domenica 31 gennaio 2021

MARCO ZELIOLI LEGGE: "OPERA OMNIA" DI PASQUALE D'ALTERIO

Pasquale D’Alterio

OPERA OMNIA 

Recensione di Marco Zelioli

 

 

È uscita per la collana di volumi monografici Il Pendolo d’Oro di Guido Miano Editore l’Opera omnia di Pasquale D’Alterio, professore napoletano i cui versi, pubblicati prevalentemente dal 2014 in qua, ci riportano alla classicità. Non per nulla, delle cinque raccolte che compongono l’opera, l’ultima è dedicata alla traduzione in versi di alcuni lirici greci (da Alceo e Alcmane a Saffo e Simonide) e del latino Orazio, tanto da giustificare in pieno l’estrema sintesi del giudizio estetico del prefatore, Enzo Concardi: “stile classicheggiante ed asciutto” (p.10). Ancora nella Prefazione si accenna allo struggimento dell’Autore, quasi “in balia di sé stesso in un mondo ostile e sconosciuto, da evitare e non da costruire” (p.8), e che in ciò “richiama le suggestioni del pessimismo antropologico e filosofico del Leopardi” e, ancor più, “lo scacco esistenziale dell’individuo, che non riesce – nonostante i tentativi della volontà – a superare le barriere dell’esperienza, soprattutto nel bel mezzo della crisi di civiltà e di ideali della società d’oggi” (p.9). Tale visione piuttosto pessimistica del mondo, che nei toni dell’Autore torna come “tristezza e fatalismo, poiché sia la terra che il cielo gareggiano ad infonderci uggia e noia” (p.11), sta un po’ in tutte le poesie della raccolta.

Il più profondo anelito dello scrittore è forse racchiuso nei versi della sua ultima produzione, Le pagine della nostra vita (2020) che apre l’opera con Avrei voluto cantare, che finisce così: “avrei voluto cantare/ quell’amore che va oltre ogni limite/ della vita e del tempo infinito,/ il suo sorriso che luminoso rendeva il suo volto:/ ho cantato invece la malinconia/ che sempre mi pervade,/ la solitudine e il rimpianto/ perché di me, con la tua morte,/ perì grande parte” (p.14). La perdita dell’amata segna fortemente la poesia del D’Alterio, e se gli par di riveder tra le nuvole “il suo volto sereno e sorridente” (Sovente m’illudo, p.15), ciò è solo parvenza evanescente “quale straccio di nubi” (Felicità, p.16). In ciò è di conforto “solo la voce del cuore/ che, sempre,/ di te mi parla” (Non ascolterò, p.17); e se “Rimpianto non v’è/ per ciò che la vita non ci ha dato/ ma solo per quello/ che, con generosità, natura concesse/ ma che, con pari crudeltà,/ all’improvviso ci tolse” (Il rimpianto, p.19), “sempre il tuo nome risuonerà / nel mio cuore (Ti ricorderò, p.23), “fino a che un soffio di vita/ aleggerà in me” (Le pagine della vita, p.25).

Anche nella seconda parte dell’opera (Ancora nel cuore, 2019) torna sovente il tema della malinconica perdita dell’amata, come, ad esempio, in Lascerò sfiorire le rose: “Mi manca, seppur sovente muta,/ la tua consolante presenza./ Mio soltanto è il dolore,/ mio di te il rimpianto,/ mia, infine, la triste solitudine” (p.29). Mestizia che affiora anche in Sulla tomba del fratello Nicola (p.34) e In ricordo della sorella Rinuccia (p.79), ma di tanto in tanto è rischiarata da riflessioni pacate, come in Solo quando ti accorgi, che così conclude: “Ogni alba e tramonto/ apporterà in noi diverse visioni/ di meraviglia e stupore” (p.36), e in L’amore vero, non “caduco come le umane illusioni” (p.39), pur se “Terra e cielo, riflesso del nostro animo,/ gareggiano nell’infondere tristezza” (Alba di un giorno d’inverno, p.38). Anche la natura pare partecipare a tale universale struggimento per la fragilità umana, come ne La quercia caduta: “…e sol resterà un legno/ ormai per sempre senza vita” (p.40).

Solo il sogno sembra poter riportare alla serenità perduta (“così della dolcezza del sogno/ un lieve sentore/ di piacere persiste”, Ancora nel cuore, p.44).

Al sogno paiono ricongiungersi le traduzioni poetiche del D’Alterio, nell’ultima parte del volume: Versioni da poeti della classicità greca e latina. In esse l’Autore, incontrando l’anima degli antichi lirici, sembra ritrovare in sé quella pace interiore che la visione del mondo contemporaneo, col suo continuo brusìo confusivo e i suoi dolori latenti, quasi vuol cancellare. Torna la quiete, la pace soffusa de La notte di Alcmane, penultimo componimento di quest’Opera Omnia: “Dormono le cime dei monti/ e le convalli e le balze e i burrati/ e le stirpi degli animali striscianti,/ quanti ne nutre la nera terra,/ e le fiere montane e la stirpe delle api/ e nei fondali del cupo mare i mostri;/ dormono le stirpi degli uccelli/ dal rapido volo” (p.156).

