venerdì 31 marzo 2023

Federica Prontera " La ballata delle madri "

 

LA BALLATA DELLE MADRI

Un testo fin troppo espressivo ed efficace nel suo messaggio lanciato ad una Roma periferica, reso costantemente attuale ed evocativo di una figura di donna assai ricca di storie e di poesia.

Una lucida e violenta analisi dell’Italia offertaci da Pier Paolo Pasolini che, nell’intera raccolta “Poesia in forma di rosa”, offre a noi lettori l’opportunità di aprire gli occhi grazie alla sua arte non del tutto fine a se stessa. Un ritratto delle nostre madri, elogiate e dipinte con tratti variopinti che contrastano col grigiore della quotidianità cui siamo dediti. Madri lontane dalle visioni di creatrice, scrigno d’istinti e di amore concepito, quanto piuttosto madri come frutto e strumento di una società borghese e che quindi, contro i loro ideali, contro la loro volontà e contro il loro passato di bambine umili, educano alla crescita una nuova generazione di mediocri, timorosi e famelici uomini borghesi.

Madri vili, madri mediocri, servili e feroci. Madri che amano, immerse nel nostro odio, nei nostri compromessi nella nostra viltà che è sempre alle nostre spalle pronta a conoscerci. Madri quindi rese povere, deturpate e invecchiate dalle loro paure, dal continuo timore per la loro impotenza e che amano “i resti della festa” che, forse involontariamente, offriamo.

Madri che diventano feroci nel momento in cui trovano un adattamento ad un ambiente che non compete loro e lo rammentano ai loro figli, gelose di conservare un segreto nel loro petto degno di una “integrità di avvoltoi”, un’anima non compromessa da nascondere e da difendere per sfruttare il nostro diritto di camminare. Vili perché ci preferiscono “superbi”, ambiziosi e orgogliosi piuttosto che dimessi e immobili nelle nostre lacrime; uomini che rispondono alle domande dell’esistenza vivendo in una realtà che ha fatto della vita un dolore, il “selvaggio dolore di essere uomini”.

RAMPINI-COMMENTO

Potrebbero esserci mille motivi per cui stasera ce l’ho tanto con voi, vi sento intenti scrivere a macchina nei vostri uffici, con le vostre sigarette e le vostre maniche di camicia. Il vostro sorriso quando vi incrocio nei corridoi sembra conciliante e cordiale, ma quando vi osservo e non ve ne accorgete voi avete lo stesso aspetto amichevole della mia ulcera. Mi chiedo spesso che razza di uomini voi siate.

 

Ma soprattutto mi chiedo: che madri avete avuto? Se ora le vostre madri vi potessero guardare in questo vostro mondo a loro sconosciuto e lontano, perché la maggior parte delle vostre madri sono rimaste al paese o in campagna, non hanno idea di quel che siete diventati, di cosa fate, perché lo fate e cosa pensate. Quale sarebbe l’espressione dei loro occhi, se fossero lì proprio ora mentre scrivete i vostri “pezzi” imbevuti di maniere eleganti, scorrevoli e densi come il miele solo per chi per il vostro interesse amate lisciare, ma così ruvidi, spietati e ciechi contro chi non la pensa come voi? Voi scrivete queste amenità e passandole ai vostri redattori per la stampa, secondo gerarchia, mi chiedo se le vostre madri capirebbero chi siete veramente.

 

Le vedo come se fosse ora le vostre madri, esse hanno la viltà disegnata nel viso, ma non una viltà qualsiasi che ognuno può riconoscere facilmente per le strade, negli ospedali, nelle scuole o negli uffici, ma una viltà scolpita dal tempo in ogni ruga del loro viso. Ed ora le facce pallide delle vostre madri appaiono come sfingi, impenetrabili e disperatamente lontane da ogni ragione del cuore, sedimentate sotto chilometri di cieco e aprioristico moralismo.

Poverine, queste vostre madri, così preoccupate che i loro figli si sottomettano con cura quando vanno a chiedere un posto di lavoro, che non alzino mai la cresta, che non abbiano a suscitare invidie, perché in fondo bisogna sempre guardare alla pagnotta, ma soprattutto per imparare a farsi scudo di ogni sentimento che permetta almeno un lampo fortuito di pietà.

