domenica 30 maggio 2021

MARIA ELENA MIGNOSI PICONE LEGGE: "CHIAMATI DA DIO" DI DON ALESSANDRO BUCCELLATO


Don Alessandro Buccellato

CHIAMATI A DIO

 

Con la raccolta di poesie dal titolo “Chiamati a Dio” di Don Alessandro Buccellato, ci troviamo di fronte ad un poeta particolare, ad un poeta che è sacerdote, o, se preferiamo, ad un sacerdote che è poeta. Allora ci viene spontaneo accostare fede e poesia e ci chiediamo: “Ma la poesia è preghiera?”; ci risponde lo stesso autore che della poesia dice: “…componimento nuovo, armonia e dolcezza, / …sgorga come sorgente sotterranea, / nuova acqua che zampilla fresca” evidenziando della poesia l’immediatezza della ispirazione. Ne “Il fremito” confida: “Ho un fremito sublime / che…/ tramortisce la punta dell’anima / dove trovo Lui, / dialogo amo e volo nella sua eternità”, e osserva: “È come librarsi”. Dunque la preghiera, che è dialogo con Dio, nel fremito che il poeta avverte, ha qualcosa in comune con la poesia: un rapimento estatico; e inoltre in comune ha pure l’atmosfera che l’avvolge: il silenzio della notte. Spesso le poesie vengono di notte ed è di notte che, dice il poeta: “Silenzio! / Cala il buio intorno / e la notte bussa per entrare”. Altrove: “Nel silenzio ascolto la voce del mio cuore…/ Aspetto il momento migliore per parlare ad essa; / nella notte è attenta, libera, / può esprimere se stessa / risuonando nel profondo”. “Amo stare con te di notte / quando il buio fa tacere ogni cosa / ma non la tua voce.” L’atmosfera pure favorevole alla preghiera è quella della chiesa, quando vi si entra e si gusta il raccoglimento interiore cui essa invita: “Taci, / parla il silenzio / nel buio luminoso della vecchia chiesa”. La chiesa è il luogo proprio del sacerdote, la sua casa, da trattare con venerazione: “In punta di piedi / entrai, / timoroso di rompere il silenzio / e l’incanto del luogo sacro”. Là “Raggi di luce mi stordiscono/ e scruto in me / il Tuo dolce Volto”.

La ricerca di Dio è stata ed è la meta agognata, anche se non si esaurisce mai nella vita. “Inconoscibile e Beatissimo Dio, / sorpresa d’amore e abisso di dolcezza, / a Te appartiene la mia esistenza… / Beato chi contempla la Tua Maestà /e mai la comprende.” Certamente l’uomo non potrà mai averne la conoscenza piena, perché Dio è infinito ed è mistero. Basti pensare alla Santissima Trinità! Però ne può fare esperienza nel suo cuore nell’ incontro con la persona di Gesù. Così infatti prega il nostro poeta: “ Che io Ti conosca, / mio Dio, / e io diventi esperienza di Te”. La Madonna, che è colei che conduce a Gesù, ha un ruolo determinante. E a Maria di Fatima così si rivolge: “Mi perdo nel desiderio / di contemplare il tuo volto, Madre: / il mio cuore si spezza / nel desiderio/ e mi prende un’intima nostalgia / struggente” e aggiunge: “Madre dolcissima, / ogni attimo, ogni lacrima, / momenti eterni / che già appagano / la mia malinconia”. La ricerca di Dio, però, pur sapendo l’uomo che mai si può saziare, nel poeta prorompe in un atto di decisa volontà quando così si esprime rivolgendosi al Signore: “Voglio la tua bellezza tra le mie fragili mani”.

Bellezza di cui Don Alessandro Buccellato ha fatto già esperienza nella contemplazione della natura. “Bellezza naturale che tanto mi attira.” Già da piccolo per lui “Era il miglior divertimento / saltellare sugli scogli… / dominare il mare dall’alto”. E in quel gioco forse c’era già il presagio della sua vocazione: “Gioia profonda / l’incontro con l’ignoto / chiuso / nell’infinito azzurro del mare”. In quel che confida di prediligere della natura sembra esserci già in germe la sua chiamata: suscitare la redenzione: “Cerco l’aria fresca del mattino / la luce fioca del crepuscolo / oltre l’albero di pino, / e il profumo dell’olivo, / nella natura ricca risvegliata”. Don Alessandro Buccellato è ligure, precisamente di Genova: “Nella terra che amo mi sono fermato / per contemplare, / riempire gli occhi di colori”. Ama la sua terra ama il mare ed ama il bosco, la cui predilezione è proprio degli spiriti contemplativi: “Il bosco…/ Prati e foglie / accompagnano i miei dolci silenzi”.

La fede, si sa, è una fede incarnata, e lo è tanto più per un sacerdote. E perciò non può mancare nella sua poesia l’elemento umano, che non è mai elemento a sé, come avulso dal contesto della fede, ma ne è parte integrante. Appunto perché una fede disincarnata non è fede. Il nostro poeta conosce bene il mondo, tanto più come sacerdote, attraverso il sacramento della Confessione. Conosce del mondo la condizione in cui versa oggi e perciò consiglia: “Non provare a contemplare il mondo, / ora che è distrutto e illeggibile. /…/ Ti apparirà capovolto. / sordo e sfigurato. / Non è più il tuo mondo, né il mio”. E “Cuore perduto è quello di chi non vede / perché nuvole oscurano l’anima / quando il mondo interiore / è inzuppato di tenebra oscura”. Però egli ha una risorsa: “Canto una storia al tuo cuore assetato / perché sia pieno di propositi buoni / traboccante di intense luci interiori…/ Ho per te una storia che finisce bene”. Questo forse il Signore ha detto a lui , ma lui lo ripete ad ogni uomo, che è nel dubbio e nell’errore. Il poeta ha un sogno: “Sogno l’uomo buono, pacifico, capace di amare.” E spera che tutti siano come amici tra cui si odano “parole come musica / cuori uniti. / Uniti in Te, / in Te sempre presente, / in Te amore ardente, / in Te con Maria, / dolcissima Madre Mia”.

La ricerca di Dio ha il suo sbocco con la morte; solo allora Lo si potrà vedere in pienezza. “ È il viaggio del cuore che ritrova riposo, / cammino dell’anima che si ristora finalmente / e trova casa”. “Ben fatto e ben compiuto, / ti si dirà, / allora camminerai a testa alta, quando / bagliori ti accompagneranno e la luce ti farà sua”.

Il libro è dedicato alla sorella scomparsa. “A te, sorella, mia, / che vivi nel cuore/ nel mio come in quello di Dio / …A te, che mi hai insegnato a non contare il tempo / a bere il momento / di questo profondo incontro.” E innalza un inno di ringraziamento a Dio per la sorella che gli ha fatto vivere. “Io canto, / con le parole, / un grande inno di lode: / l’esperienza della tua e della mia vita / in Dio infinita!”.

Maria Elena Mignosi Picone

 


Alessandro Buccellato nasce a Genova il 21 maggio del 1966. Entra nel seminario diocesano, a Genova, nell’ottobre del 1978. Si laurea in Teologia presso la Facoltà Teologica del Seminario di Genova nel 1991. Nel maggio 1992 viene ordinato sacerdote. Consegue la Licenza in Teologia Spirituale presso l’Istituto Teresianium in Roma nel 2000. Attualmente è parroco presso il Santuario della Natività di Maria Santissima a Genova. Ha pubblicato il libro di saggistica religiosa I colori dell’anima (2009) e la silloge poetica Amore e verità (2014).


Don Alessandro Buccellato, Chiamati a Dio, pref. Enzo Concardi, Guido Miano Editore, Milano 2021, pp. 80, isbn 978-88-31497-33-6, mianoposta@gmail.com.