In mezzo troviamo altre due nutrite raccolte. Ne Il canto dell’anima (2016), dalla sensazione di oscurità dell’orizzonte, nota tipica dell’autore (“Si vive aspettando/ un sonno che sarà eterno”, recitano gli ultimi due versi di Mai di te…, p.49; “E giunge alfine il sole,/ ma dall’animo/ non scompaiono le tenebre”, L’alba 1, p.54), scaturiscono immagini taglienti, come quando ci ricorda che l’amore è “Ferita mortale che/ alla coscienza fa balenare/ or la gioia dell’eternità,/ or la miseria della sua fragilità” (L’amore, p.52); o quando medita: “Ma il tempo che viviamo/ già non è più/ ed il futuro ancor non esiste” (Frammenti, p.55), e pensa ai suoi dolori ripiegati tra Le pagine della memoria (p.57). Davvero lo si può riconoscere come Il poetache sa scendere nel profondo/ dell’animo suo e di altri,/ ascoltare suoni e voci/ che altri non odono” (p.60), spingendoci a riflessioni profonde su ciò che più vale nella nostra vita, anche quando essa sta Tra sogno e realtà (p.67), e ponendoci domande ineludibili, come in Mortali nascemmo: “Può alcun forse dire/ se un bene o un male/ sia il vivere più a lungo?” (p.72).

Nella raccolta La Vita, il Tempo, l’Amore, la Morte (2014), formata per lo più di componimenti brevissimi, affiora qua e là una sobria vivezza di immagini naturalistiche ed una serie di ricordi più leggeri, quasi come Divagazioni (“Col pensiero percorro/ interminati spazi/ e tempi remoti;/ ma per quanto io proceda/ sempre ritorno/ là onde son mosso” - p.118), che svelano la dolcezza de L’amore sognato (“L’amore sognato, sperato,/ che spacca il cuore/ e strappa i capelli,// l’amore cantato dai poeti,/ che ti fa fremere e gioire/ e ti fa procedere lieve, come danzando,// l’amore che vince il tempo e gli eventi,/ che colora e rende dolce la vita/ è, sì come giovinezza, sogno breve” - p.119). Perdura, tuttavia, una certa cupezza. Per questo mi paiono appropriati a concludere questi versi tratti da Thanatos, ispirata ai foscoliani Sepolcri: “Misero invero colui al quale/ di gioia e d’amore/ avara fu la vita” (p.94); o questi altri, senza titolo, di p.96: “L’uomo, nei suoi vani sogni/ di ricchezza perso,/ del suo lento morir/ non s’avvede”; ma soprattutto l’immagine ungarettiana della poesia A mio figlio: “Verrà il giorno, tra noi,/ dell’estremo saluto./ E porterai nella mente/ scolpito il ricordo/ della mano levata/ a porgere/ l’inconsapevole ultimo addio” (p.106).

Il D’Alterio non offre mai versi traboccanti di vivacità, ma la loro lettura è salutare per chiunque non ricerchi nella poesia una sterile evasione. La sua è poesia profonda, meditativa, piena di reminiscenze degli autori classici antichi e moderni (tanto nelle tematiche che nel procedere fluente dello scrivere), ma sempre personalissima; e si fa apprezzare soprattutto perché non è mai banale.

L’attività letteraria di Pasquale D’Alterio è trattata nel IV volume dell’opera Contributi per la Storia della Letteratura Italiana. Dal secondo Novecento ai giorni nostri, terza edizione 2020, pubblicata da Guido Miano Editore.


Marco Zelioli

 

Pasquale D’Alterio. OPERA OMNIA, pref. di Enzo Concardi, pp.180, Guido Miano Editore, Milano 2020, isbn 978-88-31497-28-2; mianoposta@gmail.com.

 

LOREDANA D'ALFONSO LEGGE: "OGGI E' PRIMAVERA E IO NON POSSO VEDERLA", DI MARCO SOLARO

Loredana D’Alfonso su “Oggi è primavera e io non posso vederla” di Marco Solaro

 

Loredana D'Alfonso,
collaboratrice di Lèucade

“Oggi è primavera e io non posso vederla” di Marco Solaro, della Edizioni Graus, è un libro molto originale e nell’apparenza  complesso.

L’Autore - neurologo e scrittore - molto acutamente ci svela la chiave del romanzo in premessa, nella citazione di Jorge Luis Borges “Qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà in un solo momento: il momento in cui l’uomo sa per sempre chi è”.

In questo modo Solaro ci apre un sentiero per seguire il romanzo che si divide in due parti: il prologo ci presenta un non vedente seduto su un marciapiede e un cartello vicino al cappello con la scritta “Sono cieco, aiutatemi per favore”. Un pubblicitario di passaggio cambia la scritta con “Oggi è primavera e io non posso vederla” e la trovata fa sì che il cappello si riempia rapidamente di banconote.

Il personaggio centrale, il non vedente, è descritto con una tale empatia che esce dalle pagine come una persona reale, e ci sembra di conoscerlo da sempre.

Avendo perso la vista, vive intensamente con gli altri sensi. Si accorge del tempo che passa dal cambio della temperatura del gradino dove siede a mendicare, dai rintocchi della campana della chiesa, dal rumore del traffico che muta con il passare delle ore, dagli uccelli che cantano al tramonto, dagli odori che lo circondano.

Altro personaggio importante della vicenda è il salumiere che ha la bottega nelle vicinanze e con il quale il cieco stringe amicizia. Il negoziante gli lascia un vecchio magazzino attrezzato con bagno, un angolo cottura e un posto letto.

Il giorno in cui il pubblicitario cambia la scritta sul cartello e, per caso, gli dà l’opportunità di avere un’abbondante elemosina, il cieco viene assalito, derubato e malmenato. Questo episodio di violenza gratuito scatena una tale desolazione nell’uomo, che “il cieco  che si sente cieco”. Privato di dignità, in balia della paura e del buio.

Un buio completo, che lo riporta ai tempi infantili quando invocava l’aiuto del padre.

L’Autore, nel far parlare i suoi personaggi, (il cieco, il salumiere e sua moglie) enuncia grandi verità. Sono veri e propri dialoghi di alta filosofia sulla vita in generale e sul concetto di primavera che “non è un semplice oggetto che possiamo riconoscere solo con la vista. Per essere vista va riconosciuta e ciò può essere ottenuto utilizzando tutti i sensi”.

