venerdì 30 luglio 2021

SONIA GIOVANNETTI LEGGE: "BORGHES - VOCI" DI STEFANO BALDINU

SONIA GIOVANNETTI LEGGE: "Boghes - Voci" DI STEFANO BALDINU (Puntoacapo, 2021) 












Sonia Giovannetti,
collaboratrice di Lèucade

Al cospetto della complessa opera poetica di Stefano Baldinu (“Boghes”:“Voci”), confesso di provare un senso di inadeguatezza, sapendo  ancora troppo poco – mio malgrado – della terra sarda per poter giudicare quanto dell’anima di questa terra il poeta abbia saputo trasfondere nei 39 componimenti di questa sua fatica. Ma se dovessi acquisirne una più approfondita cognizione basandomi sulle tante “voci” della raccolta, devo ammettere che il fascino per questa “terra di confine” superebbe di gran lunga quello, peraltro già ragguardevole, provato in passato nella mia veste di assidua visitatrice “continentale” di questa nostra suggestiva quanto enigmatica sentinella tirrenica. Una fascinazione, la mia, che nasce del tutto immediata e spontanea già dalla prima immersione nei versi di Baldinu, in primo luogo per una lingua che, sebbene a me sconosciuta e pressoché inaccessibile, mi ha trasmesso subito il senso di una spiccata musicalità, connotato essenziale e distintivo della poesia, che è innanzitutto suono, incontro armonioso di significanti deputati a produrre senso. Una musicalità che, quasi miracolosamente, mi è parsa sopravvivere intatta alla traduzione – minaccia, questa, sempre incombente sulla qualità verginale di un’opera letteraria – e che asseconda una struttura della silloge imitativa di una composizione di musica classica. Ma il vero “miracolo” di queste poesie, viene da pensare con più laica disposizione, sta nella meticolosa ricerca filologica compiuta da Baldinu per dare evidenza e rendere omaggio a tutte le declinazioni della famiglia linguistica sarda, convocate a comporre una polifonia suggestiva, rivelatrice delle diverse stratificazioni dell’anima isolana. Una ricerca linguistica che, propedeutica alla stesura, deve presumersi impegnativa e complessa, stando alle “note tecniche” divulgate dallo stesso autore, e che solo uno sconfinato amore per la propria terra di origine può avere ispirato e guidato con tanta acribia. Una traccia della polifonia originaria dell’opera resta nelle indicazioni a piè pagina di ogni poesia tradotta, relative alle singole varianti linguistiche utilizzate per ciascuna di esse. Ad impreziosire ulteriormente l’eterogenea coralità della silloge, concorrono le voci plurali di poeti sardi che accompagnano in esergo ogni poesia, quasi a voler testimoniare ancora più incisivamente l’intima appartenenza dell’autore alle proprie radici culturali.

Le poesie hanno varia matrice e diversi motivi ispiratori: vi trovano spazio, accomunati da una potente impronta lirica e sovente malinconica, affetti familiari, ricordi, turbamenti sentimentali, meditazioni sofferte e compassionevoli sugli “ultimi”, i dimenticati e gli oppressi del mondo, contemplazioni pacate sui temi della vita e della morte dal sapore filosofico. C’è in esse il mondo, un mondo privato ma anche sociale, il nostro mondo, sul quale ad ognuno di noi capita ogni giorno di riflettere: con nostalgia affettuosa, talvolta con gioia, altre volte con riprovazione per ciò che è ingiusto, spesso con dolore. E, in tutte, è la sensibilità estrema di questo poeta a risaltare come sua dote prevalente, a guidarne la penna in un fare talvolta assorto e meditabondo, come in “Deserto”: “L’uomo è fatto di/ polvere e sabbia/ seguendo carovane/ di vento va incontro/ ad altri uomini”;   in altri casi mirabilmente asciutto: “Spargo gemme di sera/ nel giorno che muore/ come un usignolo/ che volta, si ferma e canta/ lunghe pagine di silenzi” ( “Come un usignolo”).

Vive poi, nella maggior parte delle composizioni, un turbinio di immagini, prelevate dal mondo della natura - “Descrivere il cielo/ a tratti sottili/ nel buio profondo/ con la vitalità di un fiume/ e ricordarsi di una vita/ nel viso che dorme/ trafitto dall’alba” (“Una vita”), o da artefatti di uso quotidiano, che fanno da contrappunto ai diversi stati d’animo del poeta: ai suoi abbandoni contemplativi, al senso di solitudine, alla tristezza, agli slanci affettivi. Tanto che il lessico di “Voci” risulta popolato da una moltitudine di metafore attinte da quei serbatoi simbolici; metafore alle quali il poeta ricorre con generosità e larghezza espressiva, al punto da caratterizzarne in modo inconfondibile lo stile, e a cui egli sembra a volte concedersi con palpabile compiacimento, arrivando a disegnare labirinti caleidoscopici che, costruiti per dipingere uno stato d’animo, sembrano chiamati piuttosto a stemperare il dolore, ad attenuare lo sconforto – “…Eppure qualcuno avrà udito la pronuncia di una lacrima/ dal ciglio sospeso delle palpebre trasformare/ il silenzio delle arnie di luci in frantumi di vetro,/ venare l’equilibrio di una sillaba lasciata arrugginire/per timidezza in una pagina del tuo vocabolario” ( “In questa attesa di vento”).   Ma la malinconia di fondo, di sapore leopardiano, che pervade l’intera raccolta – quante volte il pensiero di Baldinu si sofferma sull’infinito! – si converte sovente in speranza. La morte stessa, presenza frequente nei versi, piuttosto che generare cupa disperazione, è trattata con pacatezza dolente, anche quando si aggira nella cerchia familiare del poeta. Essa sembra anzi diventare una chiave efficace a penetrare il mistero della vita. La morte, sembra dire il poeta con afflato filosofico, non è mai “nulla”; c’è sempre un “polline” a farle compagnia, e c’è sempre una “pioggia” – altro simbolo vitale – a collegarla alla vita, come nel ciclo della natura, che si perpetua eterno e immutabile. “Sta tutta in questa notte, dove Dio si è fatto malva/ all’angolo delle labbra di un silenzio di pioggia/ pronto a dissolversi, la tua mano che traccia sull’epidermide/ di ogni goccia e sulla mia fronte una carezza di luce” (“Gaetana, ricordo di una sorella”).