 

 

MARCO DEI FERRARI: "CAPRICCI DI MAGGIO PISANO"

CAPRICCI DI MAGGIO PISANO

Marco dei Ferrari,
collaboratore di Lèucade






Sole di rabbia insabbi

sibilo di luce sforacchi

tardi t'accorgi maggio sfilarsi

inquieto capriccio di giostre svettanti

nuvoli sereno sventoso annuvoli

anima d'Arno strascicchi

per mare dubbioso t'inceppi

bivacchi da bersi rannubi

chiose spilucchi d'antichi guerrieri

gnomiche storie che notti sparpaglie

assonnano ignote

involarsi folleggi di Ponte

silenzi visuali che spioggia sbugiarda

tramonti d'inganni serali

maggio bagnato... divelto... bruciato... prescelto...

sfolgori lucciola vana

brunello di sorsi t'indori

rimbalzo d'aromi disgeli.

                                               Marco dei Ferrari

LORENZO SPURIO: "LA RIVISTA EUTERPE..."

La rivista «Euterpe» celebra i primi dieci anni d’attività con un volume-archivio

 

Nell’occasione dei dieci anni di attività della rivista di poesia e critica letteraria «Euterpe» – fondata da Lorenzo Spurio nell’ottobre 2011 con la scelta del nome della poetessa palermitana Monica Fantaci, traendolo da una sua poesia – l’Associazione Euterpe, nata nel 2016 e che ha integrato all’interno delle sue varie attività anche la rivista, ha deciso di dare alle stampe un volume collettivo.

Il volume, in elegante veste grafica, si compone di 264 pagine e si articola in vari percorsi atti a presentare l’universo di questa rivista letteraria – esclusivamente aperiodica, digitale e gratuita – che è giunta a celebrare i primi dieci anni di presenza nello scenario culturale e che ha visto l’adesione di più di 600 autori, compresi dall’Estero.

Lo stesso Spurio, direttore della rivista, ha inteso curare questo volume che si apre con una preziosa nota critica del poeta partenopeo Antonio Spagnuolo, collaboratore instancabile della rivista con suoi contributi poetici e non solo che così annota nel suo egregio preambolo critico: «Riordinare con certosina pazienza e accorta catalogazione dieci anni di attività editoriale non credo sia lavoro da accettare con leggerezza e senza la dovuta attenzione che una tale revisione richiede. […] [Questo libro è] un vademecum di enorme spessore […] Un lavoro ineccepibile che aspira a una prospettiva ampia, capace di dare un senso alla realtà poetica e a portare luce al simbolo segmentato disincanto delle immagini, del non visibile, del non razionale, condividendo infine in processo creativo di centinaia di autori che con illuminata originalità hanno dato il via a un aperiodico preciso e unitario».

Nell’ampia introduzione di Spurio si tracciano le origini, vale a dire gli incontri fondativi che hanno permesso la costituzione della stessa, come è stata strutturata, gli avvicendamenti e le modifiche, le introduzioni e le novità che man mano, nel corso della sua attività, l’ha vista mutare per giungere sino a quello che è oggi.

In queste pagine si dà testimonianza anche di quella che è stata l’attività di promozione culturale mediante l’organizzazione di reading, presentazioni di libri, convegni e attività editoriale che gravitò attorno alla rivista «Euterpe» nei primi anni dalla sua attività.

Opportune sezioni del libro danno conto della strutturazione della redazione della rivista nel corso del tempo, della molteplicità di rubriche e settori che l’hanno riguardata sino a giungere, in termini più recenti e dopo un riammodernamento del progetto, a una rivista aperta solamente a contributi inediti afferenti ai generi della poesia (compresa quella dialettale e gli aforismi) e alla critica letteraria (con articoli, saggi e recensioni).

Vi è poi l’elencazione dei vari numeri della rivista che sono usciti, ripartiti per periodo di pubblicazione e tematica di riferimento proposta con l’indicazione, quale numero attualmente “in lavorazione” dell’uscita dedicata agli “Amori impossibili tra arte, storia, mito e letteratura”.

Seguono tutti gli editoriali che nel corso della pubblicazione dei trentadue numeri usciti sono stati diffusi (la gran parte a firma dello stesso Spurio, ma altri redatti da Monica Fantaci e Martino Ciano) e l’archivio storico con tutti i riferimenti delle opere pubblicate in base all’ordine alfabetico degli autori. Sulla rivista hanno scritto nomi di primo piano del panorama letterario nostrano tra cui Valerio Magrelli, Fabio Pusterla, Franco Buffoni, Elio Pecora, Lucio Zinna, Guido Zavanone, Dante Maffia, Corrado Calabrò, Paolo Ruffili, Maria Pia Quintavalla, Donatella Bisutti, Anna Santoliquido, solo per citarne alcuni.

A chiudere il volume è un commento riepilogativo del poeta e critico letterario Nazario Pardini – presenza assidua della rivista – che così annota: «Sarebbe veramente lungo ricordare tutte le manifestazioni, i nomi, e gli impegni della rivista. La sua storia. Possiamo comunque dire che con essa si copre, a livello storico, una bella fetta della vita nazionale, con tematiche di estrema attualità. Leggere «Euterpe» significa restare aggiornati, ricevere notizie calde e intricanti per noi che siamo affezionati a tutto ciò che concerne la poesia e la cultura».

Per info/contatti sul volume: rivistaeuterpe@gmail.com

sabato 29 maggio 2021

ENZO CONCARDI LEGGE: "LIRICHE SCELTE" DI SILVIA MARZANO

 


GUIDO MIANO EDITORE

NOVITÀ EDITORIALE

 

È uscito il libro di poesie:

LIRICHE SCELTE di SILVIA MARZANO

con prefazione di Enzo Concardi

 

Pubblicato il libro “Liriche scelte” di Silvia Marzano, con prefazione di Enzo Concardi, nella prestigiosa collana “Alcyone 2000”, Guido Miano Editore, Milano 2021.

 

Troviamo in questa pubblicazione antologica le liriche piú significative, emblematiche e paradigmatiche della produzione letteraria di Silvia Marzano, un’autrice laureata in Filosofia teoretica con tesi su “Verità e comunicazione in Karl Jaspers”. È stata docente di Ermeneutica filosofica all’Università di Torino. Ha al suo attivo una decina di pubblicazioni di carattere filosofico. Nonostante tale solida e conclamata formazione nel campo speculativo, la sua poetica risente in minima parte dell’influenza del pensiero nella costruzione delle strutture e dei contenuti lirici, anche se - occorre dire - riposte in diverse immagini si celano visioni precise del mondo e del rapporto con la natura. La provenienza dell’ispirazione si affida dunque maggiormente alle componenti intuitive, irrazionali, misteriche, emotive e sentimentali, quasi come un recupero di certe modalità pascoliane del fare poesia, depurate dal pianto interiore e con un linguaggio piú vicino all’ermetismo.

Questi sono modelli di riferimento culturali che suggerisce il critico, tuttavia la poetessa ha senz’altro raggiunto uno stile proprio, personale, molto levigato e trasparente, che non utilizza la metamorfosi dei concetti filosofici sulla pagina lirica, ma tende a creare immagini suggestive, accostamenti sinestetici, oggettualità e fantasie, inserendo con molta levità bagliori di significati. Per non restare nel vago e dare un nome alle cose, è utile entrare direttamente nei testi per mostrare al lettore la sostanza poetica dei messaggi che potrebbero apparire sfuggenti.