L’uomo che adesso si trova a mendicare non era stato sempre cieco ma si era ammalato da adolescente, aveva perso i genitori e la vita lo aveva privato della vista e poi costretto a chiedere l’elemosina in strada.

L’Autore ci parla di Borges, del senso della vita, di Dio e di Suo Figlio  che aveva sperimentato, al pari di ogni uomo, la disperazione del Getsemani e l’abbandono sulla Croce.

In questa prima parte del romanzo il cieco è ripiegato su se stesso, si trascina nei ricordi, soprattutto rivolti al padre, e sente che negli altri può suscitare solo pena.

 

Nella seconda parte il protagonista si sveglia con le ossa dolenti per la notte passata sul marciapiede.

Ha sognato tutto? E’ mai esistito il suo amico salumiere?

Chi è lui veramente?

Questo è uno dei passaggi nodali del libro, uno dei messaggi profondi che Solaro ci trasmette.

“Non è solo chi non conosce nessuno, ma è solo chi  non conosce se stesso”.

E ancora “Se una persona conosce e riconosce se stessa è perché ha imparato a riconoscere negli altri l’immagine del proprio volto”.

Il cieco avverte la fame e va verso il negozio del salumiere che ovviamente non conosce.

Ma il salumiere conosce lui, vedendolo da anni sul gradino del marciapiede ad elemosinare. L’uomo ordina pane e mortadella, e seguendo sempre il filo dei suoi pensieri,  si sente sempre più convinto “che il sogno della notte precedente era arrivato al momento giusto, era un utile carburante per proseguire”.

Piano piano, il suo comportamento cambia, capisce che non si era mai aperto al prossimo, ma che aveva usato la sua cecità come uno scudo per difendersi dal mondo.

“Follia è fare sempre la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi”. 

L’uomo adotta nuovi comportamenti, va nei bagni pubblici, porta i vestiti nella lavanderia a gettone, si rade, compra una brioche, piange per una musica struggente che si perde nell’aria.

E cambiando gradatamente abitudini “sperimenta che condividere significa distribuire il carico delle gioie e dei dolori, così da rendere i dolori più sopportabili e le gioie più intense”.

Alla fine della vicenda il sogno diventa realtà perché il salumiere decide di dare al suo nuovo amico uno spazio dove dormire riparato e potersi accudire.

“Se non c’era un Padre immaginario disposto ad ascoltare l’invocazione di un figlio, ci sarebbe stato almeno un fratello in carne ed ossa in grado di farlo”, pensò il salumiere”.

Ed è in quel momento che il cieco riacquista la vista, quella interiore, perché finalmente riesce ad aprirsi al mondo.

Mi sono persa tra le pagine di questo libro, dove sono racchiuse molte verità e altrettanti spunti di riflessione, dove ci si commuove e dove si trova un grande messaggio di speranza: l’Amore continua a nascere, a dispetto di tutto,  spesso spunta e cresce nei luoghi più impensati e nelle situazioni più impervie.

Il testo di Marco Solaro indubbiamente ha una forte impronta filosofica e non religiosa: Cristo viene vissuto dall’Autore come un Volto in cui tutta l’umanità si può riconoscere.

D’altra parte, devo dire che la vicenda, così emozionante e piena di delicatezza,  ha richiamato alla mia memoria una celebre citazione dello scrittore Gilbert Cesbron: “Il Cielo è simile alle sponde di un biliardo: le nostre preghiere, se sono abbastanza forti, vi rimbalzano per raggiungere la loro meta. Talvolta restiamo sorpresi per la direzione che esse prendono”. 

Loredana D’Alfonso

 

 

giovedì 28 gennaio 2021

FLORIANO ROMBOLI: "VALORE MORALE DEL RICORDO...", IN TOMMASO TOMMASI


    Valore morale del ricordo e ansia di libertà nell’ultima raccolta poetica di Tommaso Tommasi

 

Floriano Romboli (a sinistra),
collaboratore di Lèucade

Il motivo del ricordo risulta fondamentale nella problematica intellettuale e nella strategia strutturale-ordinativa di Ripamaro. Poemetti e poesie, il volume di versi di Tommaso Tommasi pubblicato proprio alla fine dello scorso anno dalla Casa Editrice Miano.

Il tema s’impone all’attenzione del lettore fin dall’inizio del primo poemetto, il più ampio, intitolato L’estate 1977 : “Pensieri riscopro che credevo/ dimenticati sulla strada della vita./ Ho vissuto lontano dalla mia infanzia,/ ma ora la ritrovo./ Dopo vent’anni torno nella mia vecchia casa,/ dopo vent’anni rivedo il tesoro di mio nonno,/ le vecchie cose amate che la polvere ricopre/ ma io riconosco e ricordo” (vv.2-9, corsivi miei).

La frequenza del prefisso iterativo attesta l’urgente necessità della riappropriazione di un prezioso lascito etico-culturale che costituisce il fondamento irrinunciabile di un’identità individuale e collettiva che il commosso recupero lirico-memoriale tutela e avvalora: “Rivedo il grande focolare riscaldare le sere d’inverno/ e allietare quelle d’estate/ quando le discussioni vivevano dello spirito felice/ che la natura accompagna all’uomo (…) Domenica senza storia/ anche se le campane suonano/ e svegliano la mia memoria./ Un giorno come ieri,/ un giorno come domani,/ eppure era diverso quando Quirino/ mi riempiva di favole e lo stavo ad ascoltare/ dedicandogli il tempo della vita./ Momenti di immobile energia/ che però non ho dimenticato” (ivi, vv.27-30 e 130-139, cors. mio).

