. Per il bene basta una stella che faccia luce in un cuore oscurato di notte.

In tanta amarezza il desiderio di guardare alla Croce non col terrore della finitezza/ma con il gaudio della vita eterna e alla Ianua del Cielo, quale segreto e disvelamento di ogni bellezza/anello che a Te mi congiunge.

In quarta di copertina il senso del titolo di questa raccolta : percepire, avvertire  tra un velo di rosa che scolora tra le vette e un’ora di attesa ma sazia di sé, il prefigurarsi dell’ eterno, un’oasi di pace ove tutto tace.

                   

Luisa Martiniello

  


Davide Rocco Colacrai: D come Davide –Storie di plurali al singolare- Le Mezzelane Casa Editrice,Santa Maria Nuova (An),2023

Colacrai dà voce a Storie di plurali,rendendole parti di Davide.Ripercorre la storia degli esuli e siamo con lui nelle baracche, che l’una stretta all’altra, con una personificazione rende meno tristi,le aggrazia paragonandole a un mazzo di fiori nella mano di un bambino. I verbi al plurale intensificano la condivisione dell’odor di profugo, nonché l’uso dell’antitesi: forte e dolce al tempo stesso / di cibarie,naftalina e capelli che non potevamo lavare. Così il verbo fiorire per ingentilire in contrapposizione : gli inverni fiorivano all’interno delle baracche/in una processione di gelo e solitudine. Gelo e solitudine che tornano prepotenti a segnare le vite di Rigopiano, che hanno un soffitto di neve e ultime preghiere che si condensano in cristalli a spegnere un orizzonte d’amore. Solitudine ancora più pregnante nei 57 giorni di Borsellino, un fiore nella polvere, giorni lasciati maturare/…/ come frutti tra ombre di grilli in ascolto. Solitudine ancora più acre di quelle lingue di fumo/…/ e che si allungavano come lacrime amaranto nell’estate/ a renderla un’apocalisse. L’attesa di una madre non ha conti definiti. Dolori e assenze che si intrecciano a «L’ora dei fratelli ( Cile, 1981)», seguiti da un’ombra dei giorni,incerta e muta, / come la solitudine nel farsi il segno della croce,l’insonnia, o quella dell’arruso. Qui l’odore acre diviene quello dell’incubo e il sogno non prospetta che un orizzonte senza scorciatoie/ il pensiero fisso all’isola,/ nostra unica donna,madre e matrigna. Anche nella lirica «Il confino (Isole Tremiti, 1939)» si ripropone la prigionia  in un reticolato di pochi metri quadrati. Pesante la solitudine, l’assenza quasi tangibile dell’amore,/un’ora come un anno, tra chi raschiava il silenzio o annusava già la morte. Amaro il ricordo in «Ternitti/Eternit» del sole, per i Cingoli - emigrati,  del profumo di iodio tra i capelli in una terra che dà pane ,ma si fa riconoscere per il freddo duro delle cose,/puntava la persona,penetrava le ossa,/e apriva le dita, delle mani e dei piedi, come frutti maturi/e li bruciava. La vita nella sua fragilità è riproposta con l’angoscia che attanaglia i cuori e le membra dei figli dell’Amianto, sempre di un miracolo in attesa , così come nella solitudine di Ercole (Isola di San Servolo,1961) con il crudo disincanto dell’esilio, nell’isola dei matti, in una situazione temporale sospesa, che però stringeva quanto rimaneva dell’uomo in un vecchio/e ne spegneva a poco a poco gli anni da vivere/ al bambino che era , in una attesa-ricordo a cui aggrapparsi: che il fratello si mostrasse/ e lo portasse con sé. Per sopravvivere la violinista detta la pazza in « Concerto per Tchaikovsky - assolo di donna dal Gulag» più di tutti rappresenta nel gioco dell’assurdo sogni, per affermare, finché può, il vibrare dell’armonia tutt’uno con il suo corpo, l’abbraccio di un vuoto che vinca il buio  e forgi una preghiera. La Storia si ripete con ore crudeli, che siano quelle di Beirut nel settembre 1982 o quelle di oggi ,sempre si porta addosso l’odore di morte, sempre le ossa, prosciugate d’amore, pungono come chiodi e si ripercorrono strade, muri e sempre bocche aperte, forzate le case, l’inferno, un tempo lancinato, perforato dal fuoco con un segno franto: biancheria ancora stesa. Dal veleno della guerra si passa ad un altro veleno,un veleno che si è incuneato in ogni zolla dell’asfalto per un uomo che aveva osato scavare nel grembo indefinito dell’incerto e dare un respiro di colore per la terra,la vita, e noi figli. Ecco un atto d’amore ricambiato in quel Si chiamava Giovanni nella voce bassa del padre che stringe tra le sue quelle del figlio di fronte a «L’Albero di Giovanni (A Giovanni Falcone): Atto I». Spunto di queste storie plurali la lettura di un romanzo, l’ascolto di un disco,una canzone,una citazione ed ecco che il verso  talvolta assume una cadenza discorsiva,altra un ritmo incalzante e dirompente,altra una ricchezza di accordi, di suoni,sensazioni,colori da rendere nella frammentarietà, spesso atemporale, reti di interconnessioni.