In ordine cronologico ecco che incontriamo i versi di Anemoni bianchi (2001), già di per sé un titolo-immagine di purezza e candore. In Quasi una conchiglia appaiono metafore esistenziali. L’origine della vita dal mare e il suo arcano mi pare siano qui echeggiati con tocchi di rara eleganza: «…La vita non ha lasciato che un enigma, / in un guscio vuoto. / O forse riapparirà la via del mare / e sarà tutto un sogno». Poi c’è la scoperta della luce con il paragone fra anemoni bianchi e  occhi d’un bimbo, altri sinonimi di primordiale verginità, a cui segue la meraviglia (atteggiamento del “fanciullino”) per la cognizione del mondo, seguendo una traccia fino all’alba (Agili, sottili, cammineremo). Avviene quindi un’immersione panica nella natura (sensitiva) frutto di un forte desiderio di simbiosi tra l’umano e il naturale, riscontrabile anche nella ricerca del particolare («i muschi / nei pendii lungo le rotaie»;  «foglie secche accese di luce»; «alberi chini»), nella tensione del silenzio verso l’infinito: «…Anch’io non piú parola / ma fusa in un concerto eterno / con le stagioni del tempo» (Forse soltanto), ovvero in un tempo senza tempo.

E segnalo ancora due liriche - Perle di vetro, Come rugiada all’alba - in cui il lavoro sulla parola si traduce in sonorità cristalline o morbide come sussurri o ricche di calore e colore; in cui l’anafora cavalca mazzi d’immagini provenienti da mondi di fiaba e di sogno per augurare a te, a noi il sorriso dell’ineffabile: qui si fondono i messaggi propri della contemplazione, della spiritualità, dell’anima profonda.

Da Arcani di-segni (2007) traggo alcune liriche rappresentative delle tematiche trattate. In Elegia  abbiamo la prova che anche la realtà della morte viene tratteggiata con quella insostenibile leggerezza dell’essere che è tipica della poetessa: «Viene la morte / viene / a piccoli passi avanza. / La sento. A piccoli passi / cammino / verso il Padre...». Eternità dell’anima, dunque, in una visione di fede.  In Casa paterna bastano pochi versi per ricostruire il mondo degli affetti familiari e della memoria d’infanzia, dimensioni indispensabili per vivere oggi senza rimpianti: sulle orme tracciate dal padre evoca i ricordi attraverso  le voci d’allora, i muri, i cortili, i ciliegi. L’eterogeneità della raccolta viene confermata da Tremule stelle, in cui il motivo di fondo è la meraviglia davanti al cosmo che la scienza, nelle sue indagini oggettive, non può trasmettere come invece riesce al cuore. E Silenzi mi riporta ad un’affermazione di Montale: «Io sono un amico dell’invisibile», dicendo che tale è l’essenza della poesia. E l’invisibile qui è protagonista: «…Forse / dietro il silenzio / delle cose / c’è un altro silenzio. /… /… imprevisto / inudibile, / indicibile. / … Un grido o una preghiera, / una voce, / il sospiro del vento».

Segue la silloge Poesie per la mamma (2013). Il tenero sentimento materno si è trasformato nel dolce affetto filiale, che in queste liriche traspare da ogni verso, nel ricordo di chi ha originato la vita terrena della poetessa, che cosí mantiene viva la memoria della madre, anzi talvolta ella sembra ancora in vita nel dialogo con la figlia. L’immagine-simbolo della leggerezza è qui rappresentata dalla “nuvola” che ricorre piú volte, testimonianza del suo modo di interpretare e vivere anche gli eventi piú forti dell’esistenza: «La mia mamma vedrà ancora / queste nuvole /…/ e mi chiamerà / per nome…» (La mia mamma vedrà ancora); «Non dirò piú di fiori, di nuvole / e di silenziose lune. /…/ e un sorriso di madre / sarà tutto» (Non dirò piú di fiori, di nuvole); «Mi sento leggera come una nuvola, / una piccola bianca nuvola /…/ perché ho sognato la mamma / semplice e dolce ...» (Come una nuvola); «Nubi leggere / come angeli in volo...» (Memoria).  Dopo il distacco e la sofferenza, torna il sereno e la poetessa eleva un canto-preghiera all’Altissimo, ovvero Benedici il Signore, anima mia.

Da Anemoni bianchi e altro (2015) sono pubblicati in quest’opera soltanto due componimenti che si distaccano dallo stile e dai motivi lirici precedenti: Concerto per la caduta del muro di Berlino, E fu sera e fu mattina. Nella prima poesia s’immagina l’esecuzione di un concerto per celebrare l’evento storico che avrebbe dovuto portare ad un mondo piú unito; nella seconda si riporta la dialettica sull’esistenza di Dio fra Ivan ed Alioscia Karamazov: tuttavia il peso degli argomenti porta ad esiti lirici che non sono della Marzano, lasciando per strada quella leggerezza, freschezza, vocazione cristallina fin qui visitata, ma che, per sua e nostra fortuna, ritornano nell’ultima silloge dell’antologia: Ad ogni ora del 2019. Momenti che sono perle liriche: un ciottolo sulla spiaggia del mare, la montagna appena imbiancata verso l’alpeggio di Monfol sulle Alpi piemontesi, la ritornante bellezza dell’Universo, il gesto di bontà verso un  mendicante, il ricordo di illusioni e disillusioni amorose, la vita e la poesia come sogno; attimi, epifanie, risvegli, anemos, trasalimenti, esodi e passaggi.

Enzo Concardi

 

 

Silvia Marzano si è laureata in filosofia teoretica nel 1968 con una tesi su Verità e comunicazione in Karl Jaspers. È stata per molti anni docente di Ermeneutica filosofica presso l’Università di Torino. I suoi interessi riguardano l’esistenza, la cifra, la metafora (Jaspers, Ricoeur, corso su La metafora viva), il limite, l’alterità (corsi su Derrida, La scrittura e la differenza, e su Lévinas) e in genere la discussione filosofica sul sublime di Kant e sul rapporto fra la mistica, intesa criticamente, e la parola, anche come parola poetica. Ha pubblicato i libri di saggistica filosofica: Aspetti kantiani del pensiero di Jaspers, Mursia Editore, 1974;  Jaspers, Lévinas e il pensiero della differenza. Confronti con Derrida, Vattimo, Lyotard, Zamorani Editore, 1999; L’eredita di Kant e la linea ebraica, raccolta di saggi (1979-2010), Mimesis Edizioni, 2014. Altri saggi sono pubblicati in vari volumi della collana Annuario filosofico di Mursia Editore; tra i piú recenti: Lévinas in dialogo con Jaspers, Kant e Nietzsche (2015); Verità e molteplicità in Luigi Pareyson e in Karl Jaspers (2018); Esperienza religiosa e filosofia in Luigi Pareyson. Confronti jaspersiani (2019); Jaspers e Novalis (2020). Silvia Marzano ha pubblicato le raccolte di poesie: Anemoni bianchi, Genesi Editrice, 2001; Arcani di-segni, ivi, 2007; Poesie per la mamma, ivi, 2013; Anemoni bianchi e altro (antologia di poesie), ivi, 2015; Ad ogni ora, ivi, 2019. La sua produzione poetica è recensita in varie riviste di cultura tra cui “Vernice” e “Le Muse” e in numerose antologie letterarie.  Frequenta da alcuni anni il gruppo di poesia “Tempo di parole” presso il Circolo dei lettori di Torino.

 

Silvia Marzano, Liriche scelte, pref. Enzo Concardi, Guido Miano Editore, Milano 2021, pp. 80, isbn 978-88-31497-50-3, mianoposta@gmail.com.

