sabato 29 settembre 2018

E' MORTO DALMAZIO MASINI


Cari, 
purtroppo vi devo annunciare la scomparsa di Dalmazio Masini, presidente dell'Accademia Vittorio Alfieri. E' deceduto il 23 settembre. Mi sento in dovere di dirvelo, essendo iscritto all'Accademia Vittorio Alfieri e all'IPLAC, due associazioni gemellate e amiche. Lascia un vuoto incolmabile e mi piace sottolineare che è stato mio maestro. Se ci siamo incontrati è stato grazie a lui, ai suoi insegnamenti e alla amicizia con l' IPLAC che ho potuto conoscere grazie a Dalmazio. Ha dato un contributo fondamentale allo studio e alla riscoperta della metrica. Roberto Mestrone lo sa. Nicola Rizzi scriveva in metrica e se lo avesse conosciuto ne sarebbe stato estasiato. Mi onoro di essere stato suo amico e ne voglio ricordare l'immensa bontà e generosità, la disponibilità in ogni momento ad aiutare gli amici. Purtroppo negli ultimi tempi è stato molto male e, come si dice purtroppo in questi casi, ha finito di soffrire. Fra i suoi tanti successi svetta la vittoria come autore del testo della canzone "I giorni dell'arcobaleno" interpretata da Nicola di Bari e vincitrice del Festival di San Remo nel 1972 (la trovate facilmente su YouTube) e le tournée teatrali del "Giulio Cesare" di Shakespeare per la regia di Romeo Castellucci, dove Dalmazio, interpretando Marco Antonio, ha girato tutto il mondo (Russia, Stati Uniti, Australia, Israele, Grecia e altri paesi).
                                                                                             Alessandro Perugini

giovedì 27 settembre 2018

SILVANA LAZZARINO: "COME USCIRE DALL'AUTISMO", ENOTECA LETTERARIA


- di SILVANA LAZZARINO -
Presentazione presso l’Enoteca letteraria sabato pomeriggio. Nella sua storia autobiografica Alberto Chiavoni racconta come uscire dall’autismo, malattia a lui diagnostica fin da piccolo