In molte delle poesie, infine, è protagonista il silenzio, che, insieme all’assenza – altro soggetto ricorrente – sembrano potenti catalizzatori di significato, non solo però come meri espedienti espressivi, alla maniera del simbolismo o dell’ermetismo, ma come entità depositarie di verità metafisiche, veri e propri fattori di conoscenza del mistero della vita, emblemi dell’insondabilità di un infinito in cui cerca il proprio riscatto la finitezza delle cose.

Non stento a ipotizzare che tante immagini del paesaggio sardo, per il ricordo ancora vivo che ne conservo, abbiano fatto da culla naturale al germogliare di siffatte visioni e suggestioni poetiche. Mi piace allora concludere che, se la Sardegna somiglia davvero alle “voci” di Baldinu, dopo avere assaporato la loro malia non potrò fare a meno di tornare a incontrarla!

Sonia Giovannetti

domenica 25 luglio 2021

MARIA RIZZI LEGGE: "TUTTA LA VITA DA VIVERE" DI FRANCESCO TANZI

Maria Rizzi su “Tutta la vita da vivere” di Francesco Paolo Tanzj – Graus Edizioni

Maria Rizzi,
collaboratrice di Lèucade

Il romanzo dell’amico Francesco Paolo Tanzj “Tutta la vita da vivere”, edito da Graus Edizioni, rappresenta l’ennesima prova di forza e coraggio narrativo di questo artista polisemico, che tende a rompere gli schemi e a spingersi al di là dei luoghi comuni, intingendo i sentimenti nell’inchiostro e nel filo spinato. Si tratta di un testo molto ben strutturato che affronta tematiche apparentemente inflazionate come l’amore, l’amicizia e la vita stessa da angolazioni profonde e inedite. Il protagonista, Sandèr Grieco, giunto all’età del bilancio si ritrova a girare in tondo, come un criceto nella ruota. La sua storia è imbevuta delle atmosfere degli anni ’60, dello spirito della ‘beat generation’, termine coniato per la prima volta da Jack Kerouac nel 1948. La loro concezione del mondo si basava sul concetto dell’istantaneo presente, inesplicabile nemico, che neanche la dimensione dello spazio e del tempo poteva far superare. Gli elementi per vincerlo erano fisiologici, mistici, passionali o artificiali, come le droghe. Il nostro protagonista li ha vissuti e la sua intensità emotiva li rispecchia tutti. Crede nell’amicizia come valore assoluto e come bisogno. “Senza amici nessuno sceglierebbe di vivere anche se avesse tutti gli altri beni”: la citazione aristotelica sembra l’habitus del nostro Sandèr, e quando l’Autore asserisce che l’uomo si ritrova a pensare all’opera “Il lupo della steppa” di Hermann Hesse, si ha la sensazione che lo sdoppiamento di personalità e la consapevolezza di un altro sé sia prerogativa di pochi. Il romanzo affascina proprio perché diventa ‘solo per pazzi’, un teatro magico con tutti i suoi simboli e la sua straordinarietà, che apre le porte al sogno, confuso, a tratti, con la fantasia. Esiste una chiave per penetrare nel nostro io abbattendo il lupo solitario che tende troppo spesso a insidiarsi nella mente e il protagonista spera di riuscirci ‘uscendo da quella porta, non entrando’, come aveva fatto in passato. Purtroppo il territorio della memoria tende a risucchiare e a impedire di sentirsi liberi e soddisfatti. Tanzj a questo proposito scrive:“il fatto è che non è per niente facile questa storia dell’hic et nunc, e noi ci ritroviamo senza volerlo a rinvangare il passato come bambini viziati in cerca di un perché, di un come, di un quando”. La moglie, gli amici, che avevano rappresentato la linfa vitale, oggi sembrano lontani, diversi, inseriti nella dimensione della doppia esistenza che lo stesso Sandèr sperimenta a fatica. Sono uomini e donne con lavori stabili, storie comuni e portano solo nei cuori le vicende condivise. Le uniche eccezioni sono Giampiero e Viola, per motivi molto diversi e l’uomo è attratto dai rapporti non risolti sviluppati con entrambi. Il primo non sta al passo della vita, resta anarchico, idealista, arrabbiato con il mondo; la seconda continua a identificarsi nell’ideale di donna che va oltre il sesso, che sembra irraggiungibile come la luna. Sandèr li insegue e mentre corre si accorge di averli sublimati, sono simili agli altri, anzi più prigionieri del vuoto cosmico che li risucchia tutti. Tanzj analizza con maestria la differenza tra l’amicizia tra le donne e quella tra gli uomini. Nella prima esiste lo scavo interiore, la tendenza ad andare oltre. Avvengono scambi ormonali simbiotici anche nel corso di poche ore. Gli uomini sanno trascorrere serate straordinarie, soprattutto se si trovano in una trattoria o in compagnia di donne avvenenti, ma di fronte a problemi esistenziali, come la morte di un amico, disperdono le anime, non tendono a unirsi. La solitudine di Sandèr, separato da Irma e dai figli quasi senza un perché, dopo anni di amore, condivisione, amicizia, è espressa in modo commovente nell’immagine dell’uomo davanti allo schermo del computer che invia raffiche di e-mail agli amici, sperando di ricevere “un messaggio inaspettato, un invito a un incontro o a una manifestazione, la e-mail di qualche amico lontano che si rifaceva vivo dopo anni per riagganciare un rapporto”. La città stratificata sprofonda su se stessa e l’uomo moderno soffre di una solitudine nella quale affonda come nel liquido amniotico. Il riferimenti all’utero si ripete nel romanzo e credo si tratti di un simbolismo che racchiude vari significati: ‘regresso ad uterum’, ovvero discesa agli inferi per giungere a una nuova nascita; abisso dal quale emergono pericoli e imprevisti e ancora sepolcro, morte, inconscio primordiale rappresentazione del mondo. La caverna, infatti, racchiude in sé cielo e terra e rappresenta un riparo naturale: dal grembo si nasce e al grembo si torna. Il protagonista dell’Opera è in fuga dalla società ebbra di consumi, dal nuovo se stesso omologato,  avverte il bisogno di quella che definisce ‘benedetta tenerezza’ e, talvolta, colma lo stato di anestesia emotiva che lo assale e lo spaventa, con il sesso, più spesso con i viaggi, gli incontri… accorgendosi che cercando di riempire il buco interiore lo svuota ulteriormente. Sandèr, divenuto schiavo, come tutti, di un ‘dover essere’, si sente vittima di se stesso, delle sensazioni interne che non sa decifrare. Gli affetti sembrano diventati anche loro beni di consumo, surrogati alieni di ciò che è davvero profondità, coinvolgimento, impegno, empatia. Giampiero, nella veste di alter ego, di uomo fedele a una sola anima, è legato alla concezione di Friedrich Nietzsche dell’eterno ritorno’, ovvero dell’esistenza vista come potenziamento, auto creazione, che va al dà di ogni piano prestabilito. Il tempo scorre sul bordo della circonferenza, tutto può ripetersi dentro la vita. Una teoria estrema, che perde sostanza alla luce dei comportamenti dell’amico. Tanzj, in questo romanzo dalle superbe vergate letterarie, scivola con arte sul piano delle speculazioni filosofiche. Non ne diventa schiavo, anzi sa renderle funzionali alla narrazione, allo stile forte, energico, sanguigno. Nel raccontare le scelte di Sandèr, della moglie, dei numerosi amici, dosa il realismo con un sano esistenzialismo. Si distende nella descrizione delle persone e dei luoghi che il protagonista visita nelle fretta di inseguire il nuovo senso da dare ai suoi giorni, rendendo i lettori protagonisti della vicenda. Il carattere filmico del libro è innegabile. Si coglie sin dalle prime pagine la nostalgia interiore del protagonista verso una vita che sembrava ricca di significato solo a vent’anni e che è trascorsa in anonimato e in assenza di autentici valori. Sandèr non rappresenta l’eccezione, siamo tutti affetti dal suo mal di vivere, dalla doppia anima che ci spingerebbe a ‘uscire dalla porta del quotidiano’, ma trovare il punto di equilibrio è l’espediente che consente di resistere e di dare scopi a questo tempo senza tempo che ci è concesso in dono. L’anima del protagonista è inquieta, mi ha indotto a pensare alla lirica “Gabbiani” di Vincenzo Cardarelli: “Non so dove i gabbiani abbiano il nido / ove trovino pace. / Io son come loro / in perpetuo volo. / la vita la sfioro / com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo. / E come forse anch’essi amo la quiete, / ma il mio destino è vivere / balenando in burrasca”. Sa trovare un apparente elemento salvifico nella fuga. Il romanzo ha un finale a sorpresa che è il colpo di coda di un innegabile talento.