 

 

 

 

 

 

 

giovedì 27 maggio 2021

MARISA COSSU LEGGE: "DAGLI SCAFFALI DELLA BIBLIOTECA"


Marisa Cossu legge

DAGLI SCAFFALI DELLA BIBLIOTECA

di Nazario Pardini

 

Anche in questo volume, come in tutta la sua opera, Nazario Pardini si apre ai “ricordi” che segnano l’esistenza, per i dintorni della vita, della solitudine, dell’amore e della conoscenza, fino al confronto con Thanatos. Anche l’approdo su Lèucade non assume un carattere definitivo: da qui si riparte verso i luoghi, i tempi, i palpiti, i dintorni dell’esperienza vitale, attraverso un faticoso viaggio per laghi, fiumi, terre e mari, in un amorevole afflato verso la Natura. Quasi un viatico memoriale in un frattempo costellato da evocazioni sempre graffianti, cariche di pathos. Tornano i temi cari al Poeta, ad arare il vasto campo delle cose perdute, degli affetti, del pensiero intorno all’uomo e alle antinomie che ne segnano la presenza.  I luoghi, il tempo, l’amore, sono il corpo della scrittura pardiniana: in un’esposizione intensamente filosofica e magicamente lirica Il Poeta anima il mondo del vissuto di una suggestiva compenetrazione tra questi elementi fondamentali; li colma di atmosfere, suoni, immagini, colori, passione per la vita e la Natura mediante un processo di riappropriazione e restituzione della memoria. In questa interiore e umanistica esperienza il Nostro libera quel dio-dentro che ispira i mirabili versi e che, con voce antica, s’innesta in una oggettiva e attuale visione del mondo. Il lettore è preso dall’entusiasmo della lettura, vi scopre affinità con il proprio sentire, riceve la motivazione al godimento degli strumenti stilistici e dei contenuti svolti con irruente passione nel verso libero o negli endecasillabi e settenari. In continuità con le precedenti opere poetiche, spiccano i contrasti di cui il Pardini avverte l’ineluttabile e sofferta presenza, ma anche la sperata ricomposizione nell’anima poetica, il sesto senso.  Non si può certo dire che la poetica del Pardini sia ancorata a temi o a schemi del passato, anzi essa è espressione di una solida fede nella tradizione culturale alla luce di un’intensa carica di sensazioni, emozioni e riflessioni, che in una assoluta e magica atemporalità, si fa mezzo interpretativo dei fenomeni cari ad ogni essere umano. Così il Pardini fa sentire tutto il potere evocativo delle forme della parlata toscana, quella che sempre gli esplode dentro nei momenti topici della sua poesia. Il nuovo libro di Nazario Pardini consta di tre sezioni: “Ricordi che pungono”, “Dagli scaffali della biblioteca”, da cui origina il titolo, “Dieci poesie d’amore”. “Ricordi che pungono” sono quelli evocati dalle stanze fredde di una casa tra i campi, da una finestra che apre ad orizzonti stellati e incornicia la figura paterna intenta all’attesa del figlio, da un pioppo solitario; un focolare presso cui il giovane studente ripassa le lezioni, prossimo al trasferimento in città per proseguire gli studi: non una casa vuota e fredda come potrebbe accadere fuori da quei ricordi, ma un focolare, un luogo sacro carico di affetti famigliari, di nostalgia, di atmosfere percepibili con calore e intensità d’amore. Intorno e dentro alla casa pungono le immagini del padre, della madre, del fratello dei nipoti e dello zio che ebbe cura di lui come di un figlio. Anche gli oggetti respirano, interagiscono ed emozionano; entrano nel rapporto indissolubile con le persone, i luoghi, le atmosfere:

“… da una porta

se ne vanno pensieri alla ricerca

di nuove abitazioni. Resta vuota;

pochi mobili,

e un calendario su cui sono segnate

date di compleanni.”

(La mia casa, pag.22)

 

E ancora:

“Un giradischi sopra il comodino,

mio fratello a studiare,

mio padre di ritorno dalla terra,

mia madre sul fornello a spolverare

memorie di una vita;”

(“Ricordi che pungono, pag. 23)

 

Con chiaro verismo di linguaggio il Poeta entra nelle cose e ne permette la visione immediata, dà un’anima a ciò che potrebbe apparire immobile o disperso in nebbie indissolubili. Forse quei ricordi, i dolori, le ansie giovanili, tornano a far male. La stanchezza frappone un limite tra ciò che troppo fortemente punge ancora e il bisogno di quiete, di riposo. La necessità da dimenticare, soffrire di meno per le trame della vita che ha intessuto alle gioie e ai dolori, le memorie cui non si ha più la forza di rendere conto:

“Non ti ho portato, padre, fra le mura

che ti videro chiuso in sanatorio

perché non ho voluto rinnovare

quel dolore che per anni mi ha incastrato.

Ora la penna è stanca, non ha più

l’inchiostro sufficiente per descrivere

il triste stato di una solitudine …”

(“Miei cari”, pag.20)


Si affollano i ricordi della nipote Carla, molto amata, coccolata e ninnata, che ora si fa vedere poco perché avrà di certo la sua vita; con rinnovata gioia il Poeta riannoda i fili della sua grande e meravigliosa famiglia nei momenti di condivisione quotidiana e nelle festose riunioni. Una vena di nostalgia pervade ogni ricordo ma, come nuova linfa, affiora il pensiero dei nipoti di cui fu tato:

“Quando incontro il mio Sandro,

mi sembra di vedere mio fratello

che, drizzandomi lo sguardo negli occhi

mi parla

come se fosse lui, dentro di me,

ad esprimere il suo amore per il figlio.”

(A mio nipote Sandro, Pag. 32)

 

Il nostro “bibliotecario”, apre ora le porte della biblioteca, ci permette di accostarci ai Grandi della cui voce si è nutrito nei lunghi anni di studio, d’insegnamento e d’amore per la lettura: l’ingresso è ampio e maestoso, non vi sono titoli; le parole sono già state scritte, sono lì, allineate in teche nell’immobilità apparente del tempo storico - letterario. Con il realismo del presente, il Nostro è ancora in quei “dintorni”:

“Col libro in mano vedo

che oggi il cielo è sereno. Nel campo

le donne raccolgono gli spinaci,

mentre sul pero il merlo fischia allegro

la bella serenata alla natura”.

(I, pag.36)

 

E il Nostro si ritrova nel paese delle meraviglie tra i poeti e gli scrittori amati, studiati, e tra quelli inevitabilmente meno consultati. Il poeta è ancora nel presente con i libri sul prato. Ci sono Catullo, Manzoni e Leopardi. Come risuonano i versi, le parole, la singolare intonazione delle diverse declamazioni, la melodia ineguagliabile che da Lesbia, trascorre per Lucia fino a giungere a Silvia e all’“Infinito”! E sembra vero e improvviso lo scoppio del temporale che costringe tutti al ritiro:

“Si scatena il temporale.

Grandine e pioggia sopra i nostri capi.

Si dissolvono nel nulla

gli scrittori e resto solo”.