Una scelta coraggiosa quella di Alberto Chiavoni, oggi trentenne entusiasta di sé e della vita, che con coraggio e il sostegno di persone specializzate ha saputo affrontare quell’isolamento causato da una forma di autismo diagnosticatogli fin da molto piccolo. Disturbo pervasivo di sviluppo con rischio di un ritardo mentale grave, e spettro autistico: questa la diagnosi che sembrava proiettarlo verso un isolamento dal mondo e dalle relazioni umane.
Alberto ha lottato grazie al suo coraggio e all’aiuto di psicologi e psicoterapeuti che hanno capito le sue problematiche e intuito le sue possibilità e potenzialità per un buon recupero e rientrare nella vita, dono prezioso cui non poteva e non voleva rinunciare. Oggi è laureato, lavora nella sua edicola e suona meravigliosamente le percussioni e la batteria. Questo grazie alle sue risorse unitamente a persone che gli hanno permesso di uscire da quel guscio di isolamento facendolo sentire in ogni momento importante.
Il coraggio di essere felici: così si potrebbe definire la sua storia che ha deciso di raccontare nel suo libro “Ho scelto di esistere” edito da Enoteca Letteraria (2018). Una storia che proietta il lettore lungo un percorso tutto in salita di un bambino e poi ragazzo deciso, pur tra umiliazioni e dure prove, a non rinunciare ad esistere, ad essere felice anche con il suo disturbo che poi fa parte di questo risveglio di sé. La sua ascesa verso la felicità nasce a partire da una situazione di disagio, e sofferenza per il fatto spesso di non sentirsi accettato e rispettato dai suoi coetanei, e di sentirsi inadeguato perché diverso.
Il volume di Alberto Chiavoni sarà presentato sabato prossimo a Roma alle ore 18.30 presso l’Enoteca letteraria di Tonino Puccica da poco trasferitasi nella nuova sede di San Giovanni in Laterano, 81. L’incontro sarà moderato da Maria Rizzi, nota autrice di gialli di successo, nonché scrittrice di suggestivi racconti e testi poetici; relatori saranno Laila Scorcelletti e Diego Romeo, le letture saranno affidate a Massimo Chiacchiararelli.
Edito da Enoteca letteraria di Tonino Puccica, il romanzo didattico di Alberto Chiavoni avvolge il lettore e lo conquista per la profondità della storia autobiografica che sottolinea come anche chi affetto da disabilità abbia potenzialità tali da riuscire a trovare un proprio percorso e un posto nella vita sociale, se aiutato e messo nelle condizioni di poterlo fare, sentendosi accolto e capito. Una storia intensa e commovente in cui è dato risalto al coraggio e alla capacità di un ragazzo nel saper reagire alle difficoltà della vita trovandosi di fronte una società pronta ad isolarlo perché diverso (esempio i compagni di scuola) una storia in cui viene suggerita la strada per sostenere quanti si trovano nella condizione in cui lui era prima provare ad uscire da quel guscio che lo teneva separato dal mondo.
Una storia di grande spessore pedagogico, didattico e umano di chi è riuscito a trovare se stesso e dimostrare di essere parte integrante di questo mondo, con la propria unicità fatta di pregi e difetti, come tutti. Grazie a diversi fattori, Alberto Chiavoni è riuscito a vedere il suo handicap non più come un impedimento a vivere un’esistenza gioiosa e in armonia con sé e gli altri, ma come una possibilità per ritrovare se stesso. Questo grazie al suo carattere e alla volontà di dare voce alle proprie risorse.
Scorrendo le pagine del libro si entra con il cuore ed il pensiero nella sua vita di bambino e ragazzo che poco alla volta ha imparato a convivere con la propria disabilità prendendone coscienza da cui il desiderio di vivere la quotidianità con le sue diverse sfaccettature. Da qui il percorso di cura con l’affetto e terapie, e poi consigli e suggerimenti per chi nel settore opera dando così aiuto a quanti vivono la sua condizione. L’autore proprio dalla sua esperienza che lo ha portato a scontrarsi con una società piena di pregiudizi, parla di un percorso di consapevolezza del suo stato che diventa sfida per affrontare le sofferenze, e allo stesso tempo descrive la sua determinazione e coraggio, fondamentali per essere felici e realizzarsi come persona.
Emerge l’amore per sé anche nel suo essere autistico, dandosi delle occasioni, delle possibilità per condividere e relazionarsi con gli altri, ed emerge anche l’amore per gli altri invitando quanti addetti al settore a prendersi cura di chi vive una disabilità perché la vita, dono unico e prezioso, è un percorso di crescita e formazione, di ascolto di sé e di quanti intorno. La solidarietà è quindi altro fattore caro ad Alberto Chiavoni che è impegnato nell’aiutare le famiglie con figli autistici portando la sua esperienza nelle scuole e in incontri sull’argomento. Inoltre sostiene che in tutti vi siano delle potenzialità anche in chi è più fragile, ed è ai più fragili che bisogna dare il sostegno per incoraggiarli a lottare.
L’autore ha dimostrato come sia possibile essere felici anche quando magari in partenza manchino i presupposti. Ma per essere felici bisogna avere coraggio: quel coraggio che mette in discussione non solo il proprio vissuto interiore, ma anche di conseguenza il rapporto con l’esterno, con la società pronta spesso ad etichettare e giudicare il diverso, emarginandolo perché non all’altezza e non adatto a certe situazioni e contesti. Dopo la presentazione del libro di Alberto Chiavoni, vi sarà un brindisi offerto da Tonino Puccica in onore dell’autore.

Silvana Lazzarino


M. L. DANIELE TOFFANIN: "PREMIO AECLANUM" UN PREMIO SPECIALE


PREMIO NAZIONALE DI POESIA AECLANUM – 36^ EDIZIONE
UN PREMIO SPECIALE IN MIRABELLA ECLANO
di Maria Luisa Daniele Toffanin