 

Luisa Martiniello


Ignazio Gaudiosi:Tra sogno e realtà,Editoriale Giorgio Mondadori,Milano ,2023

La casta degli umani,/…/ ha posto quel suo scettro ove ha potuto./Spinge e sovverte corsi e situazioni.//../Piange la madre e guarda i suoi gemelli//…/non li potrà vedere il loro padre . Nell’antitesi lei sorride e piange si apre lo spaccato di una fossa , il padre dei gemelli sarà posto con altri e ricoperti tutti senza nome/…/ ignota la dimora. Tra sogno e realtà ci propone con una ben sperimentata  delicatezza di toni ora i drammi che si consumano alle porte dell’Europa, ora quadri intessuti di ricordi , quasi ad esorcizzare un tempo che mette sotto la lente della luce accadimenti congelati in un riposto cantuccio della storia passata, che prepotentemente si riappropria del palcoscenico di turno.

Il disprezzo per l’altro  conquista le prime pagine di cronaca e quasi ad emulazione  si ripetono gli abusi, spesso impuniti, a nulla serve lo schermo dell’età/…/ per silenti abusi ad ogni latitudine di chi è privato della forza/dell’anima e del cuore.

Il poeta non disdegna uno sguardo amaro sul presente, sulle necessità nascoste da un abbraccio, ne «La giovane del clan», un gesto mercenario che con leggerezza è conquista di una catenina, dileguata dal destinato, segnato dall’età.

La donna  per il poeta è  e deve essere un essere prezioso, che fa convergere in lei grazie e movenze e resta impresso, per esempio, di  un incontro fortuito, quel ticchettio vivace nel suo andare,un eco nell’andare che t’insegue; delle  acrobate fanciulle ammira la passione, la costanza :  fanno e rifanno segni come riti./…/ Rifulge quel linguaggio,/che folgora la vista/ col brivido improvviso/ a una silente, sospesa commozione.

E non manca lo sconcerto nel riscoprire presunte verità create e sparse/ da designati artieri, che fanno le verità di moda al tempo, ma all’errare collettivo ecco trovato il rimedio: la buona fede per l’utile d’abuso, che l’occasione ha imposto ad operare.

La calura accanita accende senza posa il frinire delle cicale , occasione di riflessione  per altri richiami: si sciolgono le nevi,/e pure quei ghiacciai/detti una volta eterni./ Si sgretola la roccia. Il poeta fa sentire il suo pianto per i mutamenti climatici, e condanna anche l’incoscienza, così come un improvviso bordo che discende lo porta ad affermare : dovremmo ripensare a un passo nuovo.

La natura si ribella: arde la terra in ansia,l’accidia ha colto pure le spighe,fogliame e fiori,/ che attendono un ristoro per non morire ancora:non sanno maturare// Il verso che s’è perso va trovato. Altrove La terra inaridita non riceve,/ rifiuta,si sommano i livelli/fanno fiumara,che s’apre le sue vie,/ sfonda e dilaga in furia /…/ Rimane solo il pianto e la rovina. Il poeta critica gli accorgimenti di occasione che non riportano le cose a come erano, invita a guardare alla Natura madre con il dovuto rito nelle cose.

 

Il testo è intessuto anche di tanti ricordi: la figura del nonno che consumava con lento manovrare il tabacco nella pipa, le nuvole azzurrine, gli sbuffi lenti, un susseguirsi di combinazioni che riportano l’odore delle cose tra il profumo acceso degli aranci e il poeta si volge a quell’ore antiche, al garbo di parole pronte all’occorrenza del padre ed ecco qualcosa somigliante ad un rimpianto.

Riaffiora alla memoria il guaito di gioia del cane Dogali, guardiano alla catena/ ai tempi d’Abissinia, che ha lottato col lupo,per difendere la famiglia e «Il trillo dei rondoni», virgole nel cielo,spersi puntini, in latitudini lontane o saette nella sera. E la loro gioia diviene la nostra, rapiti da quelle veloci prove di un prodigio,  che con mille acrobazie/.../miravano nei vicoli la rotta/…/ a squadra. Anche loro non si vedono più da tempo e quello che incanta  è quell’agire in gruppo, quell’andare a squadra: un monito per gli uomini sempre più monadi.

Ha segni di mistero il marranzano, con la sua voce quieta l’anima con le sue vibrazioni disegna panorami di rimpianti , ricorda gli usi antichi,rimanda ad una quiete più semplice e serena.

Ecco l’anima del tempo a ravvisare il gelo intenso, specie nel Trentino, superato con le “braghe alla zuava” e gli scarponi a doppia suola in duro cuoio,/ armato con le “brocche” per la neve, i bubboni regalati con i passaggi sui lastroni pressati poi a casa con la lira,/che rilasciava sempre quell’effige:/ la testa del regnante; a ravvisare  volti del passato, a ricucire circostanze-scusanze di fronte a una lastra che divide nel segno assai infantile di un ritorno, a rivedere quelle fila per la via per la quale non si passava spesso, ma con la guerra, la fame, il razionamento  e tessere coi punti che il padre impiegava/ per generi da dare a quei reclusi, in sanatorio, un sacrificio per chi stava peggio,che fa dire altrove:

Bella la vita/Bella l’amicizia/ Bella la natura.