(III, pag.37)

 

 La Natura appare nel suo assetto meccanicistico, perde il volto buono, si allontana, “preoccupata di gestire/un insieme di ingranaggi che ti impigliano/nella rete fottuta del destino”. Eppure in tutta la sua opera il Pardini vive e lavora immerso nella Natura, uno dei temi più cari. Questo il mondo del Pardini, quello più segreto, il nutrimento della mente e del sentire nell’arco dell’esistenza, nei dintorni della solitudine, quando è più forte la presenza della poesia e delle voci che l’alimentano. Sia nella vita, sia nella complessa produzione letteraria, il Nostro non è un mero “bibliotecario”, un dotto letterato, un filosofo, ma il risultato personale e unico di una versatile, non comune, passione e sapienza umanistica. In lui è la grazia della poesia. Si accosta ai libri gelosamente custoditi. Baudelaire non vuol più essere disturbato. È evidente che il Nostro abbia sempre svolto “molte e prolungate conversazioni” con il poeta de “I fiori del male”; egli ha voglia di dedicarsi ad un’altra opera ed ora, ritiratosi nel suo “spleen” non prova una particolare disposizione d’anima verso il “bibliotecario”. Ed ecco i piccoli screzi dei nostri Padri: Platone non si presta ad essere secondo alla lettura di Baudelaire che sembra essere preferito, allontana subito il Poeta: noi tutti sappiamo che il Filosofo, considerava pessima la poesia, “uno dei doni del delirio” nel “Fedro”, fino a criticare Omero nel terzo libro di “Repubblica”. Naturalmente la condanna della Poesia va letta nella cornice di un discorso estetico nato da quello intorno alla politica. Anche Dante, assidua frequentazione del Nostro, lo allontana. Scrive il Pardini:

 Ma questa non è la mia biblioteca?

Perché mai vi svegliate,

rifiutandomi di entrare

nelle pagine dei testi

che a suo tempo acquistai

bramoso di cultura?”

(VIII, pag.42)

 

Da troppo tempo il Poeta non si immerge in quelle pagine! E quante “frecciatine” si scambiano ora quei Grandi, stanchi dell’isolamento nel silenzio degli scaffali, rancorosi per la prolungata solitudine. Più che voci alimentate dal subconscio letterario, i Maestri del passato rivendicano il sortilegio di essere vivi e di poter versare ancora nel canto squarci significativi della propria vita. Sono passioni e amori veri, lacrime, sogni, giudizi, considerazioni: nel sottofondo, una colonna sonora sospirosa, distaccata, dove trova posto il Nostro per rimemorare i pensieri e i fatti della giovinezza; sono immersioni totalizzanti nel cuore delle opere predilette e non a caso citate spesso con suggestivi stralci. Catullo canta ancora l’amore per Lesbia, deriso dai compagni che ricordano i tradimenti della donna. Ed ecco presentarsi da uno scaffale impolverato un quaderno i cui fogli stropicciati attendono di essere riempiti di poesia per inserirsi tra quei libri con i versi di una fiaba che da tanto tempo ambisce essere scritta. Il Pardini vi stende una narrazione dolce e nostalgica che tratteggia la vita e le relazioni all’interno di una famiglia, la sua, certamente, per l’affetto con cui ne parla. La fiaba contiene gioie e dolori, scelte faticose, personaggi legati da amore perenne, ma costretti a separarsi, vuoi dalla morte, vuoi dalla vita. Una suggestiva metafora della propria esperienza, dalla quale emergono ricordi sempre attivi sul piano emotivo e creativo:

“Ed io presi la mano e lo sfogliai,

ed iniziai così la bella fiaba

di un re e una regina che non vollero

sedersi sopra il trono, ma pazienti

si dettero al lavoro per i campi”.

(X, pag.46)

 

Il Poeta si colloca finalmente tra i libri che tanto ha amato, con quella fiaba che inorgoglisce il vecchio quaderno e ricava per sé uno spazio ideale in cui inquadrare la propria poetica tra D’Annunzio, Montale, Ungaretti e Saba; ma il viaggio è carico di presenze e l’umiltà del Nostro più volte lo costringe a ritirarsi da alcuni amatissimi scaffali. Ma è D’Annunzio che colpisce per quel suo gesto di accompagnare il canto con il movimento della mano, immerso nella musica. E ancora Nazario Pardini evoca la nostalgia di Saba per la sua Trieste e il dolore per la perdita della sua Lina: “Sono chiuso qui dentro e vorrei tanto/tornare al porto al grido degli uccelli/assiepati sopra i pescherecci”. Poi ancora, l’ansia esistenziale di Pavese, l’inquietitudine a vivere la vita che ancora rabbuia la stanza di Torino in cui compì il gesto estremo, gli aperti ai venti e all’onde liguri cimiteri dove Cardarelli custodisce in eterno il proprio canto. Il chiacchiericcio dei poeti deve però arrendersi alla forza di una voce sgraziata che eleva dalle pagine tristi della guerra versi incisivi e indimenticabili da “Allegria” e dal “Sentimento del tempo”, i versi immortali alla Madre: è Ungaretti. Intanto Francesco Pastonchi esce con garbo dalle pagine fresche del suo Endecasillabi e chiede al poeta di recarsi sulla tomba della madre per leggerle i versi de “La mia fiaba”. È un momento di grande commozione che si manifesta negli occhi umidi di pianto. Si concretizzano altri poeti: Bertolucci e Giuseppina Cosco, stanchi di restare tra pagine ingiallite, Giorgio Caproni con il ricordo di Livorno, della madre e della donna amata; si odono i sospiri di Sibilla Aleramo e Dino Campana: “Sento che sorrido, intenerita, c’è pudore e c’è grazia puerile in questo che mi investe, sola, tremore improvviso … (Sibilla Aleramo)”. È questo uno dei tanti brani citati da Nazario Pardini a testimonianza dell’assorbimento del poeta nel clima delle emozioni che vengono svelate e condivise. Ma non si trova qui soltanto tristezza, rimpianto e vite vissute tra pene e dolori. Vi sono anche i quaranta sonetti romaneschi scritti da Carlo Alberto Salustri, il grande Trilussa, con i versi che fanno sorridere tutti i poeti della biblioteca. “Dalle fronde dei salici”, lì appeso con la sua lira, Quasimodo canta la guerra, la morte di Milano violentata dalla barbarie, la solitudine esistenziale dell’uomo. Dopo aver incontrato Sergio Solmi, il Nostro esce dalla biblioteca, contento del suo turno, per leggere “Dieci poesie d’amore”. Dalla porta socchiusa viene quel caldo suono ispiratore della dolce lettura:

“Mi è passato d’accanto il tuo sorriso

appoggiato alla spalla di un torrente

che lieve scorreva verso il mare”.

(Con la rete da pèsca, pag.93)

 

È un passaggio emozionante della narrazione in cui il Poeta si pone come ascoltatore e voce dei Grandi che lo hanno preceduto, e l’amore assume un ruolo centrale qui come nella poetica del Pardini.  Tratto riconoscibile e originale il sovrapporsi in lievi sfumature visive e sonore dell’insieme dei sentimenti immersi nel paesaggio e mossi dal senso della giovanile visione amorosa. L’amore è necessaria condizione umana, bellezza irripetibile, non soltanto un ricordo ma senso di tenerezza, passione, forza vitale, tempo di facili entusiasmi e di facili illusioni. Si nutre di spiritualità e carnale realismo, la fanciulla amata nello splendore della giovinezza sulla riva del mare, del lago o nella musica pucciniana, in trame di luce. In un contesto diverso, la stessa donna appare priva dell’aura che tanti sogni aveva alimentato: il tempo le ha rubato la grazia vissuta e ora appare stanca e sciupata, alle prese con i quotidiani problemi della vita. La caducità delle illusioni fa pensare a quei ricordi pungenti che ancora trafiggono l’anima del Pardini:

“Ma mi è sfuggita di mano e fra le braccia

mi son trovato il vuoto. La memoria,

pietosa della mia solitudine,

l’ha rimpiazzato

col profumo di pesca delle sue sciolte chiome”.