                                                        

Maria Rizzi

 

 

 

 

 

 

sabato 24 luglio 2021

SERENELLA MENICHETTI: "ATTIMI"

Serenella Menichetti,
collaboratrice di Lèucade







ATTIMI

 

Forse gli attimi sono sfoglie di luna.

O piccole bacche rosse

che dall’immenso albero dell’universo

senza posa, si staccano.

Ci cadono sul corpo

minuscoli smisurati doni

che nell'anima accadono.

Passi sincronici ai battiti del cuore.

 

Impercettibili profumati petali

che fanno sbocciare la rosa.

Sillabe che modellano parole

a sommare pagine

al grande libro della storia.

 

Particelle di tempo

che ci conducono

nello straordinario percorso

della vita.

 

Attimi, solo attimi

che sfiorano la terra

per perdersi poi

nel sonno eterno.

 

Dove tutto è immoto ?


Serenella Menichetti

 

FLORIANO ROMBOLI: "IL TRENO E IL PIOPPO" DI GIUSEPPE BERTON

 

     Il  doloroso eppur  seducente  enigma della  vita  ne  Il treno e  il pioppo  di  Giuseppe Bertòn

 

Sono d’accordo con il prefatore Enzo Concardi nel rilevare, nell’àmbito della strategia ordinativa e compositiva che governa la raccolta poetica di Giuseppe Bertòn, l’essenzialità di un testo come Il treno e il pioppo, e non soltanto perché  dà il titolo all’intera silloge, della quale Luisa Randon offre la traduzione inglese. Gli è che tale lirica, per ammissione stessa dell’autore, definisce l’angolatura visuale della ricerca artistica, precisa il nucleo genetico dei significati fondamentali del discorso letterario: l’esperienza della vita è scandita e dominata dal tempo, inarrestabile nel suo continuo trascorrere e di cui il treno costituisce la raffigurazione emblematica (“Lui passava, sulla sera/colorata di magia./Sulla notte colorata di mistero./Correva verso la montagna,/ancora troppo lontana”, ivi, vv. 1-5); a fronte sono la sensibilità inquieta dello scrittore, la sua coscienza critico-problematica tesa a coglierne il senso non transeunte, i valori fondamentali, perché radicata come il pioppo nelle zone profonde dell’interiorità intellettuale e morale: “Lui stava così, alto, con le sue foglie/un po’ colorate d’oro, un po’ stanche./Così poteva guardare lontano” (ibidem, vv. 7-9).

Si tratta di un duplice movimento dell’immaginazione e della riflessione, di una sollecitazione orizzontale (“E ci porta via, così veloce”, Il giardino abbandonato, v.8 ) e di una verticale (“Ho visto la tua anima,/e l’ho sentita,/e si muoveva ed il mondo/non poteva placarla”, Vincent, vv. 9-12), il cui vivace rapporto dialettico non sembra conseguire risultati di verità positiva e appagante, di spiegazione esauriente del mistero   dell’esistenza, dei tanti enigmi che l’accompagnano e segnatamente la caratterizzano, originandone l’intrinseco ritmo triste, le frequenti situazioni antitetiche: “Sul tavolo da gioco/dove sei seduto, nella notte./Tu non sai quale mano ti tocca./Sul tavolo da gioco/con la luce soffusa, nella notte./Tu non sai chi ha fatto le carte”, Sul tavolo da gioco  (vv.4-9);  “Mille fili d’erba,/tutti insieme,/sotto una pioggia leggera./Mille anime,/tutte vicine,/sotto una sofferenza leggera./Mentre il treno passa veloce,/ sui fili d’erba, sulle nostre anime,/sui nostri sogni”, Fili d’erba (vv.13-21, cors. mio, come dopo);   “Questa sera il mare è meraviglioso e terribile/e scende l’oscurità, su noi, su tutto,/ad abbracciare il nostro dolore./Mentre siamo sospesi,/sull’abisso di noi stessi./Così irreale e così vero”, Il faro ( vv. 4-9).