Un canto ai luoghi dell’anima, dell’infanzia, della giovinezza : un commiato memoriale che nulla lascia all’improvvisazione.

I luoghi, seppur rivisitati, hanno un loro incantamento, racchiudono segreti, si percepiscono altre sensazioni in quel sommesso sciame di sentori, ogni curva un invito, ché un mondo… si dimostra nuovo,/ così lui fa pensare/ e la sparuta vista di una casa/racchiude un suo segreto,/che incute una discreta soggezione.

E nell’andare tra strade a gomito e sprazzi di vuoti, alternati a zone di rigoglioso fogliame, l’attesa di segnali in un susseguirsi di riflessi, giuochi facili di lampi, sequenze di rivoli lucenti. Un serrato proseguire, per cogliere impressioni nel perenne brulicare/ e fremiti a spiragli e poi lucori.

Il tempo ha dichiarato la presenza,per il poeta non è più tempo di avventure, di ardimenti, ma neppure d’inedia. Ora si addice un procedere più cauto, ma l’assillo del pensiero è lì ed ecco altre prospettive : dipende dal momento, dagli abbinamenti, da alterne ipotesi che inducono a qualche prospettiva/per via di quel ricordo che sovviene/ o da influenze con l’ispirazione che porta nuovo scompiglio.

Sfidano il tempo le pagine dei muri con  notizie, ammonimenti, segnali, inviti ad osservare. È una sfida col tempo la lampara che fa da richiamo ad un agguato  nella quiete dentro al golfo,ma la mente va ad un volo di farfalle a primavera, ricorse per  la grazia dei loro colori, prede appena tra un pollice ed un indice bambino, che tra grida di rimprovero,liberate, sono seguite dal rimpianto del momento.

La vita è ansia, rincorsa,sosta,attesa,ripartenza,sfida, desiderio di approdo.

Il poeta è sempre in attesa di un cenno che sveli attraverso abbagli o frange di frammenti un groviglio di esistenze o di misteri. L’uomo in attesa cerca un’altra luce/oltre il silenzio eterno/oltre il lenzuolo eterno costellato. Il deittico Oltre, in anafora iniziale, prolunga vertiginosamente questa proiezione.

Si resta a meditare sull’ignoto, pronti a percepire, ravvisare il cenno di un segnale che pare profilarsi anche quando l’alba sta concependo la sua luce, ma nel proseguire di accenti di pensieri/ estranei a una intesa del momento  si crede in verità raggiunte, subito smarrite.

Il percorso del fine indagato, amorevolmente atteso, se al contempo è oggetto sempre di interrogativi sul suo senso, dall’altra dischiude nelle tappe del viandante – poeta ad emozioni che fanno presupporre un cenno/dall’infinito ignoto che rimanda a vite non vedute d’altri soli/…/a un groviglio di esistenze e di misteri,sicché Tutto sorprende.È la Liguria, terra d’adozione, che ricuce la parola poetica ai fruscii, a improvvisi cenni di ipotetici messaggi, a guizzi che sembrano aprire a risposte, di contro un groviglio inestricabile di rovi, la muraglia montaliana e solo riflessi che rimangono negli occhi. È la parola lirica dell’attesa, della conquista della bellezza, associata ad una richiesta assillante di Verità, e l’amore che rendono l’andare degno: provare sentimenti e commozioni è una lezione che provvede al cuore/ e si diffonde per quelle verità/che fanno tanto caro il proseguire, pur se tra contrasti, combinazioni, occasioni, giochi di correnti:il concetto è che nulla resta fermo. L’esplorazione interiore come del paesaggio lunigianese, del visibile-invisibile divengono mondi complementari, trattati  con una soffusa malinconia. La parola, curata,si incastona in un verso che con naturalezza risuona dei suoi accenti, anche per le sue rime baciate o al mezzo in un andamento che accompagna ora il ricordo nostalgico, ora l’accusa senza verve di modalità di vivere, che escono dai binari dell’onestà, della correttezza nei rapporti anche rispetto alla Natura, violata dagli interessi del momento.

 

 

       Luisa Martiniello

 

 

domenica 29 settembre 2024

IL GIORNO DELLE SIRENE di WILMA AVANZATO

 

1983. Ci troviamo dentro ad un carcere. Antonino Mangiafico è un giovane uomo detenuto a cui è stato concesso di poter uscire per qualche ora al giorno per andare a lavorare in una biblioteca, un luogo conservato e amato nella sua memoria di studente nel quale si è sempre sentito protetto e al riparo. Un luogo sicuro.

Sembra una bella notizia, Antonino è un bravo ragazzo, ha mantenuto in dieci anni di reclusione un’ottima condotta. Qualcosa di lui ci dice che soffre terribilmente, trascina le sue giornate in un monotono, solitario programma, e il suo dolore è avvolto in un cupo silenzio. La psicologa che lo segue sa che lui ama i libri e che i libri lo possono aiutare a recuperare la fiducia nel mondo, ma soprattutto in sé stesso, e ha scovato per lui questo incarico. Il direttore del carcere ha dato la sua approvazione, perché Antonino è veramente un bravo ragazzo, il magistrato pure ha detto va bene. Sono tutti fiduciosi, sono tutti d’accordo.