(Il ricordo di Delia, pag.96)

 

I ritorni sono sempre carichi di passione: le cose, le strade, lo spirito del vissuto sono necessariamente percossi dalla percezione nitida e dolente dei mutamenti personali e generali. Gli stati d’animo volti al futuro, l’allegria e la giovinezza, sono stagioni ormai chiuse. Mentre il poeta parla con Delia, il tempo ha già compiuto il suo giro: il sole si oscura, il mare si agita e ribolle, ogni cosa ha un inizio ed una fine. Che cosa resta? Dove può essersi rifugiata la luce della giovinezza se non nella memoria? È forse nell’azzurrità di uno sguardo tornato per incanto, il segreto che risarcisce la memoria persa, l’amore che si trasforma come il cielo? E dove si è eclissata “l’anima dei giorni miei” ora lontana dal Borgo Stretto, dalle vie familiari, dalle vetrine in cui si rifletteva l’immagine della beata giovinezza! “Ora è tardi, mia carissima Delia”, sembra dire il cielo carico di nubi grigie. Non muore l’amore, la consapevolezza dell’averlo vissuto, conservato nello scrigno dei doni preziosi, averne coltivato l’idea come essenza dell’esistente, idea che necessariamente riguarda un fatto spirituale arricchito da sensazioni mai dimenticate. Amore per il padre, per la vita, amore che giustifica il dolore e la perdita, li rende accettabili nella musica di una canzone che mai finirà e ancora rallegra l’anima del Poeta. Resiste e si rinforza nel Nostro quel desiderio di conoscenza che lo ha guidato sin qui e che continuerà ad ispirare il suo viaggio poetico dentro e fuori di sé. 

Marisa Cossu

 

 

mercoledì 26 maggio 2021

PATRIZIA STEFANELLI E NAZARIO PARDINI: "LA DIMENSIONE UMANA DELL'ESISTERE"



Le poesie di questa silloge sono state scritte in pochi giorni e, a parte la correzione di qualche refuso, non hanno subito alcuna manipolazione per non sciupare l’intento giocoso.

Il genere epistolare adottato, diverso da altre espressioni prosastiche, pur mantenendo un formulario stilistico non improvvisato, ha un procedimento spontaneo, un flusso di coscienza che rispondendo ai versi, volta per volta, resta sì aderente al testo, ma riesce a staccarsene per riflessioni sulla vita vissuta e la contemporaneità. La quotidianità rientra ampiamente nei dettati qui esposti, sostenendo il valore degli affetti e dell’amore; in alcuni passaggi si sfiorano il senso anagogico, satira e ironia con la consapevolezza delle nostre imperfezioni, e della vanità del tutto.

Il registro colloquiale adotta il codice comunicativo adeguato alla comprensione, così come si fa normalmente con un interlocutore, risolvendo e introducendo questioni, domande e risposte, ma mai adattandosi alle aspettative dell’uno o dell’altro. Il viaggio intrapreso in concinnità è diretto alla poetica pardiniana e si concentra, soprattutto, sull’interpretazione dei suoi libri: “Dagli scaffali della biblioteca” (Guido Miano Editore-novembre 2020) e Alla volta di Lèucade (Mauro Baroni Editore – Settembre 1999).

 

 DAL TESTO:

(...)

Nazario, ore 18:00

 

Parlerò della mia malinconia,

di quella che ti acchiappa e non ti molla,

di quella dolce e sana che ti dice

di ragionare a lungo del suo prato,

di quello che ancora regna dentro,

di quando si correva fino al cielo

per arrivare a un bacio che incontrava

stelle lucenti in seno ad un sentire

che cresce a dismisura e non dà pace.

Parlerò della mia malinconia

che si fa strada in mezzo a fiumi e fossi,

di quando si saltavano impazienti

di giungere al capanno di cannucce

che per noi era il regno degli dèi.

Ti parlerò…


 

Patrizia, ore 22:12

Tu dimmi, ascolterò

poiché non ho ricordi malinconici

che siano dolci e sani

se non di pochi sprazzi

in cui la gioia

era cullare mio fratello che

aveva un orecchiuccio un po’ attaccato.

Morì che aveva un anno.

Conservo, ora, la stoffa della culla.

Poi venne Sandro; mi attendeva quando

tornavo a sera tarda dal lavoro

e sorrideva in fondo a quel pulmino

che a casa dall’asilo lo portava.

Il capo biondo e gli occhi come il cielo.

Morì anche lui – ed io pregavo tanto –

che aveva cinque anni.

Non ho malinconie da raccontare.

Memorie di ricordi e sangue amaro:

figlia di istriana profuga e di affanni

figlia venuta a caso, forse amata,

da madre stanca, mai più rassegnata.

Non ho malinconie da raccontare.

Poi del collegio i giorni

passavano con le ics su una schedina.

Io le mettevo in fretta, che fortuna!

Ma mamma non veniva.

Non ho malinconie da raccontare.

I giochi miei? Una bambola: Esmeralda,

distrutta da mio padre. I giorni belli?

Son quelli dei miei figli; e, sai, il più giovane

maestro è di chitarra.

Non ho malinconie da raccontare.

 

 

Nazario, 26 febbraio ore 10:20

 

Io ho quelle di mio padre e mio fratello,

sono scomparsi prima che potessi

dare loro l’ultimo saluto.

Mi porto dietro l’immagine di loro

che mi chiedono il perché di questo addio

ed io non so, non so che cosa dire,

dacché il dolore per averli persi

mi accompagna ogni istante della vita.

Quindi vado spesso sul fiume

o in mezzo ai prati, tra i giganti platani

dove spesso giocavamo a biglie.

Li rivedo con me sorridenti

per avere fallito una misura

ma ci ridevano sopra e mi

prendevano in braccio scanzonati

senza pensieri. La vita scorre via

cara fanciulla, e chi la ferma? Va.

Non sai nemmeno qual è il suo tragitto,

sarebbe bello poterlo anticipare

e scoprire così che la fortuna

non è più un mistero. Ora mi fermo

sennò questo discorso si fa triste

e non voglio che tu per colpa mia

ti senta un groppo in gola. Ma ti voglio dire

che questa vita è tutta una minchiata

non vale proprio arrabbiarsi o stare male

te lo posso giurare dai miei tanti anni

è meglio amare, amare, e poi riamare

fino alla fine dei giorni. Fino a quando

il destino lo vuole.  E se non vuole

fare di testa nostra. Solo l’amore

ci salverà nel mondo, donandoci

quei brividi che più toccano il cielo,

forse da là potremo assistere

alle vicende strane dei mortali.

 

ore 14:09

 

Una volta ti chiesi se potevi

restare con me sulla sponda

di questo fiume. “È tardi” mi dicesti,

non posso perder tempo devo andare

a casa da mia madre che mi aspetta.

Eppure si sarebbe potuto, di sicuro,

vincere il destino, amarci più che mai,

avvinti al tramonto di quel giorno

che pettinava le acque

mentre i dintorni brillavano per noi

che aspettavamo l’ora dell’amore.

Il tardi che dicesti è un’ora che svapora

e che ci ha fatto perdere il futuro,

ma io ti amo, e continuo ad amarti

così come sei. Continuerò ad aspettarti

su quell’angolo di luce quando il sole

si cala nelle acque, e si prepara

al nuovo giorno che ancora non è

primavera. Se verrà, rispondi,

sarai lì questa volta? Io ti sogno

e nel sogno ti aspetto come tu fossi mia.

 

 

Patrizia, ore 18:42

 

È stata una giornata complicata

ma bella. Fino a poco fa la luce

era un’arancia sul far della sera.

Ora scende,

frattanto che ti scrivo,

una nebbia che copre ogni confine.

Quel cuneo rovesciato

mare tra i colli, scompare

e non vedo

che rami di un gran noce ancora spoglio.

La primavera ha già promesso tanto

ma non le passeggiate tra la gente.

Ancora ci secreta questo virus.

C’è sempre un giorno nelle tue poesie

in cui tu aspetti e immagini

che il sogno della notte ti si avveri

quale presagio arcano.