Il ciclo vitale si svolge nel tempo, attrae la fantasia del poeta altresì per le uniformità, che lo contraddistinguono, nell’inesorabile susseguirsi di momenti pessimisticamente rappresentati, dall’antica Grecia ai giorni nostri, nella loro dolente analogia, nondimeno animata dalla sempre risorgente aspirazione alla gioia, alla bellezza, all’amore:  “Meraviglia dell’Ellade,/respiro d’Oriente/tormento dell’Anima./Forse tessevi la tela,/incantevole ragazza, mentre il sole/si spandeva sul mare, e su te (…) Un dolore antico, quasi nascosto,/nelle radici della vita, nei tuoi occhi profondi,/attraversa ancora il nostro sguardo (…) Mille anni dopo,/ho sentito un poeta dire le tue parole,/leggiadre e incantevoli”, Mille anni ( vv. 7-12, 25-27 e 43-45);  “Apollo, bellezza di forme,/parla parole soavi,/abbellisce la terra della Grecia/e gli occhi del mondo./Apollo sente il vento della musica./e vola, sul canto di Dioniso, per le vie della Grecia./E senza volerlo, tocca le nostre mani./Nella nostra anima, senza volerlo,/l’eterna sofferenza, è diventa, la nostra sofferenza./E’ diventata tragedia,/che giustifica la vita,/che giustifica i tuoi baci”, La notte (vv.10-21).

In una disposizione mentale siffatta, nell’attenzione commossa alla ripetitività propria della condizione umana è la radice della propensione - ricorrente nel libro - agli stilemi iterativi, alla formalizzazione dei contenuti attraverso le sequenze anaforiche, la tecnica della ripresa sintagmatica:  “In fondo alla strada/In fondo alla sera/In fondo a quando ti penso sempre/In fondo ai tuoi pensieri…”, In un sospiro  (vv.1-4);   “Non ho avuto coraggio,/nella stazione del treno,/di voltare lo sguardo,/a guardarlo./Non ho avuto coraggio,/nella stazione del treno,/di voltare lo sguardo,/A GUARDARMI”, Homeless (vv.9-16).

Anche il richiamo esplicito e studiato a Giacomo Leopardi, “poeta immenso”, nel suggestivo  componimento intitolato Alla luna, si rivela la conferma meditata di un determinato orientamento etico- ideale: “Il poeta immenso,/ha cantato di te,/perché sollevassi la sua pena,/perché gli sorridessi./Ma lui ancora va con le sue greggi/per valli scoscese e campi e sassi/con lo stesso dolore negli occhi./Così le nostre anime ancora vanno/per vie incerte e tormentate,/con dentro ferite che non passano” (vv.33-42).

Giuseppe Bertòn, Il treno e il pioppo, Guido Miano Editore, Milano, 2020, pp. 99                                                                                                                                                                                                                                 Floriano  Romboli

 

 

                                                       .     .     .     .     .     .     .     .     .     .

 

 

 

venerdì 23 luglio 2021

GUIDO MIANO EDITORE PUBBLICA: "IL LIBRO DELLA VITA" DI FABIO RECCHIA



GUIDO MIANO EDITORE


NOVITÀ EDITORIALE 

È uscito il libro di poesie e dipinti:

IL LIBRO DELLA VITA di FABIO RECCHIA

con prefazione di Nazario Pardini

  

Pubblicato il libro di poesie e dipinti “Il libro della vita” di Fabio Recchia, con prefazione di Nazario Pardini, nella prestigiosa collana “Parallelismo delle Arti”, Guido Miano Editore, Milano 2021.

 

«Le parole / rischiarano il mattino / come raggi di sole. / Perforano le nubi buie, / s’infrangono silenziose / sul foglio del cuore, / colorando le pagine del libro della vita» (Le parole). È partendo da questa poesia incipitaria che si può andare da subito nella plurale espansione versatile ed eclettica di Fabio Recchia. La parola, il sintagma, il fonema, il logos, il pathos, tutti elementi che concorrono con empatia a reificare il suo istinto propositivo. Siamo di fronte ad un artista prolifico che fa della parola il congegno preminente per rappesentare il suo ribollimento interiore; la sua intensa voce estetica. È sufficiente ammirare i quadri, la intensa esposizione per leggere il suo animo, la sua grande padronanza del colore, della natura che sembra andare di pari passo con lui nel concretizzare e dare voce al crogiolo emotivo che dentro lo stimola. Due anime che a braccetto si intescambiano suoni e immagini. L’artista si lascia possedere da tutto ciò che Pan detta, dai suoi concreti artifici, dal suo miracoloso effluvio visivo. Insieme percorrono valli e monti, mari e campi, immagini e fiumi. Dopo il viaggio compiuto con l’amico, il poeta torna alla sua vita e riversa sulla tela tutti ciò che gli è rimasto del viaggio. Non di certo la concretezza, la realtà scussa, ma l’immagine di essa, ciò che in lui ha covato dopo un riposo di qualche tempo. E si sa che il ricordo è di gran lunga più efficace a livello artistico, dacché i dati concreti non sono più gli stessi, hanno subito una traformazione, si sono attorniati di un sentimento loquace e fattivo, per cui i risultati sono opere d’arte rare per concretezza emotiva, per realtà figurativa: «Raccolgo nel mio album dei ricordi, / come figurine da collezione, / i momenti più belli del giorno, / le parole, / gli sguardi, / per non dimenticare, / sfogliare così nel tempo / la vita così fuggevole» (Figurine da collezione).

La parola del poeta non è altro che il pennello del pittore: vita e arte, arte e vita. Un binomio che scalda l’animo e lo emoziona a contatto della sua produzione, dei suoi colori, della sua tecnica artistica: Fiori boreali, Barche al tramonto, Galattica, Farfalle, I raggi, Tramonto, Fiori, Lago di Levico, fino a Alba nordica. Tutto uno sfavillio di luci, di raggi, che ti prendono e non ti mollano; che ti catturano con la loro visività. Si fa musica di Chopin il suo disegno, è lì che il suo pathos si depone e vibra come un coro muto di Puccini; ascoltare le sue parole equivale ad ammirare i suoi quadri, dove tutto è sinfonia, tutto è armonia, gentilezza, finezza, di un artista che ama la vita tradotta in poesia. Scrive il poeta, trascinato da un’enfasi liberatoria, è l’ora delle parole:

«Si avvicina silenziosa / la notte, / è l’ora delle parole, / che rimangono per sempre, / per noi, / e la penna virtuale / scrive». (È l’ora delle parole) Un sussulto emotivo che lo cattura all’improvviso facendogli provare l’immediatezza dell’ispirazione e come in trans affida tutto se stesso al verbo, che con immediatezza delinea quello che dentro detta. È così che nascono i suoi quadri, le sue poesie che non sono altro che i ritratti del suo pathos.