L’efficacia “energetica” intrinseca alla tradizione e all’ethos connaturale al piccolo, periferico paese d’origine (Ripatransone, nella provincia ascolana, richiamato nel titolo) è poi potenziata dal vivo disagio provato dall’autore dinanzi al sistema di vita imposto con soffocante durezza dalla civiltà urbano-industriale, innaturale, meccanizzante e omologativa: “Non ricordo altre vite./ Questa che vivo parla di violenza./ Da essa è solo possibile fuggire./ Il mondo è condannato all’abisso/ con l’indifferenza di una persecuzione/ che non ha fondamento umano./ Vivere diventa più difficile/ vivendo in tombe aperte/ dove l’asfalto brucia il futuro/ e i mostri gettano il loro sangue/ partecipando alla follia di corse pazze”(ivi, vv.213-223).

Tuttavia una posizione ideologica siffatta, suggestivamente nostalgica e pasolinianamente pensosa, non appaga la sensibilità del poeta, convinto d’altronde che “ il mondo è più grande di Ripa”(ivi, v.161) e che il rifugio borghigiano-campestre, l’idea dell’“isola felice” possono assumere altresì valenze regressive e in particolare avere implicazioni limitative della libertà del singolo e dell’aspirazione insopprimibile a nuove esperienze, a nuovi e differenti percorsi, nella consapevolezza che “ogni giorno l’estate ricomincia/ con le stesse voci nuove,/ nel tempo passato e irrecuperabile” (ivi, vv. 287-289).

La vita infine consiste pure nel “perdere contenuti antichi/ alla ricerca di nuovi destini” (ivi, vv. 374-375, corsivi miei) e  “libertà è volare nell’aria come un gabbiano/ che si posa sull’onda e non la tocca,/ felice di andare col vento/ senza una meta fissata da altri,/ girare intorno al fuoco dei gitani/ che si posano dove il vento li posa,/ nella più totale anarchia di chi sente/ di essere il solo padrone di sé” (ivi, vv. 106-113).

L’intima tensione fra senso orgoglioso delle radici antiche e acuto bisogno della più ampia libertà personale costituisce il nucleo genetico, lo spunto primario e traente della ricerca artistico-letteraria di Tommasi, nell’àmbito di un quadro ideale e di un disegno conoscitivo dominati da “insanabili antinomie”, come bene ha rilevato Rossella Cerniglia nel profilo dello scrittore tracciato nel volume quarto (2020) della Storia della letteratura italiana. Dal secondo Novecento ai giorni nostri stampata dal medesimo editore Miano.

Il discorso lirico tommasiano si anima infatti della costante dialettica dei contrarî (vita/morte; luce/buio; sogno/realtà; natura/civiltà umana; innovazione/abitudine; antichità/modernità); e la stessa visione del mare – ora “azzurro” e tonificante, ora “scuro” e minaccioso – risente di tale costituzionale ambivalenza, di una attenzione spiccata alla contraddittorietà dell’ordine delle cose naturali e specialmente umane: “La- crime nere di cristallo saltellano nel mare vecchio della/ noia. Baracche riflettono nell’acqua il silenzio./ Nel mare dell’abitudine ricerco una nuova via tra gli scogli/ oscuri della notte (…) Solo con la natura, eppure intorno a me vive il mondo vive il mondo./ Davanti al mare che tuona nel suo rullio infinito, cerco il/ mondo della mia fantasia che mi aiuta a vivere” ( v. il poemetto Inno al mare, vv. 13-16 e 30-32 ).

La seconda parte del libro accoglie una nutrita serie di poesie brevi, “gocce” di saggezza creativa, ove sperimentazione formale-linguistica e concentrazione riflessiva si uniscono stimolate da passione partecipativa e dal gusto di una meditata, mordente ironia: “Il cappotto nasconde la gravità/sublime di fronte all’altalenante/ fantoccio che dice ‘sì’”;    “Grazie all’impronta del giocatore/ che va per giocare ma resta giocato/ sublimo il palcoscenico per tutelare/ la frequenza”;    “Gli alberi lontani e silenziosi/ sembrano abbassarsi al suolo fino ai/ fiori della vita”;   “Con gli occhi arrossati rispondo al/ vento che muove i cavalli verso/ strade calde”.

Sul palcoscenico della vita, definita in un incompiuto componimento finale, con ricercatezza ossimorica, “piacevole tormento”, le avventure sembrano finite, “eppure ogni giorno è/ un’avventura”; e  se  “il giornale è/ lo specchio di una vita/ senza coraggio, dove/ nessuno sa recitare la propria parte e cade/ all’indietro”, Tommasi intende aggredire con rigore “i conformismi e le ipocrisie sociali, le mode e le tendenze snob, l’avere e l’apparire”, secondo che avverte nella prefazione, con la consueta lucidità, l’amico Enzo Concardi.

Comunque anche in questo contesto lo sguardo del poeta è rivolto alle prospettive del futuro (“L’albero senza fronde non oscura il sole se due/ uomini guardano lontano”), giacché a suo parere ogni soluzione conservatrice rappresenta un ostacolo sostanziale per la fantasia e la libertà: “Ritornare non può allargare la/ mente a nuove scoperte e a nuovi/ comportamenti”(corsivi miei).                                                                                            

Floriano  Romboli

 

 

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MARCO DEI FERRARI: "RIFLESSIONI"

Dalla "lettura" di Pasquale Balestriere sulla "Biblioteca" di Nazario Pardini

(Riflessioni)

La "lettura" analitica che Pasquale Balestriere percorre compiutamente nelle sezioni della silloge pardiniana ("Dagli scaffali della biblioteca") induce a qualche riflessione.