Tutti, tranne Antonino.

Lui no, lui non è affatto contento di questo cambiamento, si sente tradito e manipolato dalla psicologa che nei mesi passati lo ha attratto con la suggestione dei libri da leggere.

 Ma lui non vuole uscire, lui non vuole lasciare il carcere, lui vuole continuare a seppellirsi in quel posto grigio e disperato che lo ospita da dieci anni, perché se per la legge degli uomini la sua vita merita un riscatto, per Antonino, per lui stesso, no, non è così, la sua vita merita la cella di un carcere per l’eternità. Lui vivo nella carne e nel pensiero, tenta da dieci anni di uccidere i suoi sogni e i suoi ideali. Troppo vigliacco per terminare il suo corpo, rimane però troppo coraggioso per tradire il suo cuore.

Tutta colpa delle sirene. Le sirene che QUEL giorno, proprio QUEL terribile giorno, forse pentite e intenerite da quel giovane ragazzo romantico, gli sussurrarono:

Non andare…. Antonino… non andare…

Eppure, proprio QUEL giorno, Antonino non le ascoltò, andando ignaro incontro alla Storia.

È facile pensare ad Antonino come ad un giovane Odisseo. Le sirene sono creature, come le muse e le sibille, che conoscono tutto ciò che sulla terra è accaduto e accadrà; la leggenda dice che il loro canto conduce chi lo ascolta alla conoscenza assoluta, verso l’infallibilità divina.  

Ma l’uomo è solo vaga somiglianza di questa potente conoscenza. Troppo finito, troppo mortale, troppo arrogante. E chi incautamente pecca di Hybris e pensa di potere ascoltare la voce delle sirene e riuscire a dominarle, prima impazzisce, e poi giace accanto a loro, un mucchietto di ossa divorato dalla fame di conoscenza.

Odisseo è l’uomo senza nome, il grande eroe esploratore del mondo, è arrogante anche lui come molti della sua specie, ma è anche astuto, e si fa legare all’albero maestro della nave che solca i mari della vita, perché il richiamo delle sirene è suadente e invincibile, e chi lo ascolta si convince a raggiungerle sull’isola, dove viene divorato. Odisseo è così il primo, e unico uomo, che ascolta il canto e non cede alla sete di conoscenza. Almeno fino a quando non lo incontrerà Dante, molti secoli dopo.

Antonino Mangiafico invece è un piccolo Ulisse nato all’inizio degli anni ‘50, in Sicilia, terra magica e crudele, arsa e feconda, orgogliosamente povera e tragicamente bella.

La sua è una famiglia di pescatori, il loro luogo è dentro il mare, il mare che nutre e che divora, il mare che concede e che distrugge. La loro voce è impastata di luce e di sole accecante, e sabbia, e povertà.

Padre e madre decidono di trasferirsi al Nord, a Torino, dove avvolta nella nebbia sorge una promessa di benessere e di prosperità, una grande Fabbrica che produce automobili.  Il futuro è lontano dal mare e dalla luce, ed è circondato dalle ombre nella fitta foschia, ma la Fabbrica li ha chiamati e li ha scelti, tra una moltitudine di ombre affamate.

 Il futuro li blandisce, li lusinga, li convince.

Antonino ha sette anni, è un Ulisse troppo piccolo e le sue sirene sono ancora taciturne. Si trasferisce con la famiglia, padre, madre e due fratelli, Giuseppe e Assunta. 

Torino li accoglie, o meglio li parcheggia ai limiti della società, ai confini estremi di una vita umiliata, troppo lontano dal fragore del mare, troppo pericolosamente vicino alla vita irraggiungibile dei ricchi.

La famiglia che viene dal mare si vuole bene, ma la miseria è un animale oscuro che striscia e si insinua e quando meno te ne accorgi ti avvizzisce l’anima e il cuore, e ti lascia lì, urlante di dolore, alla mercè della fame.

Antonino diventa un giovane e promettente studente e la nebbia si dirada, e niente è come sembrava: non Torino, che li guarda con cortese distacco, non la fabbrica, che li vede come merce di scambio, braccia e gambe che si muovono in una incessante catena di montaggio, partorendo motori, carrozzerie, spinterogeni, in cambio di pochi spiccioli.

La famiglia si comincia inconsapevolmente a sfaldare, come un castello costruito sulla sabbia troppo vicino al mare, come un sogno immaginato troppo a ridosso dell’alba e interrotto dal primo mattino.

Antonino però non molla. Lui combatte, nonostante il suo destino sembri già scritto e scontato. Lui ha un progetto: vuole insegnare lettere al liceo.