«Il gabbiano / dispiega le ali / come vele sul mare, / si libra sul respiro del vento, / immobile e attento, / poi sale, / per cadere come fulmine nel mare, / più veloce dei pensieri / che volano in me» (Il gabbiano). I gabbiani si fanno pensieri che volano oltre i confini, là dove il poeta vorrebbe volare per sottrarsi alle aporie del quotidiano; in lui il desiderio d’infinito si fa leit motiv di tutta l’opera, un’aspirazione al volo, alla fuga verso un’isola che appaghi tutto il suo esistere. E la parola diventa attore primo con la sua energia attiva, con il suo paradigmatico senso che va oltre la parola stessa, dacché la poesia vuole qualcosa di più del semplice fatto. Questo è Fabio Recchia, il suo percorso artistico, la sua vita tradotta in arte; questo il risultato che rappresenta il suo mondo, la sua voglia di dire e di scrivere; sta nei suoi dipinti la concretezza del suo sentire, la filosofia del suo pensiero, l’amore per l’arte che per lui è vita.

Nazario Pardini

 

 

 

L’AUTORE

Fabio Recchia è nato nel 1953 a Levico Terme (TN) dove attualmente vive. Poeta e pittore ha pubblicato diverse raccolte di liriche, alcune delle quali illustrate con sue riproduzioni d’arte: Riflessione, con trad. in tedesco di Christine Haidegger (2009), Sogno (2010), … e venne Natale (2012), Inno alla natura (2014), La carezza (2015), Ecce Homo (2015), Virgole d’inchiostro (2015), In principio era il Verbo (2016), Le attese (2016), Giochi di luce (2017), Il cassetto dei ricordi (2017), I colori delle parole (2017), Un amore infinito (2018), Weiss und Blau, con trad. in tedesco di Christine Haidegger (2018), In hoc signo (2018), Viaggio di un poeta in cerca di un lettore (2018). Si dedica alla pittura con varie tecniche: acquarello, acrilico, mosaico, vernice spray e tecniche miste; ha all’attivo molte mostre personali e collettive in Italia e Germania. La sua attività letteraria è trattata nei seguenti repertori letterari: Dizionario Autori Italiani Contemporanei, quinta edizione, G. Miano Editore, Milano 2017; Storia della Letteratura Italiana, quarto volume, terza edizione, ivi 2020.


Fabio Recchia, Il libro della vita, pref. di Nazario Pardini, Guido Miano Editore, Milano 2021, pp. 80, isbn 978-88-31497-65-7, mianoposta@gmail.com.

ILLUSTRAZIONI  DAL TESTO

 




 

 

 

giovedì 22 luglio 2021

CLAUDIO FIORENTINI: "VACCINARSI CONTRO IL GIUDIZIO AFFRETTATO"

 Vaccinarsi contro il giudizio affrettato

Claudio Fiorentini,
collaboratore di Lèucade

L’uomo contemporaneo è stato condizionato moltissimo dalla TV: stando seduto ha vissuto emozioni, pensato, approfondito, viaggiato, tifato e… ha assorbito passivamente uno schema spaventoso proposto da quelle serie e quei film dove buoni e cattivi si confrontano, dove si ama e si odia, dove si spara e si insegue, dove si indaga e si mettono bombe. In altre parole, stando comodamente seduto ha subito un bombardamento di violenza e pubblicità senza che potesse ricorrere a meccanismi di difesa. È vero che con la TV, finita la strage, ci si rialza dalla poltrona, si guarda l’ora e si va a letto, ma è anche vero che quelle immagini, inevitabilmente, continuano a lavorare nella mente.

Ma se con la TV la sola interazione possibile è l’interruttore, l’uso di tablet, PC e smartphone, invece, ha introdotto una nuova variante, che consente interazioni di base e, a volte, anche di qualità. Purtroppo, però, l’uso generalizzato di questi strumenti, è diventato l’apoteosi della vigliaccheria in quanto consente di “dire la tua” senza contraddittorio. Insomma, questi strumenti che portano la tua voce in rete hanno la grande virtù di trasformarti in “protagonista” della “serie” o del “film” che stai vivendo, di illuderti che con un banale “mi piace” o con un post, con una foto o con un commento sulle reti (a)sociali, sei parte di una dinamica di pensiero, quando in realtà non fanno altro che trasformare la vita in videogioco, e tu la vivi dietro un display. E lo fai anche se sei in autobus o in una sala d’attesa, con i tempi ristretti che non ti consentono di fare eventuali verifiche. L’importante è dire la tua. Solo che in gioco rientrano molti fattori come il tempo, la vita stessa e le relazioni umane per le quali si delega una rete che, messi in moto i suoi algoritmi, ti mette in contatto con quelli che la pensano come te e ti consente di dare dello scemo, insultare o addirittura “bannare” (atto di violenza estrema e manifestazione di coraggio) quelli che non la pensano come te. Tutto virtuale, comunque.

Questo ha effetti deleteri anche sulla memoria perché si dimenticano le notizie, il percorso storico e l’evoluzione degli eventi che ci hanno portato dove siamo oggi.

È paradossale: la rete contiene tutto, ma proprio tutto, la rete è la memoria dei fatti, ed ha la grandissima virtù di rendere accessibile l’informazione che contiene, ma l’utente della rete dimentica e, pur avendo a disposizione la memoria, non si cura di cercare risposte. La memoria dei fatti è inutilizzata, importa solo il “click” di quel momento di protagonismo, per cui la memoria dell’utente diventa come quella dello scoiattolo che non ricorda dove ha nascosto le ghiande.

Qui entra in gioco l’individuo (utente della rete, giornalista o altro): prima di prendere per buona una notizia dovrebbe cercare informazioni sul tema. È difficile, anzi, utopico, ma è così. Inoltre, dato che il lettore ha la tendenza a isolare una frase da un discorso per poi riportarla spacciandola per verità assoluta, si dovrebbe ricordare sempre che questo comportamento comporta una grande responsabilità: qualsiasi intervento nella rete può diventare bacillo di disinformazione e riportare una citazione, senza curarsi del discorso o del contesto in cui è immersa, può diventare un atto di manipolazione dell’informazione.