Pardini è un nostalgico degli affetti e dei sentimenti memoriali, ma questa interpretazione non debba trarre in inganno: infatti i genitori, i fratelli, la campagna, la casa, i nomi (cose, persone, vicende... le connota Balestriere) non hanno esaurito il proprio quadro scenico concorsuale/collaterale perché "vivono" nella superiore umanizzazione valoriale del poeta che ne distilla ed invoca liricamente tempi e modi esistenziali senza soluzione di continuità in una unità omogenea e totalizzante.

Nulla sfugge al "dettaglio" intuitivo dell'artista che alimenta la "presenza" nelle immagini figurative dialoganti con i "ricordi" che tali non sono, in quanto introspezioni concrete di un vissuto/vivente in un oggi proiettato nel passato di un futuro ricorrente e coinvolgente oltre ogni misura.

Dalla "mostra" di sentimenti alla presenza di una "Biblioteca" vivente e arroccata nella sua indivisibilità espressiva il passo è breve.

Pardini lo percorre agevolmente "scomodando" Autori eccellenti, integrandone liricamente contenuti e progetti, interloquendo costantemente in una selettiva "opera" comunitaria, vivificandone i gesti artistici e linguistici, sempre trasfondendo si nelle loro passioni storicizzate individualmente.

Tutto il "gruppo" si ravviva, riemerge dall'oblio o dalla pigrizia di stanche disamine scontate e ripetitive: Platone e Dante respingono l'incontro, Catullo ci riprova con Lesbia, D'Annunzio rievoca la Versilia, Saba ritorna a Trieste dalla moglie, Pavese deluso onora il padre (Grande Padre), Cardarelli chiede visibilità, Ungaretti si spalma in Lucca, Pastouchi non dimentica la nonna, Caproni chiede di leggersi per la madre, Campana e Sibilla Alerano tornano a flirtare liricamente e non solo, Trilussa non cessa di satireggiare giocando con il proprio tempo e poi Foscolo, cultore della bellezza (afferma Balestriere) sofferto, illuso e serioso, anche Montale risorge e insorge, mentre Quasimodo nel dolore ripercorre gli anni della guerra, da ultimo il poeta stesso si offre indomabile ai "grandi" con la lettura delle sue 10 poesie sull'amore.

È la terza sezione che ci appassiona maggiormente per il culto pardiniano dell'amore.

Delia è la protagonista per eccellenza: per ogni dove, dalla spiaggia alle orme, dalla piazza al cuore, dallo splendore dello sguardo al drammatico declino...

Ma Delia non è un mausoleo del passato pardiniano; continua a vivere riumanizzata nella sua metamorfosi valoriale che non abbandona i canoni sacri (giovinezza... amore... bellezza...) ma li ravviva perennemente.

La memoria per Pardini non è il rimpianto o l'abbandono, ma una Nemesi perdurante che riequilibra scompensi fatturali o sentimentali, cadute e depressioni, tempi e spazi, Natura e trascendenza, bene e male, destino e libero arbitrio.

La Nemesi pardiniana è la novità intrinseca che guida al discernimento selettivo di tematiche nascoste nei poeti ospiti degli scaffali, tutti quasi pentiti di scelte lontane e irripetibili anche artisticamente; poeti disilluli e inquieti, stanchi di un oblio cartaceo zeppo di polvere e di tarli...

Una Nemesi che afferra e affonda ogni certezza acquisita per scoprirsi "bilancia" di equilibri, sintesi di saggezza esistenziale, luminosità di verità in divenire...

La verità di un "essere" dove l'amore senza tempo si trasforma in multiformi "essenzialità", armonie musicali, respiri corali, profumi di malinconie, orizzonti di silenzi, stagioni uniche di calori, colori e luci, "creato" di giorni irripetibili.

Pardini (che Balestriere definisce acutamente "poeta/bibliotecario") pertanto sigilla per sempre il suo patrimonio artistico/culturale intricandolo nella sovrapposizione delle opere (autore/scrittore e poeta/narratore così lo sintetizza Balestriere) e con un artificio dialettico ne converge gli esiti in un'elevazione spirituale dei valori eterni incardinati nell'Essere degli "esseri", custode della vita e della morte nell'Eden primordiale o nei "Campi Elisi" di Virgilio.

Ma Delia non è l'Eden perduto pardiniano, ne è il progetto sentimentale, l'"incompiuto" che anche la "Nemesi" deve accettare per non soccombere; i poeti della Biblioteca sono i "testimoni" di vita e morte che risorgono per un giorno indefinito al volere dell'Essere; i sentimenti sono l'estratto lirico del Poeta che occupano mente e cuore, appellandosi ai "grandi" con fiduciosa attesa...

Tutto questo narrato poetico si avvale di un "sentire" semplicemente profondo, spiritualmente leggero, ritmicamente lineare (Balestriere annota endecasillabi, settenari, quinari... suggestioni ed echi di sonorità toscane...) e la "spiritualità" pardiniana emerge in ogni dettaglio, nel cenno poetico, nelle impressioni intuitive come accade al pittore che onora l'Arte con l'immagine di "presenza" poliversamente cromatica (non a caso il Poeta "apre" con Chagall).

E Pardini è anche un "pittore" della Poesia nel suo più elevato significarsi di "sopravvivenza memoriale" (come sottolinea Balestriere) a servizio non solo individuale, ma altresì comunitario.

 Marco dei Ferrari


SONIA GIOVANNETTI: "NEL GIORNO DELLA MEMORIA"


 

ADRIANA PEDICINI LEGGE: "DAGLI SCAFFALI DELLA BIBLIOTECA"

Caro Nazario,

Adriana Pedicini,
collaboratrice di Lèucade
non intendo scrivere una recensione, né articolare riflessioni meditate, ma fissare sul foglio impressioni immediate e autentiche, suggestioni spontanee e non filtrate dall’impegno di dover scrivere cose importanti.