 

Sono così mediocri queste vostre madri, sempre così pronte a darvi quegli esempi che esse stesse hanno imparato con la remissività di dolci bambine, che da sempre guardano il mondo nella loro crudezza e non si chiedono  mai se nell’esistere possa esservi gioia o dolore. L’ho ben presente la mediocrità delle vostre madri, voi bambini davanti ai loro visi seri l’unica forma d’amore che avete conosciuto è quello muto delle bestie, che pure le bestie un cuore ce l’hanno, guardano i loro cuccioli e li accudiscono con tenerezza. Ma sappiate che il cuore ammutolito delle vostre madri ha sempre avuto buone orecchie, perché per avere un cuore di pietra devi pur sapere cosa vuol dire un cuore tenero, quindi avverti anche tu i suoi richiami, ma vi assisti impotente, schiacciata da una volontà superiore.

 

Per questo vi dico che le vostre madri sono abituate da secoli ad essere serve e a chinare il capo. E’ vero, per fare un figlio è necessario fare l’amore, ma per queste vostre madri il fare l’amore è sempre stato come nutrirsi di nascosto degli avanzi della festa, mangiare in fretta e poi scappare via per la vergogna. In questo modo vi è stato insegnato come il servo possa essere felice solo facendo le scarpe al suo simile, ed è peggio di una guerra tra poveri, perché infine anche i poveri riescono a dividere qualche misero resto. Ma chi non ha mai conosciuto altro che l’essere servo tradisce in silenzio il suo vicino, e lo fa con la gioia e la sicurezza di chi è convinto di esser nel giusto.

 

Quindi madri feroci, impegnate costantemente a difendere il poco che hanno, e quel poco che hanno dà loro una gioia borghese, che dà loro un confortevole senso di normalità ed uno stipendio che arriva regolare ogni 27 del mese. E lo fanno con pervicacia, con una rabbia assurda e sproporzionata come di chi si vendichi di un sopruso o sia stretto sotto chissà quale assedio. Queste madri feroci vi hanno inculcato ben bene che l’unica cosa importante nella vita è sopravvivere ad ogni costo, di pensare solo a voi e di non avere mai pietà per nessuno. Perché se un avvoltoio prova pietà per la sua vittima è certo che presto o tardi morirà di fame. Anche gli avvoltoi hanno un loro senso morale e voi dovete custodirlo con cura!

 

Ora eccole là le vostre madri: vili, mediocri, serve e belve feroci, è per questo che non si vergognano nel sapervi impegnati in ogni specie di ignominia. Anzi, esse vanno fiere di voi e così deve andare il mondo, senza mai una speranza di cambiamento. Un luogo di eterni dolori, in cui si è resi fratelli da un comune senso di distruzione, di lotte e guerre sanguinose, e dal rifiuto ormai diventato viscerale di tentare una volta tanto un modo diverso di essere uomini. Perché in fondo un modo ci sarebbe: sarebbe sufficiente imparare a vivere il nostro “selvaggio” istinto naturale. Ma non ne siamo capaci, il Potere e il Conformismo ci danno l’illusione di poter vivere e morire con meno dolore.

SINATRA-COMMENTO

Dopo aver letto più volte la “Ballata delle madri”, ho riflettuto sulla possibilità che essa debba essere considerata in relazione ad un “contenitore” molto più ampio. Mi spiego meglio. Leggendo questa poesia mi è venuto in mente il discorso fatto quel giorno a lezione sul contenitore e sull’importanza di imparare a starci dentro. Ma quale contenitore? Perché la mia sensazione è che stiamo parlando di più contenitori collocati uno dentro l’altro come una matrioska.

A questo ricordo ne ho associato un altro. Il professore, quel giorno a lezione (il 2 novembre), ha fatto una premessa alla poesia. Egli ha preferito leggerci Pasolini quella mattina piuttosto che l’articolo pubblicato su “La Repubblica”.

A questo punto, scelgo di scrivere un resoconto sul perché mi siano venute in mente queste cose.

Chi sono le madri a cui si riferisce la poesia? Sono madri giudicanti, preoccupate, vigliacche, codarde, fredde, impotenti, protettive, egoiste. Chi sono i figli di queste madri? Sono schiavi, servi, persone accondiscendenti, egoiste.

Ma di quali madri stiamo parlando? Come Edoardo ha scritto nel suo resoconto, è irritante questa generalizzazione. Non rivediamo le nostre madri in quelle descrizioni, neanche le nostre nonne. Forse qualcuno, però, ne ha rivisto dei tratti comuni.

Ma, nell’ultimo capoverso, Pasolini dice:

“È cosi che vi appartiene questo mondo:

fatti fratelli nelle opposte passioni,

o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo

a essere diversi: a rispondere

del selvaggio dolore di esser uomini.”