Ma siamo negli anni ‘70 e Torino non è solo la Fabbrica, e operai, e lavoro duro, Torino è anche un nuovo pensiero che aleggia, che sfida la nebbia delle convenzioni e dell’indifferenza, un pensiero rivoluzionario, un grido di vendetta e di rivalsa. Torino è un manipolo di giovani studenti che non accetta passivamente il destino dei propri genitori, partiti dagli angoli più poveri dell’Italia del Sud per rimpinzare le pance e le tasche di uomini già troppo ricchi e potenti. All’inizio sarà una rivista, e poi un movimento, e poi un progetto di rivoluzione rosso sangue, e il suo nome sarà Lotta Continua. Ed ecco che Antonino incontra il sussurro delle sirene e ne rimane ammaliato, la sua sirena ha un nome, Gaby, Gabriella Dalmasso, e Antonino cambia irrimediabilmente la sua rotta, attratto dal canto di quegli anni idealisti, tragici e sanguinari che videro proprio in Torino il nucleo pulsante.

Wilma Avanzato immerge la vita di questo ragazzo qualunque in uno dei decenni più contrastati e discussi della storia italiana, tanto da meritarsi un nome così buio e pesante, anni di Piombo, e lo fa mostrandoci i suoi pensieri, i suoi dubbi, i suoi passi falsi, le sue sirene traditrici.

La scrittrice testimonia attraverso la vita di Antonino la vita di tutti gli “invisibili” che hanno attraversato quegli anni, da una parte e dall’altra della barricata, ma ci dice anche che le sue sirene sono le nostre sirene.

Questo romanzo infatti scorre su un doppio binario, da una parte la storia di un personaggio animato dalla fantasia di uno scrittore, dall’altra, la storia di ognuno di noi, e ci insegna che la vita ha una serie di porte girevoli che ci troviamo a dover oltrepassare, e che dietro ognuna di esse c’è la possibilità di un finale diverso, dipende da quanto bravi saremo ad ascoltare il canto del nostro animo.

Perchè la verità è che la prova da superare, la voce da ascoltare e da dominare, la più difficile di tutte, è la nostra voce interiore. Dobbiamo imparare a controllare e mettere continuamente in dubbio il nostro stesso modo di essere, chi siamo, la materia di cui sono fatti i nostri ideali, ma soprattutto i nostri luoghi più oscuri e neri.

La chiave di lettura di questo romanzo è, a mio avviso, il motto tanto amato da Socrate γνθι σεαυτόν (conosci te stesso). Le sirene si rivolgono a ciascuno di noi in modo diverso, scovano i nostri desideri più segreti e ci mettono di fronte alle nostre più profonde fragilità e solo conoscendo e affrontando le nostre debolezze, Antonino e tutti noi riusciremo, forse, a salvarci.

Grazie a Wilma Avanzato per avermi condotto con la sua scrittura diretta e mai scontata in un periodo così importante, così difficile, e duro, e vivo, da ricordare e da raccontare. Un romanzo che ho letto con passione e che mi ha lasciato molti spunti su cui riflettere, uno su tutti il finale della storia di Antonino Mangiafico, che vi invito a leggere.

 

Livia Cattan Roma, 28/09/2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giuseppe Marchini :" Bicicletta che passione!"

 


Giovedì 3 Ottobre ore 17:30 presso il Centro Sociale Ruffini (Via Vecchia del Piano, adiacente tensostruttura R. Conti) presentazione del saggio di Giuseppe (Pino) Marchini dal titolo "Bicicletta che passione! La storia dell'U.S. Luni e altri racconti"

L'autore racconta Castelnuovo Magra con una nuova ricerca dedicata ad una società sportiva che ha dato lustro al paese per tanti anni. Lo sport riveste una grande importanza anche sociale ed educativa e l'Unione Sportiva Luni non è stata solo una “stagione” rivelatrice di elementi capaci e talentuosi, ma ha dimostrato senza dubbio di saper trasmettere anche modelli di vita e pratiche di comportamento virtuose agli iscritti, ai dirigenti, ai corridori ma anche a quanti, tantissimi (bambini/e, giovani o adulti), seguivano quello sport da spettatori seppur con uguale passione e divertimento.
Pino Marchini s'interessa di storia locale e tradizioni popolari liguri. Opera all'interno della scuola con lezioni sulla favolistica e sulle tradizioni popolari. Ha scritto per "La Spezia oggi", "il Secolo XIX", "Castelnuovo oggi" e "Castelnuovo Democratica". Ha pubblicato molte opere con SAGEP, con la casa editrice DELFINO MORO e per le EDIZIONI CINQUE TERRE.

Ivan Pozzoni :" Florilegio"

 