Intendiamoci, citare i grandi della storia non è errato, del resto i grandi hanno il dono della sintesi, ma non va bene leggere un articolo su un giornale ed estrapolare una frase dal discorso per poi scudarsi dietro quella frase, prendendola per verità assoluta, quando magari nello stesso discorso si articola un pensiero assai più complesso.  

Oggi sarebbe opportuno, per come si tende ad assorbire le informazioni, vedere la rete come un potenziale generatore di confusione che, approfittando dell’ignoranza e della pigrizia che ci impediscono di approfondire titoli, citazioni o notizie, non fa bene alla comunità. Già, perché ragionare per citazioni oggi è diventato una patologia, direi che ormai è endemica, che si manifesta nelle reti (a)sociali, e che porta a dire a chi pubblica e condivide quella citazione “questa è la verità, il resto sono fesserie”. Per questo credo che le reti (a)sociali andrebbero frequentate solo dopo aver fatto un vaccino contro il giudizio affrettato.

Questo vaccino forse è l’educazione, o forse lo studio, ma sembra che sia stato perforato da una variante assai aggressiva, quella che oggi ci fa dire “adesso te lo spiego io perché tu non hai capito una mazza” o anche “noi siamo bravi, loro non capiscono” invece di dire “sentiamo cosa hai da dire e discutiamo”.

 

Claudio Fiorentini

 

SERENELLA MENICHETTI: "IL CERCATORE DI MEMORIE"




SERENELLA MENICHETTI. IL CERCATIORE DI                              MEMORIE.CTL. Livorno. 2021

 

Veramente bella in esergo la dedica che arricchisce il libro: “Sai, la memoria è una laguna, dove i ricordi sono organismi vivi e coralli preziosi da evocare: quando ti senti solo”. M. S.

 

Serenella Menichetti si affaccia alla scena letteraria con un romanzo di grande generosità creativa, dove mette in evidenza le sue doti di versatilità. Dopo avere insegnato per 35 anni alla scuola dell’infanzia, Serenella, si è data completamente all’arte scritturale aiutata dalla sua inventiva e dalla sua fantasia di fattivo rendimento. Ha all’attivo diverse raccolte poetiche, due libri per l’infanzia e un libro di racconti. Molti i premi conseguiti e attiva la sua collaborazione al blog Alla volta di Lèucade. Un libro, questo, dato alle stampe per i caratteri di Libeccio Edizioni, ben fatto, per copertina quarta, composizione, caratteri, e stile che fanno da cornice ad un contenuto ricco di avvenimenti dove pathos e logos si affratellano dando per  risultato il mare magnum della creatività della Nostra; non improprio ricorrere ad una pericope di quarta: “In seguito a un  incidente stradale, il giovane Lorenzio Viviani entra in coma e vive una esperienza straordinaria incontrando il suo doppio eterico, ma le sorprese per lui sono solo iniziate. Da quel momento in  poi si ritrova proiettato in un viaggio oltre i confini della realtà, nel corso del quale viene in contatto con memorie familiari risalenti alla prima decade del Novecento legate alla figura di una antenata, Virginia, figlia dei mezzadri dei marchesi Raimondi e, in seguito, istitutrice e tata della   contessina Blanche Benassi di Cascina. In un ipnotico oscillare fra presente e passato, fra realtà ed esperienze paranormali, Lorenzo si inventerà “cercatore di memorie familiari” nel tentativo di riabilitare la sua ava Virginia, accusata di infanticidio.”. Colpi di scena e avvenimenti a sorpresa fanno di questa  narrazione qualcosa di unico, che mette in luce le qualità narrative della  Nostra. Il contenuto fluente e  paratattico, dove le varie sequenze (descrittive, narrative, e introspettive) si alternano con dovizia di particolari che ben delineano la struttura psicologica dei personaggi, reifica i  fatti in maniera oggettiva. Credo che sia appropriato riportare il finale di questo entusiasmante racconto: “… lui si lasciò assorbire dalla lettura di un quotidiano. Quando ebbe finito, la signora non c’era più. Al suo posto, un libro. La cercò per restituirglielo, ma non riuscì a trovarla. Chiese in giro se qualcuno l’avesse vista, ma niente. Infine decise di tornare a casa. Avrebbe provato a cercarla l’indomani, dopo il lavoro. Il cercatore di ricordi questo il suggestivo titolo del libro, che insieme alla bella copertina, disegnata a mano da un’artista, catturò la sua attenzione.

La dedica sulla prima pagina lo lasciò letteralmente basito:

 

A Lorenzo “cercatore di ricordi”

con affetto.

Una ladra di storie.

 

Un romando plurale, convincente, armonico, che pagina dopo pagina ci entusiasma e ci invita ad andare avanti. D’altronde le storie, oltre ad essere intricanti e ricche di contenuto, devono anche essere scritte bene, in maniera  scorrevole e comprensiva per farti presente, per emozionarti e per trascinarti in un mondo altro, ma sempre quello che vorresti fosse; questo della Menichetti lo è con tutti gli stratagemmi del caso; anche con quel pizzico di mistero che non guasta.

 

Nazario Pardini       

mercoledì 21 luglio 2021

ANNA VINCITORIO: "EUGENIO REBECCHI, TERZO TEMPO"

 

EUGENIO REBECCHI

TERZO TEMPO

L’albero dei cachi

Anna Vincitorio,
collaboratrice di Lèucade

Nella prefazione  ”. Il poeta autentico vive di attese, di eventi che si compiranno.

Lui ne è o ne sarà protagonista. Vive nella consapevolezza di profezie o meglio, anticipazioni, ma conserva il bagaglio prezioso del ricordo. Tutto ciò che lo circonda a livello animico è un’isola che contiene i suoi desideri, rimpianti, sogni, anche follie. Il suo conforto: “appoggiato ad una stella/ sogno/ un mattino a colori privo della nebbia/ di giorni grigi e tristi”. La luce con la sua chiarità allevia il poeta nella lotta per la vita. Molteplici le realtà di Eugenio spesso fuse ai sogni in una visionarietà colma di pennellate. Vive di sfumature, di attimi; ma quelli tragici pur incidendo sulla sua persona non lo annientano. Come superarli? Con volontà o fede laica riesce a trovare appigli anche nelle azzurre sfumature del cielo che lo sovrasta. Se il presente lo rende claustrofobico, allora bisogna partire verso nuove realtà bucoliche: “cuore verde dell’Italia”, l’Umbria sognata. Forte in lui l’urgenza di nuovi spazi, compagni del silenzio amico in cui immergersi. Una nuova qualità di vita. Non può mancare il commiato da “due perle lasciate nell’ostrica”. Non è abbandono ma proiezioni di un viaggio verso un ignoto fin già vagheggiato nei chiarori e visioni di albe lunari. Cosa lo circonda adesso? Niente di eclatante: “il silenzio delle notti…e di giorno il chiasso è moderato, rispettoso./ Vince la quiete ad ogni ora…”. Amici cari non si vedranno più ma resteranno in noi. D’altra parte la vita non è che un continuo commiato e la ricerca dell’isola in cui immergersi anche se il mare è lontano.