Maria Luisa Daniele Toffanin

Il Premio Nazionale di Poesia “Aeclanum”, organizzato dall’Associazione Culturale “Linea Eclanese”, dal nome della ridente cittadina sannitica e poi romana, ormai alla 36^ edizione, è memoria viva di Pasquale Martiniello, suo ideatore, e ora proseguito dalla figlia Luisa, il marito Antonio, i giovani Antonella e Lorenzo, insomma dalla famiglia stessa ma anche dall’anima culturale di Mirabella Eclano stretta intorno alla figura di questo personaggio eccezionale. Sì, perché di Pasquale rimane la forza della sua poesia, espressione di impegno sociale e civile, ma anche tutta la sua opera illuminata di sindaco, testimoniata dalle scuole materne, dai licei classico e scientifico a cui ha dato vita rivelando sensibilità per la famiglia, la cultura e i giovani. Per questo il pomeriggio della premiazione si è aperto con le parole di Luisa in ricordo del padre e con quelle del vicepresidente della giuria Antonio Crecchia (poeta, scrittore, critico letterario, saggista già creatore della monografia “L’evoluzione poetica, spirituale ed artistica di Pasquale Martiniello”, e impegnato in una successiva sempre sullo stesso) che a lungo si è soffermato con la sua metodologia di ricerca sul mondo poetico e sul linguaggio del Nostro, come già molti altri critici. Lo stesso Presidente della giuria Nazario Pardini, devoto amico, ne ha recensito molte opere di cui si dirà successivamente. Giuseppina Dispirito ha poi analizzato l’ultima silloge poetica di Luisa, Dirigente Scolastico a Milano, proprio sui sentimenti della donna migrante. Un pomeriggio quindi di grande spessore culturale vissuto nel Centro Parrocchiale di Santa Chiara e reso particolare dalla preziosa presenza di Franco Roberti, già procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, ora Assessore regionale alla sicurezza e alla legalità della Regione Campania e inserito in altri importanti ruoli. Il Procuratore ha voluto onorare il Premio Aeclanum, i luoghi del suo lontano impegno professionale a Sant’Angelo dei Lombardi, intervenendo gentilmente alla premiazione di Maria Luisa Daniele Toffanin. Nel suo intervento ha espresso chiaramente l’esigenza di tenere viva ovunque la cultura e di creare ponti attraverso essa tra le varie parti dell’Italia come possibilità di sublimazione dell’anima, di maturazione del pensiero e quindi speranza di una vita migliore per l’uomo, manifestando un sincero interesse, un sotteso impegno per sostenere tali iniziative. Molto applaudite le parole di Franco Roberti il quale a sua volta ha partecipato alla premiazione dell’autrice che ha conseguito il primo premio per la silloge “Dal fuoco etneo alle acque polesane”. Il premio consiste, oltre ad una medaglia d’oro ricordo della famiglia Giacalone, in un raffinato quadro d’argento, e nella seguente motivazione redatta dalla stessa Luisa:
Si condivide con la poetessa un volo con la silloge edita “Dal fuoco etneo alle acque polesane” in cui ci si sente fioriti d’avventura / ninfee vaganti nel cielo sconfinato in nome e per conto della poesia, che diventa l’occasione per tessere un invisibile, ma tenace legame tra la terra veneta e la terra siciliana. È un necessario riappropriarsi del mito della sacra montagna che trattiene nel suo grembo di roccia un arcano mistero, vestale della fiamma che con le sue vertigini di luce squarcia la coltre della notte e pretende rispetto, suscita apprensione, suggerisce presagi. Colori, suoni, profumi consolano l’animo cullato ancestralmente dall’onda flautata, che si perde negli orizzonti / di speranze sconfinate, che comprende i ritmi lenti, ma vittoriosi dei morbidi cuscini di verde che si interfacciano al brullio di lava cenere alternati alle ginestre, miti fuochi d’artificio sul cuore pulsante della terra etnea. A confronto la terra padana di foschie /malie svapori / slarghi inattesi si sole / fra fondali d’umile perle, la malia di ricordi / infanzia tra un soffiare salmastro che prospettano tra acqua e terra promessa d’illuminati spazi e /presagi d’Eterno. Un canto carezza gli argini fioriti di pioppi o il lembo di sabbia su cui si posano i gabbiano / come nostri pensieri / al riparo dall’onda e se pure il sole disegna reti d’oro // nell’acqua della sera il pensiero è veliero, è libertà che sconfina e la sera stessa diviene offerta di luce. L’omaggio ai luoghi cari come ai fanciulli di casa è terapia all’anima, tornare è riprendere coscienza di se stessi, è elevare un inno di lode al Dio della vita, sentirsi creatura nel Creato.
Presente era anche l’altro figlio di Pasquale Martiniello, Alfonso, cardiologo a Napoli. Presenze, riflessioni, parole di rilevanza eccezionale hanno caratterizzato questo Premio Aeclanum, proprie dei grandi momenti della vita in cui umanità e cultura convivono intimamente. Ma è stato anche un modo per ritrovare vecchi amici: Rosa Spera di Barletta (primo premio per poesia singola) e Ignazio Gaudiosi di La Spezia (terzo premio per libro edito). È giusto ricordare anche tutti i membri della Giuria presieduta dal grande Nazario Pardini: Antonio Crecchia e Franca Canapini (poetessa, scrittrice), Mario A. Iarrobino (critico letterario) e Carmelo Consoli (poeta, critico letterario). Hanno reso armonioso l’insieme le letture di Luisa Martiniello e le intense interpretazioni della figlia Antonella.