Ivan Pozzoni è nato a Monza nel 1976. Ha introdotto in Italia la materia della Law and Literature. Ha diffuso saggi su filosofi italiani e su etica e teoria del diritto del mondo antico; ha collaborato con con numerose riviste italiane e internazionali. Tra 2007 e 2018 sono uscite varie sue raccolte di versi: Underground e Riserva Indiana, con A&B Editrice, Versi IntroversiMostriGalata morenteCarmina non dant damenScarti di magazzinoQui gli austriaci sono più severi dei Borboni, Cherchez la troika e La malattia invettiva con Limina Mentis, Lame da rasoi, con Joker, Il Guastatore, con Cleup, Patroclo non deve morire, con deComporre Edizioni. È stato fondatore e direttore della rivista letteraria Il Guastatore – Quaderni «neon»-avanguardisti; è stato fondatore e direttore della rivista letteraria L’Arrivista; è stato direttore esecutivo della rivista filosofica internazionale Información Filosófica; è, o è stato, direttore delle collane Esprit (Limina Mentis), Nidaba (Gilgamesh Edizioni) e Fuzzy (deComporre). Ha fondato una quindicina di case editrici socialiste autogestite. Ha scritto/curato 150 volumi, scritto 1000 saggi, fondato un movimento d'avanguardia (NeoN-avanguardismo, approvato da Zygmunt Bauman), con mille movimentisti, e steso un Anti-Manifesto NeoN-Avanguardista, È menzionato nei maggiori manuali universitari di storia della letteratura, storiografia filosofica e nei maggiori volumi di critica letteraria.Il suo volume La malattia invettiva vince Raduga, menzione della critica al Montano e allo Strega. Viene inserito nell’Atlante dei poeti italiani contemporanei dell’Università di Bologna ed è inserito molteplici volte nella maggiore rivista internazionale di letteratura, Gradiva.I suoi versi sono tradotti in francese, inglese e spagnolo. Nel 2024, dopo sei anni di ritiro totale allo studio accademico, rientra nel mondo artistico italiano e fonda il collettivo NSEAE (Nuova socio/etno/antropologia estetica).

 

 

 

 BRONCHOPNEUMONIA

 

Sei arrivata dalle oscure terre del freddo Est,

riarse dai roghi luminosi di Jan Hus e di Jan Palach

- mi ricordano il suono indistinto del tuo nome

che non so ancora dire, che non so ancora urlare-,

sei arrivata con una borsa piena delle mie fatiche di Ercole

senza riuscire a scambiare i tuoi occhi coi miei occhi,

senza riuscire a scioglierti sotto i colpi del sapore corrosivo del mio alito

(la mia lingua taglia, erode, brucia).

 

Alle anime gemelle non occorrono due anime,

si scontrano come corpi nella concretezza della terra,

si scontrano sulle bollette da pagare, sui conti in rosso, su vite in bilico,

alle anime gemelle non occorrono due corpi

attraverso cui scopare, rotolandosi voluttuosamente in letti madidi

su cui restano impressi i segni delle catene,

alle anime gemelle non occorrono due menti,

alle anime gemelle non occorrono due cervelli,

alle anime gemelle non occorrono due cuori.

 

Sei volata via come la brezza del fantasma di un amore fragile

lasciandomi il compito di rimettere insieme i cocci

della nostra nuova lingua: italiano - english - český,

in un threesome che, ragionevolmente, caratterizzerà la nostra storia,

a fare i conti con il tuo timore di amare e la mia incapacità d’essere amato,

a tossire, a vomitare sangue, a bruciare (due mesi?)

d’una inarrestabile bronchopneumonia amorosa.

 

Alle anime gemelle non occorre niente,

bastano a se stesse, figurine doppie

sovrapposte sull’album dei ricordi della vita,

a mettere in rilievo un attimo brillante di felicità

al tatto di un Dio che colleziona cadaveri e esperienze altrui,

a Milano, a Karlsbad, o a Milansbad.

 

 

 

 

 

SIAMO TIGRI DI CARTA

 

L’una di notte non suona mai così spontanea

dalle mie mani dense di ragadi non battono doloranti filastrocche,

da anni, oramai, sono vittima collaterale di una metrica troppo risoluta

schiava di no Tav, no Vax, no tax, no fly zone,

i miei acidi gastrici carburano con tonnellate di Pantoprazolo

con la digestione impedita da uno stomaco butterato dai buchi del vaiolo.

 

Responsabili e irresponsabili allo stesso momento

rogitiamo case come se dovessimo vivere in eterno,

non ci fidiamo a essere padri o madri e, con nonchalance,

adottiamo amori destinati a non sopravvivere un decennio

non vediamo l’ora, dopo una giornata, che il destino ci scodinzoli alla porta

e non ci rendiamo conto, allo specchio, di barattarci con tigri di carta.

 

Pure va tutto bene e non c’è niente che funziona,

attento alle calorie in eccesso, col contapassi da asino da soma,

bulimizzo ogni sentimento, enigmatico come la sfinge di Chefren,

nessuno saprà mai se sono pago o sto a tre metri dall’overdose d’En,

ubiquo nell’arena, sotto il drappo rosso, bovino dall’aspetto esangue,

non si capisce se sono qui o vorrei stare ovunque.

 

 

 

 

 

 

IL CHIHUAHUEÑO DI PORT-ROYAL

 

Quando ti svegli nella notte e ti avvicini, fragorosa, al batter dei miei tasti

chissà se è me che cerchi, chissà se è me che trovi,

col comportamento di una scimmia allo specchio, la scienza afferma ogni tua inconsapevolezza

e non ricusa, nell’homo sapiens, la stessa consapevolezza con l’esperimento della televisione,

mass-media, esiste chi vive o vive chi esiste auto-identificandosi dentro a un video,

mass-media, la somma dei valori numerici delle masse cerebrali, fratta del loro numero.