L’amore tu lo canti in ogni nome,

sia Delia/Ermione, sotto pioggia o sole,

con sfumature tue crepuscolari,

nelle preghiere di Saba un nostalgico:

“Fa’ che questa mia canzone vada in giro

fino a Trieste a ritrovare i luoghi

dove abitai con mia moglie Lina.” (XII).

 L’amore è la tua cifra:

la dimensione umana dell’esistere.

 

 

Patrizia, 27 febbraio ore 8:53

 

Non chiedo mondi altri

non ne ho voglia. Resto nel nucleo

di questa commedia;

ma a leggerti vengono i dubbi

che Amleto girò

per via di quel mero problema

sull’essere o no.

Ora mi arrovello:

mi pare assai strano che un morto

a un vivo richieda il favore

di andare alla tomba di un morto

perché dai suoi versi riascolti

il bene di chi più non è;

ma se invece è

e il morto alla tomba con lui,

che vale la voce di un vivo?

È un rebus eppure già chiaro

che un morto con morto discuta

per certe credenze anche allegre:

ricordi Totò e la livella?

Ma un vivo che parli per morti

non s’era sentito.

Ognuno ipotetico che

si scriva in volumi

desidera solo una cosa:

che resti il pensiero suo in voga

e non venga a dire

di mettere nero su bianco

soltanto per sé;

ma tu sei sincero:

"Mi piacerebbe tanto che i miei versi

trovassero del posto in biblioteca,

forse sarà un sogno o una pazzia

ma scrivere si può, non porta male..."( XXVI).

 

 

Nazario, ore 9:50

 

“…L’amore è la tua cifra:

la dimensione umana dell’esistere”.

L’ho cantato senza risparmiarmi,

nei giorni nebulosi, in quelli chiari

quando il sole batte sulle spiagge,

quando si sente il palpito dell’onda

o quando ci si abbraccia infreddoliti

al caminetto che risplende in luce.

L’ho cantato di giorno, nella notte,

quando due passerotti si accostano felici

o quando due piccioni si accarezzano

preparandosi agli effusi dell’amore.

Non c’è cosa più bella, e sinceramente

bisognerebbe che il mondo lo capisse,

ne facesse la bandiera della vita,

da sventolare sempre ai quattro venti.

Solo l’amore può salvare il mondo,

solo l’amore può tirarci fuori

dalla nebbia infeconda che sommerge

il nostro stare in questo spazio breve.

Amiamoci, facciamolo sovente,

e tradiamo il destino col nostro giovanile

impeto catulliano fino a che

la morte lo permette. Siamo vivi.

ore 10:13

 

Ti voglio raccontare la mia storia:

“Un giorno una fanciulla mi spingeva

a seguirla nel letto dell’alcova.

Io non volevo, perché era giovane

e soprattutto perché fidanzato

con quella che poi sarebbe divenuta

la compagna di sempre. Quel volto

l’ho sempre dentro e me lo porto

da una vita con me in ogni dove.

Che cosa ho fatto mai della mia giovinezza,

che cosa ho perso. Quello un amore vero,

una ragazza, bimba, che vedeva

solamente il mio volto. Quasi mi pregava

di andare in amore con lei. Il rispetto

che io portai a quella ragazzina

è sempre qui che mi tormenta.

L’amore è amore e non si può scherzare

coi nostri sentimenti. Non si può

se non vuoi soffrirne per la vita.

Ed io ne soffro. Quasi piangerei

per quello che rimane di un amore.

 

ore 11:00

 

La cenere calda dei falò

 

“Le faville volarono nel cielo

di una notte d'estate.

Si spensero i falò col primo giorno.

Ceneri calde sulla fredda rena,

incise di romanze e di sorrisi,

furono sparse dalla tramontana”.

Questo è il simbolo della vita,

i falò della notte si spengono al mattino

e resta solamente un po’ di cenere

a ricordarti le feste della sera;

i giochi dell’estate che veloce

passa e lascia solo ricordi

a pungerti l’animo come spine.

 

 

Patrizia, ore 11:31

 

Ebbene sia:

la vita è questa cenere

che resta dopo il fuoco.

L'amore, è lui che scherza,

miscuglio che da chimica si apprende.

In noi chi parla è il cuore dei poeti,

ma il corpo con la mente fa tutt'uno.

Per quanto dice il tuo amico del lupo:

"... ultimamente

trattando della fiaba

di Cappuccetto Rosso la ricerca

è stata indirizzata

su una nuova prospettica visione:

considerare il tutto

dalla parte del lupo."(XXIII).

Mai dalla parte sua

poiché quel lupo della fiaba cruda

altri non è che un fottuto pedofilo

voglioso di una carne

tanto ingenua da cedere a un consiglio.

Facesti bene, credo,

e adesso tracci il segno dell'amore,

amore vero, acceso a un nuovo fuoco.

Niente finisce, si trasforma solo

e quando il viaggio approda

si parte con la testa a un nuovo molo

con un bagaglio fatto degli errori,

di buoni semi e un goccio di Brunello.

 

 

Nazario ore 12:55

Veramente d’accordo.

Ma l’amore ti prende e si impossessa

di ogni tuo sentire. E non ti credere

di potere gestire con ragione

quello che il dentro detta. Siamo schiavi

e schiavi si rimane. Si matura

e senz’altro la storia personale

contribuisce non poco a farci meditare

su ciò che siamo. Bisogna farne conto

e poi tirare le somme. Quella cenere

che al mattino rimane è sempre tiepida

e può senz’altro farti memorare

che la vita ha i suoi pecchi e non bisogna

tradirla con la furia o con l’impulso

di una scelta di cui poi puoi pentirti.

Beviamoci un goccetto, come dici,

e lasciamo tutto al tempo. Senza dubbio

sistemerà le cose. E così sia…


ore 14:02

Non devi fraintendermi la bimba

di cui ti ho parlato aveva diciott’anni

ed io ne avevo otto più di lei.

Fu la stagione delle mele, delle fughe,

e ne facemmo una solitaria,

che ci vide

perdere gli sguardi all’orizzonte

senza fare l’amore,

ma guardandoci negli occhi, come  bimbi

e gustando la natura  che attorno sorvegliava

i nostri palpiti d’amore. Puri eravamo,

e puri  si girava sulla spiaggia illuminata

dai raggi della luna. Più l’ho vista

quella ragazza che m’illuminò

e forse è stato meglio non bruciare

l’immagine di un sogno. Il sogno di una vita.

 

ore 14:40

 

Stasera sono triste. E la tristezza

che mi assedia è di già una poesia:

“Volevamo cucire la vita

a nostra immagine,

a come la immaginammo. Purtroppo,

amore mio, non detti

quello che ti promisi;

il tempo è fuggito rapido e mi ha rapito

tutto ciò che avevo addosso. Ma stai certa

che prima della luna torneranno i sentimenti

che avevo in animo. Ti prometto

che il resto della vita sarà tuo

e non ci saranno nubi a deviare

quello che io sento per i tuoi occhi.

Già la luna è scesa in mare.

Risplendono le stelle. E sono tante.

Ricordati la poesia che scrivemmo:

“Scoprimmo il cielo il mare ed il sorriso.

Dicemmo al vento: Corri a perdifiato,

non ti arrestare, corri a spettinare

le chiome delle giovani fanciulle

che giocano col tempo. Vorrei tanto

essere a te daccanto per sfiorarti

le gote col respiro; vorrei tanto

correre lontano alla fine del mondo

e stringere la  mano

a te che diffondesti

banchi di solitudine

su questo stretto piano.”

 

ore 14:50

 

Verrà la sera e ci rapirà

con tutto il bagaglio memoriale.

Forse ci lascerà l'amore, il sentimento

che va oltre il tempo, oltre la vita,

con l'intenzione di tornare al cielo.