Affettuoso il buffet realizzato da tante mani che lo hanno reso gustoso e particolare per i piatti caratteristici del luogo.
Piace andare fra le parole di Pardini e scoprire la tempra etica di Pasquale Martiniello che coi suoi tipici accostamenti zoomorfi … si affida alla calzante metafora de La cavalletta: l’avidità senza freni, l’animale che mangia, distrugge e divora con la cupidigia tipica della classe dirigente e degli squali dell’economia.
E col suo copioso fluire verbale critica un mondo che non sente più suo, però ritrova sotteso uno scrigno di valori, di semplicità, di vicinanza umana, forse anche arcaico, e persino bucolico, cucito d’amore totale, di intenti di pace e correttezza morale. Pasquale manifesta sempre un eroico realismo di fronte al dualismo vita-morte: “Sono un seme sgusciato/ aperto al dolore e al rapace// Spiga inaridita dal sole in attesa/ della falce”. Sa sempre rinnovare il suo ardore lirico acceso a  raffigurarsi in spazi e figure che lo concretizzino. Qui il male e il bene si contrappongono resi a tinte forti o pacate ma anche si aprono in immagini di speranza legate alla terra, al Natale, all’attesa di altri tempi, dove il cielo era blu, gli alberi d’oro e dove la semplicità la faceva da padrona. E qui rievocato da Pardini, Martiniello rappresenta un po’ le attese anche della mia casa, della mia stessa infanzia costituita da piccole cose che si fanno di per sé poesia e danno rifugio, conforto all’anima mia, di Pasquale e di ogni uomo. Pur nel suo impegno civile, il nostro si rivela sempre un lirico che si nutre di “cieli fioriti”, “battiti di campane”, “mela rossa”, “Bambino”, “casolari”. Un poeta quindi che ama la vita e la sa rendere poesia e di essa si alimenta per trovare il suo mondo di pace confermando nel 2009 in “La cavalletta” il suo stile, i suoi intenti, la sua carica umana. Infatti, andando a ritroso nel tempo, ad esempio in “Il formichiere” (2008) e ne “Le faine” (2007) annotiamo già questa cifra del suo poetare. Leggendo “Il Formichiere”, sottolinea Pardini, con quell’empatia che solo l’amicizia sincera sa avvertire, sa esprimere: ho vissuto il tuo impegno civile e politico in piena comunione con i miei principi. L’opera mi è parsa pungente come al solito: ma anche liricamente più saporosaesonda dai suoi versi una cifra etico-stilistica sempre più ispirata da un desiderio di panica simbiosi col mondo che vorrebbe, con la natura che arcaicamente gli sorride, con un popolo agli antipodi di quello che quotidianamente viviamo. Si avverte anche l’aspirazione ad un nuovo mondo di  frecce di rondini perché Siamo soffio di primavera e malato/ autunno presenze vacue fumo nuvole/giocate e straziate dal vento, immagini visive che rendono il messaggio più autentico soprattutto della caducità della vita la cui coscienza dovrebbe sollecitare ad un’armoniosa convivenza negata e rifiutata dalla società. Ma Martiniello, accanto alla sua coscienza civile, alle sue malinconie svela l’amore per il bello, per l’uomo per cui varrà sempre la pena migliorare come i suoi versi ci dicono proprio incitandoci a ritrovare l’innocenza dell’età dell’oro riscaldati dal fuoco del ciocco e dalle voci incantatrici delle favole. Un mondo quindi auspicato in cui l’uomo possa cercare l’armonia dell’essere insieme fiduciosi gli uni degli altri, il giorno, la notte, nell’innocenza ritrovata. E questo insieme di critica accanita della società, questa coscienza del bene e del male, questa speranza si ritrovano un po’ in tutta l’opera e ne “Le faine” in particolare. Sempre nelle allusioni zoomorfe, metafora dei comportamenti umani, il suo dire civile diventa ancora più affascinante in quanto il verso è il risultato di equilibrio classico e al contempo innovativo fra dire e sentire. Colpisce soprattutto la continuità ispirativa, la presenza costante di un grande cuore che ha maturato vena artistica, fonemi espressivi, accorgimenti stilistici attraverso la sua vicissitudine umana. Martiniello è ora maestro di un’orchestrazione che fa della sapienza metrica e stilistica un supporto significante all’armonia del canto. E l’autore in quest’opera riesce a metabolizzare tutto il suo mondo nei contrasti tra bene e male, nella gravezza di problemi sociali e lo rende a tal punto suo, viscerale che non vi è più distinzione tra impegno e lirismo: lirismo che raggiunge i suoi più alti toni, quando Martiniello si abbandona liberamente a nostalgie o sentimenti di amicizia e di amore come nel ricordo del padre: “Sei la stessa grazia di Dio che per te / decide il taglio degli innesti e l’avvento / del volo mite dei colombi Il mondo / è il tuo cuore aperto a fertili futuri”. Acqua pura questi suoi versi di cui dissetarsi scoprendo un mondo diverso.
Pardini quindi come recensore dal sapiente spirito critico e dal profondo senso di amicizia ci svela l’anima di un uomo dalla voce profetica di verità civili, sociali oggi ancor più attuali anzi endemiche nel nostro contesto storico. Quindi una voce eterna, quella della poesia, che parla dell’uomo all’uomo per farlo riflettere su se stesso.