 

Quando guaisci, piangi? O è solamente una danza indeterminata di interazioni neurali

a muoverti, muscoli, sentimenti, sogni? Quando dormi, sogni?

Mi scopro, a volte, a interrogarmi sulla nostra reciprocità:

sentiamo un amore senza condizioni, una resa incondizionata, vicendevole,

e tu sbadigli, disinteressandoti d’ogni feedback, forse soddisfatta

dall’immediatezza di una carezza, dall’autenticità di un sorriso o di uno scodinzolio.

 

Quando non ci siamo, soffri? O è soltanto l’ipostatizzazione di una nostra mancanza,

a muoverci muscoli, sentimenti, sogni? Quando ci studi, con il tuo naso indagatore da cerbiatto,

rifletti o agisci d’impulso? Esisti, o non esisti? Esisto, o non esisto?

Perché se non esisti, mio amore innocente, rifiuto d’esistere anch’io,

e se rifiuto d’esistere, rinuncia ad esistere il mondo stesso.

 

Sei la Tenochtitlan dell’ontologia, nata come fico d'India alla base della roccia,

ritrovata – nessuno ti avrebbe mai coperta- da Álvar Núñez Cabeza de Vaca,

sei stata saccheggiata dai conquistadores corsari della logica di Port-Royal

e ridotta, da animali senz’anima, a oggetto inanimato del binomio schiavo / padrone,

senza aver mai considerato che cambi le nostre vite più di Marx e della sua inutile rivoluzione.

 

 

 

 

 

COVID

 

Scrivere sul Coronavirus, adesso, non ha senso,

tutti a tamponarsi senza chiedere consenso

stormi di ambulanze sciamano dal deposito dietro casa

facendo della Lombardia una regione a tabula rasa,

e loro, a correre sui marciapiedi o a formar crocicchi

con grovigli di maschere che neanche un film porno di Schicchi.

 

E i volponi UE mesi a discutere di Mes condizionato

chi cazzo mi trova un lavoro che son rimasto disoccupato,

mi attende una meravigliosa vita da recluso in casa

a togliere i capelli dalla doccia sennò il tubo si intasa,

viva il governo olandese che non vuol condividere il debito

senza capire che a star seduti sullo Stivale l’Europa rischia piaghe da decubito.

 

E il terrore di morire in solitudine corre sul filo, avanza,

alcuni a reclamare i loro dieci anni di meritata vedovanza,

altri a non voler finir scannati come animali

a me, se muoio, buttatemi in una fossa comune tra battone e criminali,

nell’attesa che un eroico ricercatore David

riesca ad abbattere a fiondate il pandemico Covid.

 

 

 

 

 

GLI UOMINI SENZA COGNOME

 

Gli uomini senza umanità non hanno il cognome,

vivono, inintelligibili, come uno spartito di sole semibiscrome,

coltivando il loro misero orticello, due camere e un bagno,

in cerca di condoni reiterati, su terreni del demanio.

 

Gli uomini schiavi dell’indifferenza non hanno il cognome,

ci immunizzano, inutili, come la milza nell’addome

dal fervore, dall’interessamento, dalla solidarietà civile,

convertendo l’egotismo dello stilita in uno stile.

 

Gli uomini senza intelligenza non hanno il cognome,

martellano, propagandistici, con l’arroganza di una réclame,

condannando il mondo a un’esposizione a 100.000 röntgen

col contegno truffaldino della piramide di Chefren.

 

Gli uomini senza cognome, si chiamino Roberti, Lorene, Glorie,

devono essere affogati dentro ettolitri di damnatio memoriae,

non ci devono tangere, novelli Mario Chiesa,

ché buttare i nostri valori nel cesso non è una bella impresa.

 

 

 

 

 a tutti quelli che hanno qualcuno da piangere

 

A tutti quelli che hanno qualcuno da piangere,

in nome della loro mancanza di ispirazione,

hanno la fortuna di non aver niente da ridere,

come nel ritornello de La donna cannone.

 

A tutti quelli che hanno qualcuno da piangere,

una bottiglia di vino come amico fragile,

gli occhi gonfi pieni di dispiacere,

gli occhi gonfi di sangue come uno sbandato pugile.

 

A tutti quelli che hanno qualcuno da piangere,

che si sentono da buttare via

e non hanno agli occhi zanzariere

che permettano di scacciare ogni fobia.

 

A tutti quelli che hanno qualcuno da piangere,

stanati sulle labbra di un amore,

non trovano la forza di vivere

quando hanno strappato loro il cuore.

 

A tutti quelli che hanno qualcuno da piangere,

sbattuti sulla riva come Ulisse,

nuovi eroi che non hanno niente da vincere

lacrime sulle ordinate e sangue sulle ascisse.

 

A tutti quelli che hanno qualcuno da piangere,

ta-ra-da-dà, e le seconde strofe sono tutte da inventare,

devono apparire come stessero per sopraggiungere

come buche carsiche sulle strade dell’amore.

 

A tutti quelli che hanno qualcuno da piangere,

piangete, piangete, non lesinate

le lacrime si rimpiazzano con un buon bicchiere

smezzato a sorsi di lacrime bicarbonate.