Certamente è una critica, un giudizio aspro che Pasolini rivolge nei confronti della sua epoca, espressione dello sconforto per una civiltà perduta. Penso che nella nostra società odierna, questo stato d’animo che ha ispirato Pasolini, possa essere rivisto in molti italiani delusi da una politica fallimentare, da un economia in bilico, da una cultura fin troppo accondiscendente e tesa a “non offendere anime privilegiate” e caratterizzata dal “rifiuto profondo a essere diversi”, dalla non accettazione della diversità.

Non siamo, forse, tutti inseriti in un contenitore molto più grande chiamato Italia? Facciamo tutti parte di questo contenitore. Questo mondo ci appartiene e siamo protagonisti delle vicende che accadono al suo interno. Il nostro relazionarci con il contesto inevitabilmente ne determina dei cambiamenti. Così la politica e le elezioni; l’economia e la nostra “abitudine” a non chiedere la ricevuta fiscale; i tassi che cadono in picchiata minacciando i nostri conti correnti; sono tutti effetto delle nostre relazioni.  Mi viene in mente una nostra precedente lezione con il professore Montesarchio in cui si parlò di “cultura mafiosa”. Forse bisognerebbe iniziare a rifletterci. Riflettere quindi sulle nostre modalità di stare dentro il contenitore Italia. Un Italia questa, di cui noi siamo i figli.

In precedenza avevo accennato ad una matrioska. Penso che all’interno di questo grande contenitore, esistono altri contenitori più piccoli, ma facenti parte del sistema, del contenitore culturale più grande. Mi riferisco all’Università, alle lezioni. Noi che ci definiamo “un gruppo in formazione”, facciamo fatica a capire che siamo noi a dare senso al contenitore cui apparteniamo. Siamo noi e le nostre relazioni nel blog a dare senso al contesto. Credo che sia questa l’importanza di commentare i post del gruppo, cosa che fin’ora io non ho fatto ma che mi propongo di fare. Una riflessione, questa, propositiva riguardo alla possibilità che noi abbiamo di intervenire nei contesti in cui viviamo tramite la relazione.

 

 

" Echi " di Gabriella Maggio, recensione di Lorenzo Spurio

 

La nuova raccolta poetica di Gabriella Maggio, Echi (Il

Convivio Editore, Castiglione di Sicilia, 2022), segue la

via dell’essenzialità e, al contempo, della compattezza

contenutistica. La pregevole prefazione dell’illuminato

poeta e fine critico Dante Maffia ne traccia con perizia

le linee distintive, “vestendo” la silloge del miglior abito

cui abbia potuto aspirare. Non a caso Maffia parla di

una “macerazione lenta e limpida che porta ad esprimersi

con chiarezza e semplicità”.

Gabriella Maggio, ex insegnante ora in pensione, nel

corso della sua carriera letteraria che l’ha vista collaborare

attivamente con la Libreria Spazio Cultura di

Palermo, vincere importanti premi letterari e pubblicare

– prima di questo volume – la silloge Emozioni

senza compiacimento (2019), appare all’attento lettore

dei suoi versi come una donna resiliente dalle capacità

comunicative assai rare. Il dettato linguistico dei suoi

componimenti (pochi, è vero, ma in grado di aprire

mondi vasti, a noi paralleli o, in quanto al passato,

da noi fedelmente ricercati) predilige uno stile per lo

più asciutto in cui la parola è generalmente fruibile in

via automatica, in altre circostanze fanno capolino altre

costruzioni leggermente più elaborate fondate su

un’esigenza di dire tramite il dato evocativo. Non infrequenti

appaiono le analogie; alcuni versi sembrano

addensarsi attorno a immagini ben definite, a loro volta

plausibili chiavi di lettura e fili rossi distintivi dell’intera

“narrazione per immagini”. Mi pare di avvertire anche

una lieve adesione a quella poetica del frammento che

fa dell’essenzialità e della rievocazione per squarci del

reale il motivo di partenza per ricondurre poi, in chiave

sinottica, a una visione di completezza e di globalità

dela vasta gamma dei temi a lei cari. Il titolo della raccolta,

“echi”, ben chiarifica il rimando a un qualcosa che

si è prodotto in un altro spazio-tempo e ha avuto un

prolungamento in un dopo. La poesia (e la letteratura

tutta) dato al fenomenale mezzo (se ben usato) dell’intertestualità

e della rievocazione di fonti, non è proprio

un bagaglio inesauribile di echi, di voci che ritornano,

di linguaggi e messaggi lanciati in altre età, riletti e fatti

propri? Rientrano negli “echi” della Maggio i componimenti

che parlano di uno ieri apparentemente lontano

(così come le figure importanti della nonna e del genitore

paterno) eppure ancora percepibili in quei riflessi

intimi. Sono echi non sonori, privi della loro dimensione

prettamente uditiva, ma che esemplificano quel

profondo radicamento a un prima che connette doppiamente

la Nostra, donna prima che poetessa, tanto

alle origini ancestrali quanto al cambio progressivo

della società e alla fluidità del presente. L’immagine di

copertina, che propone una sorta di sdoppiamento (e

rispecchiamento) dell’autrice tra una Gabriella Maggio

reale (a sinistra), in carne e ossa (ritratta, immaginiamo,

durante uno dei tanti eventi a cui prende parte) e

di una Gabriella Maggio in forma di oleogramma (viene

da pensare anche al risultato di un possibile “ricalco”