Maria Luisa Daniele Toffanin
23/09/2018

martedì 25 settembre 2018

SERENELLA MENICHETTI: "RINASCITA"




Serenella Menichetti rinasce affidando una storia di “Amore, gioia ed energia creativa” a endecasillabi che cantano, suonano, incantano, e magnificano come una romanza di pucciniana armonia. Ascoltate il coro a boca cerrada e ditemi se ho ragione....


RINASCITA

Mi sento spento, quasi imprigionato.
Con gran sollievo lascio Recanati.
Le membra porto nella Pisa dotta.

Per respirare versi e primavera:
costeggio il fiume, e giorno dopo giorno
il pieno faccio di salute e ardore.
E se un olezzo salubre di mare
sul volto giunge, assai mi rassereno.

Sfilano le carrozze sul lungarno
Ed i cavalli vanno a passo lento.
Palazzi raffinati e monumenti,
gioielli immensi di inebriante luce:
Grande torpore sciolgono dall’animo.

In questa città di vita pulsante
bellezza ed armonia vanno a braccetto.
Ed io le colgo come margherite.

E vivo e sogno, mentre l’Arno scorre.
E creo di nuovo, in questo clima puro.
Amore, gioia ed energia creativa
tornano a rifiorire in questo prato.

La magica atmosfera, interra semi
in uno spazio che pareva morto.
Li sento mentre mettono radici.
E attendo.

Serenella Menichetti


N. PARDINI: "LA POETICA DI EDDA CONTE". POESIE INEDITE


LA POETICA DI EDDA CONTE



Scrivere sulla poesia di Edda Conte è come provare  il piacere di una piuma che ti accarezza, è come avviare uno scambio di visioni esistenziali che inquieta per i dubbi e le incertezze sul fatto di esistere. Ho avuto l’onore di leggere gran parte della sua produzione  narrativa e poetica, e non è azzardato dire che i suoi versi respirano aria di campagna e di città, di isola e di marina, di casa e di speranza; ne respirano i tratti salienti, le cromatiche e simboliche allusioni, per farne corpo  di una filosofia che tanto parla della vita e delle sue vicissitudini. Il naturismo psicologico, antropico, fa parte della vitalità espressiva della Nostra. Sembra che Ella sguinzagli l’anima per i campi, per i boschi, per gli anfratti, le strade dei vicoli, ne rapisca i profumi, le immagini più care  per legarle in iuncturae sinestetico-visive, in metaforici guizzi semantici, a beneficio di una versificazione reificante incertezze e abbandoni. Tutto è legato ad un mondo di solitudini e di miraggi; ad una sostanziosa forza emotiva che ne fa una scrittrice personale e soggettivamente incisiva. Senz’altro non appartiene alla schiera di scrittori che ha fatto e continua a fare della riforma prosastica del verso il baluardo della loro scrittura; piuttosto a quella di poeti che attraverso le memorie e gli impatti emozionali e reali esemplifica la portata della loro epigrammatica vicenda. I “canti” sono l’espansione di stati d’animo ora immeditati e estemporanei, ora frutto di una sedimentazione lunga e travagliata. Per dare l’idea della sua poetica basterebbe pensare al mare; all’annullamento dell’esistere nella sua infinità: è in quella estensione che Edda tende a sperdersi; è là che naviga alla ricerca di un porto a cui approdare, di un’isola su cui trovare una felicità ambita e sognata ma difficilmente raggiungibile. Si può veramente dire che alla base del suo progetto c’è questa propulsione, questa spinta, questa tensione all’oltre, al di là delle magagne della vita mortale. La versificazione è armonica, sempre pronta ed agile,   sempre disponibile a farsi lucentezza; punto luce da prendere come cuore della sua malinconia. Anche le tristezze non sono mai invasive, mai eccessive da tramutare il percorso poematico in decadente saudade. Tutto è duttile ed energico; tutto direzionato a raffigurare un’anima ricca di input umani; di messaggi che fanno della vita una poesia, e della poesia la vita. E quello che più coinvolge e che è difficile riscontrare nella poesia moderna è l’equilibrio, la compattezza, la fusione fra dire e sentire: un amalgama fra sonorità ed emozioni; un melologo, un’ecfrasi fra il verbo e il monumento del poièin. E anche quando tenta percorsi innovativi attraverso stilemi di ricerca; arditi e sofferti propositi di sperimentazione, lascia sempre una traccia, un sentiero tramite cui ritrovare la sua originale ontologia. A proposito già ebbi a scrivere sulla silloge intitolata Negazioni: “... Tutto fa parte di un mondo lasciato alla dialettica delle cose; a geometrie sconnesse in vista di un ordine nel disordine. Edda Conte è alla ricerca di strade nuove che la possano far uscire illesa da un’isola che ormai ha dipinta e narrata con bucolici ricami; è così che dagli azzardi ad orizzonti lontani torna a meditare sul correre del tempo e le tante negazioni. Lo stile è nuovo e rivoluzionario; abbandona le armonie dalla classica positura per una geometria sintattica  frammentata, lasciata in sospeso, “disordinata”, dove il metro rispetta le ambasce, affidandosi ad emistichi che tendono a staccarsi dalla struttura compositiva per una libertà alla quale l’Autrice aspira nel tentativo di sottrarsi alle aporie della quotidianità....”. Sì, tutto questo, ma la Conte, pur nel tentativo di rinnovarsi,  lascia sempre il segno, il copyright del suo DNA: panismo, realismo lirico, euritmica intrusione formale, simbolismo meditativo, aspirazione all’oltre, creatività e vita, vita, vita. Questa meravigliosa esperienza umana e disumana che ci prende e ci lascia, che ci consola e ci sconsola, che ci illude e disillude, che ci porta con il suo carro di meraviglie a spasso per sentieri ora soleggiati, ora brumosi, ora tempestosi, ed ora lunghi e senza uscita, a cul-de-sac, per dirci del mistero che nasconde nelle sue grinfie, e della imperscrutabilità del prosieguo. Questa è la poetica della Conte; è realistica, immaginifica, saggiamente esplicativa, romanticamente esplosiva, ma soprattutto umana. Di una umanità fatta di sogni e di risvegli improvvisi; di grandi abnegazioni che spesso la vita stessa ci impone durante il suo tragitto.  E la poetessa sa tradurre queste sottrazioni in poemi di alta levatura estetica, affidando all’energia  della parola il compito di rappresentarla.