Dunque…inizio dalla parte centrale del corpus Dagli scaffali della biblioteca. Definirei le poesie ivi comprese dei παίγνια, dei giochi letterari, alla maniera di Catullo. Che poi giochi non sono se si vuole alludere a qualcosa di effimero e superficiale, bensì il frutto di un grande lavoro di cesello unito a profondi motivi ispiratori che, partendo dai veri e propri idilli dell’inizio di questa sezione, fanno della poesia la compagna migliore a superare le intemperie della vita: ‘Resto solo. Ma nell’aria continuano a volare/parole e melodie; indifferenti/al giungere di nubi ed acquazzoni’. (III)

Una corona, una ghirlanda di componimenti poetici tutti modulati sul dialogo o sul contrasto: botta e risposta, dove s’intrecciano numerosissimi esempi di intertestualità esterna. Ne viene fuori una carrellata di testi di personaggi/autori verso cui il Nostro prova una sorprendente empatia, riuscendo a captare le sottili sfumature di animi inquieti, che poi sono anche le sue. A cui accosta il suo racconto poetico senza evidenti fratture stilistiche con i suoi interlocutori che disturbino la lettura. Talvolta crea anche delle isole di metapoesia, riflettendo su dati teorici, come quando fa riferimento alla pari dignità e necessità, in un testo poetico, del contenuto e della forma. Lo fa attraverso le parole attribuite a D’Annunzio e Leopardi.

È qui che risalta, come sarà poi nella prima e seconda sezione del libro, la necessità degli affetti domestici, in particolare della madre, come si evince da numerosissimi esempi di Autori che gli chiedono, nell’immaginario colloquio, di recitare i versi sulle tombe di quelle, quale estremo tributo ad un affetto inesauribile.

Non è da credere tuttavia che la saudade sia l’unica tonalità delle poesie.

Al contrario, troviamo spirito, immediatezza, salacità, audacia stilistica e lessicale, variazione ritmica, una scelta resa possibile dall’affinità con il poetare del Veronese.

L’ammissione di Nazario Pardini nel novero dei Poeti avviene con una trovata metaforica in cui si esplica attraverso una fiaba il rapporto tra ricchezza e povertà, tra felicita e tristezza, la cui differenza è determinata dall’homo faber, ma consolidata dall’Amore.

Incontri felici, incontri istruttivi, incontri mesti come quello con Saba, intriso di profondo affetto per la sua Lina. Circola in questa poesia una sorta di critica dell’opera di Saba, ma con una leggerezza tale che sembra sia davvero il poeta triestino a parlare. Tanto dolore, ma mai quanto traspare dai versi dedicati a Pavese, lasciato solo a combattere contro i suoi mostri, generati forse dalla solitudine a seguito della scomparsa del padre e non compresi dai contemporanei.

Spesso Nazario Pardini presta la voce, ossia le parole, al pathos di Poeti divisi tra il desiderio di bellezza e la mostruosità del reale, come nel caso di Cardarelli: ‘Ora sono qui/ dentro i miei canti o dentro le memorie/di una vita infelice e menomata’.

La dolcezza di Sentimento del tempo e, interpretando il Poeta, l’invito all’ Allegria, che sola può dar vita alla pace, che sola può dar luogo all’Amore, sembra superare perfino il dolore della guerra nella voce rotta di Ungaretti, cifra del suo animo cupo.

Anche nei Poeti della Biblioteca il rimembrare la vita trascorsa, soprattutto gli affetti, è sinonimo di dolcezza e commozione, come il Nostro ben rappresenta descrivendo la figura mesta di Francesco Pastonchi

‘Vorrei che tu portassi La mia fiaba sulla sua tomba (della nonna)” “La commozione gli arrivò negli occhi/che umidi di pianto si serrarono’.

Un perfetto gioco di intarsi intertestuali avvicina Leopardi a Saba e Bertolucci e alla poetessa Giuseppina Cosco. Su tutti aleggia la tristezza e in particolare dai Poeti meno frequentati sale la preghiera che almeno lui continui a leggere i loro versi.

Davvero bella e delicata l’accorata preghiera di Caproni-Pardini nel ricordo struggente della madre.

La poesia che consola, la poesia che completa vite monche, la poesia che ironizza sui lati grotteschi della vita, la poesia che reifica le illusioni di una vita, la poesia che ricorda, la poesia che crea nuove realtà emotive nel ricordo. Tutti sono impastati di queste inclinazioni, ma c’è bisogno del colpo d’ala, della parola che voli alta come volo d’aquila in un cielo terso e incontaminato.

E tale potenzialità non è negata certo a NAZARIO che sa creare spesso un’identificazione perfetta col poeta interlocutore o comprimario sicché si stenta a distinguere il prestito letterario dalla sua creatività, come nell’incontro con il Montale di Ossi di seppia.

A questo punto appare legittimo il desiderio di essere compreso tra i grandi della biblioteca perché anche su di lui non vinca Libitina.

‘mi piacerebbe tanto che i miei versi/trovassero del posto in biblioteca’…XXVI

Prima e dopo questo corpo centrale, quasi con una composizione ad anello, vibrano le poesie per i familiari, per la donna amata, per i ricordi del passato che poi non sono altro che evocazioni di vita vissuta con la suggestione di poterla rivivere. Non romantica nostalgia, ma recupero concreto, reale, di sensazioni, visioni, affetti, oggetti e persone vere e situazioni reali che hanno lasciato l’amaro della ferita o il balsamo della carezza nell’animo di Pardini. Emergono in queste liriche la dolcezza della casa dell’età giovanile, tutte le tessere del mosaico di una memoria che è intrisa di realtà, che non vuole recuperare la madelein di un evento, di un incontro, ma è la struttura portante di una vita. Tanto che, quando subentrano stanchezza e solitudine, è sempre la memoria la via salvifica. Inevitabilmente si fa la conta dei valori acquisiti, dignità innanzitutto, si rimpiangono le parole non dette, le cose non fatte e si soppesa la propria condizione attuale. E tanti eventi, tante figure passano davanti agli occhi come scene di un film, come le pagine ingiallite di un libro, che non sono destinate a scomparire, ma persistono ed è bello andare a rileggerle perché tutto è vero, reale, intriso di concretezza e verità. E di Amore: per il padre, per i fratelli, per i nipoti, e infine per quella che fu e rimase la sua donna, Delia, sempre agognata e mai raggiunta.