 

 

 

 

Ezra Pound

 

La città non muore mai, avvolta in un alone di fuoco,

nemmeno se la coprono di cavalli di frisia,

non serve neanche riempirla di portoni taglia-fuoco,

la città è sola, si scioglie facilmente in un barattolo di magnesia.

 

Siamo tutti soli, siamo tutti fatti a pezzetti

i palazzi continuano a farci da cellophane

la solitudine ci impedisce di far progetti

proiettati come Prost in una mortifera chicane.

 

Le relazioni durano un tanto al metro

amore, amore, sì, ma con criterio

tutti morti, tutti alla Porta di San Pietro

con una scientifica vocazione al martirio.

 

È la festa del lavoro, dignità umana

si va avanti a raccomandati e figli di puttana,

tutti, depressi, ad attendere il Recovery Fund,

e finiremo con Mussolini a stringer la mano a Ezra Pound.

 

 

 

 

 L’EPATITE IVA

 

Il contribuente italiano medio tra tasse, imposte e accise

subisce morsi e ricorsi stoici peggio che alla Corte d’Assise,

navigando sempre in cattive acque, lo hanno dichiarato santo

e contro le scottature da cartella esattoriale usa la tuta d’amianto.

 

L’epatite IVA è una malattia altamente contagiosa,

il cuneo fiscale ha la funzione di un catetere senza ipotenusa,

drenare liquidi dai buchi neri dei conti correnti non millanta

l’idea di far chinare concittadini sofferenti a quota Novanta.

 

La metafora del drenaggio, verso lo Stato italiano, non è balzana,

l’Agenzia delle Entrate ci rivolta i calzoni come indomita mezzana,

la malattia è ormai cronica, come terapia sedativa resta la flat tax

la calma piatta dei mercati internazionali non ci facilita il relax,

tra salvare 5.000.000 di italiani o incrementar lo spread

la scelta è tanto semplice che non ci vorrebbe un Dredd,

speriamo solo che un nuovo dottor Sottile non emetta prelievi forzati

sul 6‰ dei conti correnti dei soliti disgraziati.

 

 

 

 

 LA TERZA VOLTA DI LAZZARO

 

Questa è la terza volta che mi levano il sudario,

sono ancora in grado di flexare senza l’uso di un rimario,

non riesco neanche a sperare nel famoso logos di un missile russo,

in cammino sulla strada verso Odessa con venti sintomi da reflusso

curiosissimo dello stato dello star system italiano bevo vodka ed un cachet

nessun refolo di cambiamento: dittatore di Atelier è restato Giuliano Berchet.

 

Spostato il masso del sepolcro, dopo sei anni, controllo il catalogo Mondadori,

sarà svanito il cucchismo, 0,9% del fatturato, e mi ritrovo i soliti cinque autori

Ruffilli, Lamarque, De Angelis, le solite novità settuagenarie, e l’Opera omnia di Viviani,

che a raccontare tutto in Macedonia e Kosovo non smetterebbero di batterci le mani,

Yēšūa, nel 2018, ti eri impegnato a regalarmi il dono dell’auto-felllatio,

nel 2024, con impegno, vedrò di fare il miracolo da solo, senza estensione del prepuzio.

 

Questo continuo rinascere, e sparire, rinascere, e sparire, mi sta mettendo in confusione

sono l’artista del Raduga, dello Strega e del Montano, o una valletta della televisione,

va a finire sempre nello stesso modo: inizio a scrivere e mi metto nei pastiche,

m’hanno detto che cito citazioni di citazioni come Lapo tira su le strisce,

le uniche citazioni le ricevo in Tribunale da mediocri titolari di associazioni di Rimbaud

che chiedono elemosina ai «dilettanti» allo sbaraglio asserragliati nei lit-blog,

ho idea che mi richiudo ancora nella tomba e mi rimetto a studiar l’abbecedario,

le donne sono andate tutte via, come cazzo faccio a rimettermi il sudario.

 

 

 

 

 

LA GIORNATA MONDIALE DELLA POESIA

 

Ricordo, anni fa, la giornata all’ospizio di Sesto San Giovanni

decine di vecchi a lanciar versi come in una voliera di barbagianni,

declamavano di amore, campagne, tutti i luoghi comuni del creato

molto simili a muezzin infoiati sui minareti del Califfato.

 

All’arte di Euturpe hanno dedicato un’intera giornata mondiale

ai nostri eroi un anno intero a far versi non riusciva a bastare,

cantano raggi di sole fino a condurre l’uditorio in stato di choc

e io non riesco a cantare che di Ippocampi avvinghiati a cotton fioc.

 

Oggi sarà la serata mondiale del corso e concorso

con claque che nemmeno il Berlusca da Barbara D’Urso,

centinaia di scrittori inutili, inquadrati in mostra alle decine di manifestazioni

la maggior parte in cerca di un’ora di noia e i soliti furbi a arraffare gettoni.

 

La giornata mondiale della poesia mi ricorda la Festa della Donna

milioni di uomini in fila, con mimose, a cantare i loro osanna,

lasciando bicchieri nel lavandino e mutande nella cesta

che tanto, domani, a lavarli sarà compito della Festa.