Nazario Pardini
11/09/2018



CALURA

Abbaglia la luce dai tetti
i teneri fiori
le surfinie scarlatte
i gerani...le fresie odorose.
Glauco il plumbago nel verde
sorveglia le ore di attesa...
               Aliterà la notte
di frescura estiva
attimi a ritroso
verso le sorgenti del Tempo
dove Calura si annega
in amplessi di oblio.
.......



VERSO CAPO TESTA

Gocce di pioggia estiva
esaltano i profumi della macchia
e tra le siepi / tardivo
il cisto rosa tenero risplende.
Al pascolo indugia una mandria
nei vapori della prima sera.
         Vaga il pensiero con le nubi
fino alle rive d'Arno
tra vuoti silenzi
in abituale ricerca muta
titubante e incompleta.
Rare parole tra noi.
Incroci in un presente che sa di lontano
come graffi indolori alla memoria.
.....
Scritte tre anni fa, e hanno la pretesa di ricordarmi il senso della tua Poesia. Per te con un mio pensiero di amicizia carissimo Nazario.
Edda



lunedì 24 settembre 2018

ANNA VINCITORIO LEGGE: "CRONACA DI UN SOGGIORNO" DI N. PARDINI



NAZARIO PARDINI
Cronaca di un soggiorno
gennaio 2018
The Writer – Edizioni Ass.