Importante è vivere “la condizione di un naufrago felice…”. Eugenio ha vissuto a lungo in un castello di carte; un tempo Imperatore, ora Matto o Viandante. Nel suo profondo essere, come e dove, per lui è importante. Il bisogno di “azzurro diffuso e inesistente/ è colore allo stato puro”. Il tempo non possiamo vincerlo ma viverlo, sì. Pienamente. Nella sua oasi procedere su lucidi ciottoli ma l’imprevisto prende improvvisamente forma. Adenocarcinoma. Realtà che non può ignorarsi. Lo ha deciso il destino, ma in lui ha inizio una sfida: “sarà lotta fino all’ultimo sangue fin quando potrò dire,/ ho vinto io!”. Essere poeta è vita anche se si manifestano i segni della sfioritura; niente però potrà impedirgli di volere tener lontana la morte. Come? Con la ricchezza del pensiero; osservare la tradizione e bere vino rosso. Vivere il presente, aspirare alla luce, lasciare la malinconia alla notte. A Monte Castello di Vibio c’è un teatro: il più piccolo del mondo. Raffinato gioiello col soffitto affrescato di teneri azzurri. Un passato che vuol continuare a vivere nell’arte. Se un tempo il castello di carte di Eugenio è crollato, adesso nell’oasi verdeggiante ce n’è uno: “si rappresenta il delirio di un uomo/ in assurdo movimento/ Gli spettatori applaudono. Teatro di ombre perché ombra diviene la vita nel suo scorrere”. “C’è un vecchio stanco che racconta a se stesso/ il perché di una vita/ trascorsa troppo in fretta./ Ma lo spettacolo va avanti comunque”. Si pensa di poter scegliere. È tutto designato ma in qualunque realtà, affiora il sorriso inconsapevole di un bimbo là dove c’è la guerra; sono immagini che possono inquietare ma fanno parte di una vita anche se da noi lontana. Possiamo cliccare e spegnere ciò che ci disturba, ma in noi la visione rimane. Il poeta necessita di azzurro e lo ruba al cielo e con un pennello immaginario, pittura i suoi sogni “ingrigiti dal tempo”. Per lui e in lui una promessa d’amore. Una mano gli è vicina e renderà chiara l’ombra dell’uomo “buio e pensoso/ a pochi passi dal cielo. Intorno a girasoli impazziti di giallo/ lungo campi che sembrano infiniti”.

Ogni sensazione del poeta si concentra divenendo chiazza luminosa.

Un pennello immaginario schiarisce i contorni dell’ombra.

“Griderò in faccia alla morte/ il mio desiderio di vita/ Ed esorcizzerò con stanchi rituali/ la possibilità del trapasso./ Tu non puoi restare sola/ perché sta scritto in chiaro,/ che finiremo insieme/ questo cercato percorso…” Ricordo di una complice luna e di un voto d’amore.

E si giunge all’albero dei cachi, ricco di frutti e di colori (v. copertina del libro). I suoi rami perderanno luce e diverranno spogli “verso le probabili nuvole novembrine”. Metafora della vita che scorre verso il suo concludersi ma si procrastina. Il presente va vissuto pienamente; l’acqua ormai lontana visione e “due o tre bottiglie per annegare più di un ricordo”.

Adesso Eugenio e Flavia vivono il loro autunno. “Tra il verde di questa terra benedetta/ ho colto fragranze sensoriali:/ ulivo e vite hanno partorito/ felice connubio fra olio e vino”. Vivere insieme e ricordarsi sempre tali “per un sicuro percorso d’amore”.

Caro amico, ho rivissuto nel leggere i tuoi versi la saggezza di un uomo in cui la rassegnazione lascia spazio alla vita. Il testo può sembrarti assurdo. Triste il risultato? No. Delinea il tuo sembiante di gigante buono. “Ho bevuto mille litri di rosso/ per cantare, più tardi, a squarciagola/ la canzone imparata stonando a più voci”.

 

                                                                   Anna Vincitorio – mercoledì, 10 giugno 2021

PREMIO "TULLIOLA-RENATO FILIPPELLI" RISULTATI

 

Vincitori Premio “Tulliola-Renato Filippelli” 2021

Le giurie sono state presiedute da Dante Maffia Il Poeta- Scrittore-Saggista  più importante  del Panorama culturale del XX secolo, la sua arte dello scrivere e del pensare è apprezzata non solo in Italia e nei paesi europei, ma in Giappone, America, Spagna, Stati Uniti,  India.

Le Giurie, sia quella italiana che quella straniera sono state formate da nominativi di grande valore culturale e morale. Molti sono scrittori, poeti, artisti, professori di prestigiose università del mondo, giornalisti. La Giuria straniera è stata coordinata dalla Poetessa Claudia Piccinno che ne è stata anche giurato importante essendo plurilingue e ottima traduttrice di libri stranieri in Italiano e viceversa. La scrittrice Giulia Fera ha coordinato  il Premio per gli inediti e  ha curato la veste estetica del Premio.

GIURIA STRANIERI:

 

 

1- Mesut Senol   insegna a Yedetepe University- Istanbul- Turchia

2- Raed Al Jishi   insegna chimica al college in Arabia Saudita

3- Claudia Piccinno docente scuola primaria Castelmaggiore(Bo)

4- Milica Lilic  Professore  in pensione, vive a Belgrado

5-- Hilal Karahan, medico ospedaliero- Turchia

6-Oscar Limache- docente Trilce college, Lima- Perù

7- Gino Leineweber- editore ad Amburgo- Germania

8- Santosh Alex- assistente capo Ufficio tecnico presso il central institute of fishery technology, Cochi –India

GIURIA ITALIANA:

 

Giuseppe Trebisacce;

Michele Urrasio;

Lorenzo Spurio;

 Gianfranco Iodice(Segretario);

 Domenico Pimpinella,

Claudia Piccinno,

Mimma Filippelli,

Giulia Fera;

Peter Michael Musone;

 Francesco Pungitore;

Paolo Saggese;

Giuseppe Iuliano;

Carmen Moscariello.