E venne sera

La luce crepitante dell’estate

invadeva la piana, delle reste

il giallo profumato d’erba stanca.

Sortivano i rumori dalle scaglie

di sterpaglie corrose. Sui prunai

galleggiavano i profumi già disposti

a cedersi alla terra. Anche la vista

toccava infastidita quelle gregne

che pregavano il sole

di cadere più presto oltre le siepi.

C’era bisogno di umido, di guazza.

E venne sera.

 

 

Patrizia ore 16:53

 

Maestro mio,

non potrei mai fraintenderti,

il tuo animo è puro

e chiari i versi. Ho preso giusto spunto

per dire della fiaba: altro non è

che sottile denuncia

di una piaga

che mai smette nel mondo di marcire.

Così la guerra. Tu ce la riporti,

generoso, nei versi di Quasimodo:

"E come potevamo noi cantare..."

Eh già, come possiamo noi cantare

se è necessario portare su un palmo

il nostro cuore, e magari vederlo

gettare come una vecchia cartaccia

di giornale. L’amore non è mai

razionale ed è bella la tua sera.

Non si appressa alla Nera, ma a promesse.

 

Ore 17:10

 

Eppure, chi ragiona veramente

è proprio quella parte

illogica di noi.

 

 

Nazario ore 17:24

 

“Eppure, chi ragiona veramente

è proprio quella parte

illogica di noi”. È proprio vero

è il cuore che ti chiede di seguire

gli impulsi che la ragione esclude

e che esso s’impunta  di affrontare

con tutta la libertà e la malia

che sono proprio le virtù dell’essere.

 

Ti voglio dedicare una canzone

dove giocarsi il mare è cosa facile

quando si vive indifferentemente

alla vita che scorre senza tregua.

Giocarsi il mare, sì, che è la cosa

più preziosa che esista, il grande mare,

il suo orizzonte, le schiume che assomigliano alla vita,

l’irrequietezza del battito dell’onda,

l’infinito suo estendersi lontano

dove non arriva lo sguardo,

dove non giunge  palpito terreno:

“… Passa dinanzi a me un paesano

che guarda il monte con lo sguardo sperso.

Sembra distratto, fuori dal suo mondo,

o forse un po’ poeta che confonde

la sagoma di un monte cinerino

con la voglia di tornar bambino.

Una voglia che prende anche me stesso,

forse perché tornando ai primi passi

si fa di un gioco una cosa seria:

è il gioco della vita

che se ti lascia tu ti trovi solo

senza saper perché ti sia sfuggita

quella spiaggia su cui

ti sei giocato il mare.”.

Questa è la canzone della vita

che si regge su note musicali

a dirti che la poesia è infinita

come infinito l’animo che detta

accompagnato da una vera orchestra

che suona il canto della tua canzone.

 

 

Patrizia, 28 febbraio ore 8:42

Ripenso alla tua Luna, a quei falò,

amo il Pavese dell’ultima donna:

declinazione estrema

di un solstizio d’estate; ed è il ventuno.

Vedi? Ritorna in me l’indizio strano.

La luna oggi cambia la sua faccia,

sempre cresce e decresce

come fa la fortuna

e pare che risponda sempre uguale.

Non è un segreto ormai

la sua sembianza

eppure un uomo a sera vuol scoprire

quanto del volto mostri oppure taccia.

E passano stagioni

e gonfia l’astro di maree i sogni

dove tu resti in bilico

dormendo il sonno delle fate buone.

Bruciano a notte fonda

tra contadini e falò le illusioni;

ma qui, tra questi versi

che ora ho in mano,

approdi ad uno scoglio

dell’isola di Leuca

dove le spume danzano misteri

e il Mito segue della vita il volo.


Nazario ore 11:02

La mia Lèucade è un’isola fatata

dove mi rifugio in tempi bigi

dove mi raccolgo dentro me

per pensare alla vita, all’amore,

a tutto ciò che sembra e non appare.

Cara fanciulla, vieni con me

sull’isola fatata.

Là siamo fuori dal mondo, da ogni intruso,

siamo fuori dal chiasso della vita,

si può vedere in alto, e anche lontano,

dove occhio umano non arriva.

Ci sono amici gli alberi perenni,

il battito dell’onda, le maree,

le macchie degli abeti, dei pini silvani,

ci sono amici i canti degli uccelli,

il volo dei gabbiani, e i sogni belli

che faremo in eterno. Perché Lèucade 

è l’isola dei sogni, non porrà

impedimenti alla vita. Tutto scorre

e con dolcezza, il tempo passa amico,

senza traccia. Senza lasciare scie.

Spesso io passo il mio tempo sull’isola

a sentire quanto bello sia il fruscio

delle acque sulla  battima. Il canto

degli uccelli nel cielo, sopra il mare

che suona per noi la sua canzone.

 

 

Patrizia, 1 marzo ore 12:59

 

Maestro mio,

perdona il mio ritardo.

È un’isola invitante, questa tua,

in essa si rispetta la Natura;

le si risparmia il velenoso gettito

dei clorofluorocarburi e (fortuna)

c’è il metano a richiudere

il buco dell’ozono.

È questione di chimica,

ma tu dirai di cuore.

Grazie,

verrò. Se puoi, prepara un tè.


 

NAZARIO PARDINI

(dal libro Alla volta di Leucade)

 

Fuga da settembre

E furono le Eumenidi a portarmi

dove non vi è stagione. Ventilava

zefiro eterno l’isola di Lèucade

eternamente dolce nel respiro

di lavanda e di timo. “Dallo scoglio”

mi dissero “Ove siedi ad osservare

gli ampi spazi del mare ricamato

da sciami di gabbiani, si gettavano

gli sfortunati umani per disperdere

reminiscenze estreme. Ed anche Venere

restò meravigliata nel sentirsi

serena dopo il volo. Gli infelici

a Lèucade accorrevano 

dai più lontani luoghi. Preparavano

con offerte ad Apollo e sacrifici

la loro prova. Ed erano sicuri

coll’aiuto del dio di sopravvivere

all’eccelsa caduta. Proprio qui,

dove tu siedi, stette il piede tenero

dell’infelice Saffo che Faone

abbandonò. Nel cielo di quest’isola,

lucido ed armonioso, riscontrava

solo dolore; andava su altre sponde

dove il mare violento tormentava

gli scogli dissestati per rivivere

il suo triste destino. Dalla cima,

sfiorata dalle mani

della dimenticanza, si gettò

in quest’onde fatali. Ed Artemisia

regina della Caria ed altre ancora

raggiunsero la meta, ma scambiando

la vita con la morte.” “Mi sovviene

il mio settembre tanto logorante

nei palpiti di umana inconsistenza,

nei flebili lamenti di esistenza,

nei pallidi scolori di tristezza

di un borbottio leggero di rumori

quasi alla fine. Ma non so se vale

di più restare immoti nella stasi

di un eterno sereno che provare

il dolce senso del dolore umano.”

“Proprio il poeta, diciamo di Nicostrato,

gettandosi dall’alto della rupe

non lasciò col patire

il respiro di vita. Forse il dio

volle che poesia perpetrasse, dopo il salto,

il suo divino suono. Ci chiediamo

se più grande pacato che in tormento

come da scoglio umano.” Ed io fuggii 

scabro settembre, mese addolorato, 

dal sangue che si sperde in ogni dove

dell’ultimo respiro della vita.

Io ti lasciai e un salto nelle oniriche

acque di Lèucade non mi concesse

morte né oblio, ma solo la ricchezza

d’immagini feconde rivissute

da un’anima al di sopra delle povere

storie del giorno. E ti rivissi, vita,

con un sentire lieve e tanto amato

che in ogni fatto lieto o meno lieto,

ma scampato, vidi un superbo dono.