Anna Vincitorio,
collaboratrice di  Lèucade


Verso l’isola… Nell’isola?
Nel pronunciare questa parola ci proiettiamo al di fuori di noi. È un volo
immaginato o vissuto verso un indefinito sospeso tra mare e cielo che può contenere ricordi come l’impossibile, il reale, il contenuto di una intera vita oppure l’inaspettata consapevolezza della morte. “Su quest’isola/ le campagne rigurgitano fiori/ si estendono infinite assieme al cielo;/ i voli non sanno della morte;…”. L’isola per chi crede nella sua esistenza, dà un’idea di protezione come se ci cingesse con l’abbraccio ideale di un mare. Ma bisogna raggiungerla. È una conquista che il poeta acquisisce con la forza della parola. Parola formata di spazi naturali dove sostare; spazi spesso impervi. Il prezzo può essere alto: “ho amato l’amore,/ ho consolato lividi e sconfitte/ ho incenerito sogni,…/ ho logorato barche ormai spente e inclinate,/ sono adagiate ad ammirare stracci/ di nubi incoronate dai tramonti./ Solo un’isola mi volle sui suoi scogli.”
Se dotato di creativa fantasia, ognuno di noi potrà avere la sua isola e
contemplarla. L’isola è la nostra vita colma di “volti, rimpianti; fremiti di mare, incontri…”. La vita che viviamo è un soggiorno e in esso prendono corpo i ricordi: “quella scala/ che mio padre saliva per gioire/ del profumo di casa…”. Il figlio che attende sui gradini l’evolversi delle fatiche quotidiane del vivere anche se il vivere è caduco. Il nostro soggiorno è breve rispetto al dopo. Così le sue incognite. Il testo è cosparso di metafore: “scogli scivolosi cui aggrapparsi, di fronte onde devastanti”. Il punto fermo: un’isola fragile sperduta “lembo di terra che trattiene quasi prigione…/ sosto ancora e di fronte il mistero”. Quale? Un’altra vita nella morte. Compagni, sempre i ricordi. La gioventù rimpianta. Il poeta la vede verde ma di un verde che subito si annera all’affacciarsi del silenzio dell’autunno. In questa caducità in cui tutto è soggettivo, la verità è eterna e universale. Quando ne avremo cognizione? C’è una realtà in tutto ciò che ci ha preceduto: è reale ciò che continua oltre di noi – vita ultraterrena – Tra il prima e il dopo il niente. L’eternità cui agognano è nera come il nero che dà fine al verde della giovinezza. Nera perché non ci è dato di conoscerla; infinita, universale. Il poeta dopo queste dissertazioni filosofiche si sofferma sulla bellezza delle Apuane: “Hanno il cuore/ nei volti di madonne, nelle chiare/ corone di pietà prone su panche/ di chiese secolari… Alte, superbe, chiomate di aureole,/ sono là stagliate/ all’ora dei tramonti…”. Alla bellezza delle montagne contrappone – Terremoto – con descrizioni forti e reminiscenze classiche rivelatrici delle specifiche conoscenze dell’autore e il consapevole richiamo al mito. Ma questo terremoto è lo sconquasso che la vita genera in noi? C’è una speranza e dopo l’annientamento la calma è un nuovo voler rivivere: “se il chicco del seme nella terra muore, dopo darà molto frutto”. Nella vita momenti in cui sostare come guardare il mare blu stasera; “mirare quella vela, il suo scivolare leggero…/ voglio mirare la sagoma di un’isola brumosa/ che vibra la sua immagine irrequieta…”. Ritorna il concetto di isola, lontana ma dove il poeta ha vissuto forse solo attimi che l’hanno fissato nella memoria. Ora non può più raggiungerla ma solo ricordarla come l’immagine di una fotografia. Ma dove vive il poeta? Vive in “solitudini/ immemori di isole, solitudini/ di morte compagna lasciata alla pietà di chi vive la fine inconsciamente/ giorno per giorno”. Il mondo ha in sé realtà crudeli (Foibe – pag. 38) e scende il buio; il cielo aggredisce la terra con fulmini e diluvi. Qui vive il poeta; la sua anima inquinata fuori dal corpo “in cerca di profumi/ che il vento appiccicava alle carezze/ d’orizzonti puliti…/ dove lo sguardo si perdeva largo…”. Si schiara il poeta nel ricordo costante della primavera, della Pasqua vista come giorno di memorie, “come attimo breve di profumi e di sapori arcaici e gioiosi”. Si manifesta l’amore per la sua Pisa, la strada di Metato: “spazi d’azzurre levità su letti/ di fiumi deviati in altri corsi/ …ali di pensieri appese al blu/ …Ecco il mio saluto,/ o irti, schivi e astati girasoli…”. Nel sorgere del sole e nel pulsare della vita riaffiora il padre vivo “ad onta della morte sulle pietre, i muretti, i cigli/ le viuzze, i pensieri/ da questa nuova aurora lievitati”.
Dentro l’anima solo abbandoni, ricordi col profumo di rosa e il fiore di
campi fuori “dai giardini dei fiori” e dopo un lungo viaggio il poeta vive nella sua isola. “E a sera sento il richiamo della mia certezza,/ fuggo col cuore zeppo di quell’aria/ coll’anima immortale dei suoi venti,/ coll’alito lucente del suo sole”. Il bisogno avvertito dal poeta è “il ritornare spesso sui soliti luoghi” dove “il brivido d’amore/ della vista del mare, della notte/ o del giorno che nasce dalle tenebre, a che vale?…”.
Affiora un pessimismo profondo perché il protendere verso l’azzurro è
solo apparenza “nella nera voragine del nulla,/ che azzererà la mente e la memoria”. L’ebbrezza della vita è solo nel viaggio e la sua fine “seguirebbe la morte di un poema”. E allora, volgere lo sguardo “all’orizzonte della spiaggia nuova/ di questo mare ignoto”. Desiderio di risorgere dalla nera morte dello spirito con la parola.
La seconda parte della raccolta è dedicata ai familiari. La tenerezza del
figlio Samuele dai boccoli d’oro; le enormi spiagge riminesi e quella foga di libertà che è compagna di vita. La piccola Debora, i primi passi, l’avventura nel box. Ricordi, nostalgie. La vita vista dagli occhi di una bimba e dagli adulti provati da essa ma ricolmi di un amore senza tempo. In questa atmosfera pervasa dai ricordi, la natura dei luoghi con “l’elicriso che imbionda sulle dune/ tra l’arsa tamerice ed il salmastro/ brontolio della bàttima”. Giovinezza e vita di spiaggia. Il poeta nel ricordare, sente nuovamente dentro di sé i fremiti di giovinezza. Il tempo scorre veloce; “gli anni hanno le ali”. Per vivere ci vuole amore anche se “volerci bene è cosa rara”. Poi la struggente “sera di casa mia” per respirare l’aria buona di casa e i passi del padre che gli parlava “di un ciliegio reciso, e della nonna/ a stendere la pasta al matterello/ o a usare la ventaglia sul fornello/ che spolverava cenere” e il camino meraviglioso che schioccava. Ancora: la vecchia zia Rosina e il vestito conservato intatto nell’armadio e i canti “delle tortore mi aiutano/ che lugubri rintoccano nell’aria,/ a vivere la morte,/ con voi miei cari…”.
Il poeta indulge nel ricordare la madre che “ai piedi non aveva tacchi a
spillo/ ma stivaloni tanto pesi che le stremavano i fianchi”. La terra impolpata di pioggia e “sotto l’acqua, appena riparata, violentava i suoi sogni”. Madre “con il falcino in mano e il volto stanco”. E quel dialogare col padre, immagine fissa nella memoria del figlio. Figura semplice e grande come la terra da lui coltivata che regala al figlio “odori d’erbe offerte/ alle frullane lucide di sole”. Il figlio prega; non sa a chi, perché gli mantenga in seno la voce paterna. Quel padre che aveva in sé la maledetta voglia di seminare sogni anche nei giorni più neri della notte”.
                    “Contro la luna”