 

 

Vincitori

 

Sezione Poesia

Il vincitore assoluto del Premio è stato

1)Marco Onofrio con l’opera “Anatomia del vuoto”, Editore La vita felice;

2)  Giampaolo Mastropasqua con “Ologramma in la minore. Accordatura orchestrale 432 HZ” Caosfera Edizioni;

3) Carla De Angelis, “Fra le dita una favilla sembra sole”, Fara Editore;

3) A pari merito Rosario Avene con “Accade” Genesi Editrice;

3) Giampaolo Anderlini con la silloge “Distopie”, Fara Editore;

4) Emanuela Dalla Libera con “Sedimentare il tempo”, Gilgamesh Edizioni

4)Maria Gabriella Cianciulli con “Echi di Maggio” Delta3 Edizioni;

Tra i poeti segnalati con alti meriti:

Chiarelli Lidia ”Immagine e poesia”Cross Cultura;

Di Stefano Gianluca con “Bianco e rosso è  e lo stesso”, Fermenti Ed.;

Bottaro Giovanni “Verso l’epilogo” Ed. Prometheus;

Gardini Sonia “III classe al narrapoetando. Haiku” Fara Editore; Valeria Serofili “Taranta d’inchiostro “, Oèdipus.

La Giuria ha deciso di assegnare il  Premio della Critica  al poeta-scrittore  De Simone Palatucci Antonio per le opera “Poesie e altro” e per “Giovanni Palatucci Epifanie poetiche, documenti e testimonianze” La Scuola di Pitagora Ed..

La Giuria ha deciso di premiare fuori concorso la silloge di poesie “Improvvisi…”Editore Blue Moon, Autori gli alunni della III A  del Liceo Classico R.d’Aquino –Nusco. Gli alunni sono stati guidati dalla Professoressa Antonella Prudente, alla quale va l’encomio di tutta la Giuria.

La Giuria  premia fuori concorso per l’attualità e importanza dei temi trattati, per gli arguti e precisi studi  l’opera “Eugenetica e biodiritto : uomo immagine e somiglianza di chi? “ di Amato Michele Iuliano, Delta Editore.

Premio Per la Legalità e contro le mafie:

Vincitore in assoluto per questa sessione è “La Terra rossa” di 1)Santo Gioffré”, Rubettino Editore;

2)Angiulli Saverio ”Oltre la paura. La mafia teme chi non la

Teme” Santelli Ed.

2) A pari merito “L’altro casalese” di Paolo Miggiano;

2) Domenico Pujia con  “I giorni dell’odio”, Edizioni Montag;

Sezione Narrativa

1) Michela Marano “Dialoghi sotteranei”, Europa Edizioni;

1)A pari merito  “La spilla di Isabella” di Loretta Mozzoni e Paola Duca, Kimerik;

Secondi a pari merito

2) Carlo Bramanti “Fiori di mandorlo per la ragazza fantasma ”, Casa Editrice Kimerik;

2) Michele Manna.” I piani inferiori della luna”, Ensemble

A pari merito:

3)Casali Vittorio “Pensieri e racconti” , Gangemi editore;

3)Giovanni Sanperisi  con il romanzo “Luce”, Casa Editrice BooK Sprint;

3)Daniele Vriale “L’ultimo passo”, Porto Seguro Editore;

4) Brown –Liz Chester “”Io sono una famiglia”, Il gabbiano;

5) Maiorana Salvatore con “Anima”, Edizione  Tracce;

5) ex aequo Ciceri Mariadonata “Miao….L’investi Gatto… “ibiskos Ulivieri.

Sezione saggistica edita

1)Luigi Siviero “Grant Morrison”, Eretica;

1) ex aequo Emanuela Dalla Libera “Sedimentare il tempo”

AAVV “Diario del nostro tempo sospeso” Edito da Associazione Mafalda Donne Trento ;

Iannuzzi Vincenzo “Il progresso dell’umanità storica: attualità” Elison Publishing;

Baldanzellu Federico, “Gli antenati che vennero dal mare”Faro Ed.

Amati Roberto, “Storia dell’integrazione europea in 2500 anni”, Autopubblicato;

Russo Giovanni,” Margherita Candia”Edito ONLUS San Bonaventura;

La giuria ha deciso di premiare fuori concorso  : il Poeta Giorgio Moio per “Segni sparsi e dispersi” Poesia visiva/Visual Poetry;

il poeta Francesco Terrone per “La mia follia” e “Il colore degli aquiloni”;

Mauro Montacchiesi per “De arte atque litteris”;

Gianni Ianuale per “Lampi degli dei” Brignoli Ed.;

Cristian Zanoni

 

Inediti

1) Aceto Aurelio “L’anima Galvanica” .

2) Il pianoforte di Blunda Antonio (racconto breve inedito);

 

3)Metamorphosis di Cimino Giuliano (poesie inedite);

 

4)  De Biase Daniela (poesie inedite).

 

La Giuria ha deciso di premiare fuori concorso il Poeta Nazario Pardini per la pubblicazione di tre antologie (3000 pagine) “Lettura di testi di autori contemporanei”, Universal Book, un’opera cosmica di assoluta bellezza, di incorruttibile valore   storico;

La Giuria ha deciso anche di premiare fuori concorso l’Artista Lilly Brogi per la sua opera “ Miracoli”, Gangemi Editore.

 Un’opera in filigranata che racconta la speranza della vita, esorcizzando  il dolore. Scalza ogni dubbio sulla presenza di Dio accanto all’umanità sofferente.

 

La Giuria ha deciso di premiare per l’impegno morale, civico, professionale la Dottoressa Ileana Tudor Specialista in Ematologia, Specialista in Laboratorio Clinico, Docente in Medicina Interna, lavora come medico specialista in Onco Ematologia, autrice di numerosi scritti letterari.

Le scelte formulate dalla Giuria Italiana e straniera sono inappellabili, i libri non saranno restituiti.

 

La  Presidente del Premio

Carmen Moscariello