Sarebbe materia per un film, un racconto di ampio respiro, un romanzo verista: c’è la casa, l’orto, la collina; ci sono i bambini, i pianti, i ruzzoloni, la scuola, ma anche le gioie, gli affetti, l’amore e le prime passioni; l’amore per l’arte, i silenzi, le assenze, le presenze costanti dell’animo, nell’animo. E tutto è tenuto insieme da una grande capacità di donare amore, di viverlo e proiettarlo come luce su tutto, e di riassorbirne a sua volta la luce, perché essa ritorna sovente indietro, cosicché la solitudine cessa di essere tale se può colmarsi di tanti ricordi. Se poi si aggiunge il sogno, la capacità di perpetuare lo stato di grazia ingenerato dalla figura dell’amata, anche di questo motore vitale ci si avvantaggia, e la mente, sebbene s’inganni, gode della vicinanza di colei che ha fatto sognare il Nostro Poeta, sebbene le braccia rimangano conserte a stringere il nulla, come già fu per Enea e la sua Didone. Ma reale è la bellezza che sotto forma di profumo inebria l’innamorato che ancora attende simili visioni, quelle dei sogni giovanili, gli unici a non essere scalfiti dallo scempio che il tempo opera sui corpi.

Nella finzione letteraria conclusiva Nazario si ritira in silenzio nella biblioteca, soddisfatto di stare accanto al suo Catullo e condividere con lui gli slanci e le schegge di felicità di un’età trascorsa per sempre.

Adriana Pedicini

27/01/2021

 

PREMIO "CITTA' DI CHIETI" BANDO






martedì 26 gennaio 2021

IN RICORDO DI UNA GRANDE POETESSA: BRUNA CICALA.



BRUNA CICALA CI HA LASCIATI LO SCORSO QUATTRO SETTEMBRE

Spiccioli»

2. Tintinnio di Lapislazzuli

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© Copyright Fara Editore 2020

47923 Rimini – via Covignano 165-B

info@faraeditore.it – www.faraeditore.it

twitter.com/faraeditore

ISBN 978-88-9293-000-1

Copertina di Giacomo Ramberti

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Bruna Cicala

Tintinnio di Lapislazzuli

poesie

Prefazione di Claudia Piccinno

Introduzione di Mirco Manuguerra

FaraEditore

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Prefazione

Claudia Piccinno

 

Nel silenzioso dormiveglia

riverbera l’eco dei miei passi

sperduti, nell’isola che non c’è.


Hanno tutte le sfumature del blu i versi e i ricor­di di Bruna Cicala, con screziature color oro e toni rosso violacei come al tramonto.

Vi è l’azzurro del cielo e l’eco dell’onda, ma so­prattutto c’è la forza e la resilienza della donna:

Tu donna resti fulcro, retaggio di dolori.

Nel mare delle piaghe il sale non corrode

fino al levar del sole.

Di spargere sorrisi fanne tuo onore e vanto,

del tuo morire dentro, silenzioso canto.

Dei lapislazzuli hanno anche la robustezza e la variegata luce che occhieggia e induce ad esami­narsi: Oltre il vetro, senza inganno, / il pretesto di me stessa.

C’è in questa poetessa la consapevolezza dei li­miti terreni, ma anche l’aspirazione a raggiungere la propria Itaca, l’isola che non c’è, quel mondo mi­gliore a cui tutti aneliamo: Poi hai chiuso il cielo dentro gli occhi / a contemplare la tua destinazione.

Sono molteplici gli interrogativi che questo libro pone al lettore, dal potere della bellezza al valore del tempo, dal significato della memoria alla re­denzione, eppure l’autrice ha raggiunto quella con­sapevolezza, quella saggezza che si esplicita non in

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rassegnazione, ma nella certezza che non tutto ci è dato comprendere, perché esiste la variabile del fato, della contingenza e dell’ignoto.

Oggi, non c’è niente da capire,

il tempo è inesistente

quanto dici già e passato

come folgore sul noce

come sibilo del vento

tra le labbra solo un fischio.

Questa raccolta è precedente al grave incidente che ha subito la poetessa, eppure ha in nuce come una profezia, quella sua filosofia di vita che gli eventi hanno avvalorato. Bruna è donna resiliente e di certo si è aggrappata all’amore per gli altri e per sé stessa, quando ha scelto di lottare ancora.

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La vita in blu

Mirco Manuguerra

(Centro Lunigianese di Studi Danteschi)

Laggiù… / c’è un tocco d’ azzurro / nel cielo. / […] / Senza saperlo, so che ero felice.

Poeta o poetessa? Solo Bruna Cicala lo può de­cidere per sé, ma ora non posso chiederglielo (avrei dovuto farlo prima), perché queste poche righe – mi dicono – devono essere per lei una sorpresa. Allora me la caverò con raffinata eleganza trattan­done l’opera in termini di Artista. E ci metto una grande maiuscola.