Bello anche il ricordo del fratello che prendeva per mano, lui ventenne, il
poeta di appena nove anni. Non c’è più accenno all’isola ma il nostro è immerso nell’aria di novembre greve di penombre che degradano; un novembre presago della fine dove ancora risuona “la voce magra” della madre ma dove il poeta colloquia col padre in sogno. “Baluginò il suo volto – che lucore!”. Ancora: il padre gli prende la mano, lo chiama e lui corre trepidante e il ricordo di cose semplici della vita lontana di campagna: i pomodori “zuppiati in picchiata nel sale”.
Il testo termina con – Nel buio il giardino d’oro – dove “Restare non è
dato. È il mistero/ che volle il triste strappo”. Tuttavia in questa desolazione che anticipa la morte, “nasceranno/ nuovi virgulti a fremere ai libecci;/ a popolare fronde; a rimandare riflessi verdeggianti di speranza”.

 Anna Vincitorio
Firenze, 19 settembre 2018

sabato 22 settembre 2018

LINO D'AMICO: "A VOLTE IL CUORE"


                     
Lino D'Amico,
collaboratore di Lèucade
          













A volte… il cuore…


disperde nel tempo refoli di oblio
impigliati tra le pieghe della mente
che impotente,  come anima muta,
cerca il volto di nuovi spazi
nella polverosa soffitta dei ricordi.

     A volte… il cuore…
accarezza chiome grigie  e rami spogli
nebbia che addormenta la ragione
là dove quiete e tempesta si alternano
errando l’infinito per diradare
brume di trascorsi momenti tristi

A volte… il cuore….
ha paura di parlare  col  silenzio
per rintracciare il capo di quel gomitolo
che dorme sotto il lenzuolo dell’inconscio
e tiene prigionieri in un lontano altrove
pulviscoli di fragili armonie,
sussurri di persone innamorate,
cinguettii inghiottiti nell’azzurro.

A  volte… il cuore… 

Lino D'Amico

venerdì 21 settembre 2018

CLAUDIO FIORENTINI TRADUCE UNA CANZONE DI SILVIO RORIGUEZ


Claudio Fiorentini,
collaboratore di Lèucade

Playa Giron una piccola spiaggia ad oriente della Baia dei porci, popolata da umili pescatori.
Silvio Rodrïguez, uno dei maggiori rappresentanti della Nueva Trova Cubana, ha proposto nei primi anni '70, questa canzone, di cui traduco il testo:



Compagni poeti,
tenendo conto dei recenti sviluppi della poesia,
vorrei chiedere, mi preme:
quali aggettivi dovremmo usare per scrivere
una poesia, che parli di una barca,
senza che diventi sentimentale,
che sia fuori dalle avanguardie,
o che sia evidente buffonata?
Se devo usare parole
come flotta cubana di pesca e... Playa Giròn.

Compagni musicisti
considerando le politonali
e audaci canzoni
vorrei chiedere, mi preme:
quale armonia deve essere usata per fare
la canzone di questa barca
come uomini senza infanzia,
uomini, e solo uomini sul ponte,
uomini neri e rossi e azzurri...
gli uomini che popolano Playa Giròn

Compagni di storia
tenendo presente quanto sia implacabile la verità,
vorrei chiedere, mi preme:
cosa dovrei dire, quali confini dovrei rispettare,
se qualcuno ruba il cibo e poi dà la vita, cosa fare?
Fino a dove dobbiamo mettere in pratica le verità,
fino a dove sappiamo...?
E allora che scrivano la storia, la loro storia,
gli uomini,
questi uomini
di Playa Giron.