Questa raccolta dal titolo delicatissimo, Tin­tinnio di Lapislazzuli, credo debba essere indicata come il “Periodo Blu” dell’Artista, se è vero che le tonalità del colore ricorrono espressamente al­meno sedici volte: dieci l’azzurro, tre il blu, due il lapislazzulo e una l’oltremare; ma va considerato che incontriamo pure per dodici volte il cielo e in trentuno occasioni il mare, per cui sono in tutto ben cinquantanove volte in settanta liriche che il colore blu, direttamente o meno, viene abilmente imposto dall’Artista alla mente del lettore.

Sovviene inevitabilmente il primo periodo di produzione di Pablo Picasso , con quel suo quadro di riferimento, La vita in blu, dove il confronto con tre grandi temi – la vita, l’amore e la morte – si specchiano l’uno nell’altro. Tutto ciò lo troviamo anche in quest’opera di Bruna Cicala, solo che per lei questo è il periodo della piena maturità.

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Non c’è più spazio ormai, alla nostra età, per un Periodo Rosa. La Poesia, l’Arte in generale, non sono cose da trattare a livello di “romanzo d’ap­pendice”. Bruna questo lo sa benissimo e Picasso è un grande bluff.

Molto significativamente la prima lirica della raccolta si intitola Illudendo il crepuscolo. Eccone l’incipit:

Non piove, ancora,

ma il diluvio indugia alle porte del sentire

se ne avverte il fragore dietro l’uscio

negli anfratti segreti del dolore artigliato […]

È certo un riferimento alla fase discendente della vita e qui sovviene la struggente intensità del Vincenzo Cardarelli di Autunno, la stagione di cui sempre avvertiamo il presagio “nelle piogge di set­tembre, torrenziali e piangenti”. Tuttavia ha mille volte ragione Claudia Piccinno quando afferma che con Bruna si ha a che fare con uno spirito tempra­to dalla vita, indomito, resiliente, dunque per nulla rassegnato né all’inesorabile passare del tempo, né ai colpi fetenti che talvolta tira la cieca malasorte.

Non a caso l’ultima lirica della silloge (Lettera) è addirittura una fantasia d’amore. Una fantasia che è un dono: quello della Poesia stessa. La Poesia, in­fatti, quando è vera Poesia, è un atto d’amore rivol­to all’umanità intera, più che a noi stessi o a qualcu­no in particolare. Non è forse vero che essere cultori della Lettera significa essere grandi letterati?

Indubbiamente Tintinnio di Lapislazzuli è ad oggi il capolavoro dell’Artista, ma andiamo con calma: è sempre troppo presto per tirare le somme.

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Tintinnio di Lapislazzuli

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Illudendo il crepuscolo

Non piove, ancora,

ma il diluvio indugia alle porte del sentire

se ne avverte il fragore dietro l’uscio

negli anfratti segreti del dolore artigliato,

nel rincorrere l’ultimo sprazzo di sole

a piedi scalzi in un campo di ortiche dissimulate

                     [da viole.

Un attimo, ancora,

il cielo trattiene l’azzurro spalancato sulla notte

illudendo il crepuscolo d’indaco e cremisi.

Su nuvole rosse indugia il mio pensiero,

ancora immobile, rif iutando i segni,

aggrappato al sogno evanescente in fondo al

[tunnel.

Poi, sarà temporale. Liberazione, forse.

           [Finalmente.

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Anima

Sparpaglia la notte

quei quattro fogli bagnati d’inutilità,

distratta e nuda nell’essenza,

dissacrata dall’assenza.

Nel crocevia delle disattese

striscia e s’appiglia l’edera,

illusione di tossica beltà

nell’umidore d’ombra vive

disdegnando il sole

e nell’aridità del giorno muore.

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Bruciature

Svuotato il cassetto delle possibilità,

non resta che l’attesa.

Nell’ombra contro la parete

cerco archetipi dismessi tra f igure azzurrate

scagliate a caso, casualmente reali.

Brucia lo schiocco tra le dita,

a destra il fuoco che divampa

a sinistra un suono sordo e lacerato

mentre il silenzio urla tutto intorno.

Spargerò miele senza lesinare,

idraterò il presente, conf idando nel domani.

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Azzurro polvere

Rimesse dismesse

semi abbandonate sulla riva

han perso già i colori

nell’umido che impera,

pieno di salmastro e di alghe morte.

L’azzurro sembra polvere

che sgretola i ricordi

al soff io maestrale di un mare irrigidito.

Ma quando l’onda assale,

tra i ritmi di tempesta

ritornano le voci a sussurrar l’estate,

quella che è già passata e quella che verrà.

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Zodiaco

Se l’inf inito conta

sei quel breve attimo che lo def inisce,

quel pensiero vagante sullo spiazzo all’orizzonte,

quella frase incisa nella mente

nel brivido di premonizione.

Se l’inf inito conta,

nelle stelle sperse del mattino

riascolterò la voce tra gli ulivi

affacciati sul mare del destino,

inginocchiati a lambire la mia terra.

Se l’infinito conta

non conta più nessuna attesa,

sancisce attimi scolpiti di scoperta

avvolti dagli sguardi e i miei silenzi.

Risorgerà l’aurora del presente.

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Anticipazioni

Il tempo parla, il tempo racconta, il tempo

                         [sancisce.

Se dai tempo al tempo tutto si svela.

Nessuno può fermare il tempo della verità svelata.

Rosse trincee dell’anima

traccia la luna infame

su prosciugate stille

dal vento dei sospiri.

Ritrovare sé stessi nell’abbraccio del mare.

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Soffi

Alita il vento di storie antiche

suffragate dal presente imprevisto,

donate come un frutto maturo

di stagione sbadata e dimentica.

Alita il vento sugli occhi socchiusi

a rimembrare le storie di mare,

sui grappoli dolci lasciati appassire

per stupire il palato più ardente.

Alita il vento e ricolma le voglie,

scatena tempeste piene di flutti,

vibrati tra dita infuocate

e urla rombanti di tuoni

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