su carta con la non più utilizzata carta copiativa),

fa riflettere su questo scambio tra età, tra mutazioni

che il nostro io più o meno coscientemente vive e realizza

nel corso dell’esistenza. Le due donne sembrano

colloquiare in maniera molto garbata e interessata (lo

sguardo della Gabriella reale ci fa pensare questo) ed

è in questo interscambio di vedute tra le due donne,

sfaccettature della medesima persona, che prendono

piede le liriche della Nostra, in un flusso di coscienza

inarrestabile, giunto a noi grazie alla trascrizione di

momenti della memoria, gioie ritrovate, istanti cruciali,

epifanie e riflessioni. Nella raccolta, che si compone

di trentaquattro liriche, vi è il dato emotivo-sensoriale

della donna, la sua autenticità di essere senziente legata

al mondo degli aletti e circoscritta nel baluardo della

memoria personale e familiare (Maffia richiama giustamente

la massima sabiana della “poesia onesta”) ma

anche il dato socio-politico di questa età scapestrata.

Quest’ultimo è ben evidenziato nella poesia che chiude

il libro dedicata ai poveri disgraziati di Mariupol, Kiev e

di tutta l’Ucraina, che da troppi mesi vivono il dramma

del conflitto: “le betulle / […] / s’aprono un varco nelle

voragini / nei palazzi avvolti dalle fiamme”. Come ulteriore

“eco” le betulle della Nostra non possono non ricordare

quelle dell’ampia foresta in prossimità di Chernobyl

(nella sempre martoriata Ucraina) che nel 1986,

a seguito del grave disastro radioattivo, per gli alti tassi

di tossicità assunsero una colorazione rossastra, anomala,

frutto della pesante contaminazione, prima di

trovare la morte.

Lorenzo Spurio

mercoledì 29 marzo 2023

Angela Ambrosini: "Ora che è tempo di sosta"


 

Angela  Ambrosini:

“ORA  CHE E' TEMPO E’ DI SOSTA”, poesia nitida, profonda, questa di Angela, dove il logos  e il patema si mischiano  prima di dare il via verso la luce. A concretizzare i sentimenti, a dare loro corpo, sono le immagini a dare risalto al verso. La poetica dell’autrice si fa netta e personale, si fa generosa e plurale. E dove l’animo della scrittrice si diluisce tra i versi che scorrono  fluenti e nitidi come il sole del mattino spunta all’oriente tremulo. Una poesia reale,  vera, sentita che commuove e entra dentro fino a stuzzicarti, fino a chiedere plausi sul contenuto, fino a annunciare la novità del canto nel suo diluirsi in tanto amore. Ho letto con piacere i versi del canto, dove l’amore e il suono si aiutano a  vicenda per dare potenza e calore al nerbo dei versi. Un vero piacere leggere questa poesia che risuona dentro come un ricordo messo lì a riposare. Poesie scelte con cura, direttamente uscite dall’animo.

Nazario Pardini

 P.S. La silloge " Ora che è tempo di sosta " ha recentemente vinto il primo premio assoluto, sezione libri editi di poesia, del premio nazionale " Winning Book", Caffè delle Arti.

 

 

 

 

 

 

 

 

Giovanna Deluca : " Due Stelle ", "Luci di notte ", " Neve "

 

DUE  STELLE

 

Se lancio la rete dentro il cielo

- la notte - e due stelle soltanto-

mi torna vuota.

La coltre scura e silenzio.

Si mortifica la siepe di ligustro

e il gatto bianco getta le sue zampe

sul prato inaridito.

 

Se lancio la rete dentro il cielo

- la notte - è perché in terra

non trovo risposte - effimere soltanto.

Segnano un zigzagare di ricerche

inconcludenti.

E tutto è niente - e l’oggi è già finito

stremato di violenze- e desideri.


LUCI DI NOTTE

 

Il lago s’ingioiella di luci la notte

la valle gli fa eco e indora la finestra:

la stanza è buia- tutti alle spalle

eventi visi parole , folla che si aggruma

lasciata sulla porta…

Luci di notte, valle scura,

richiamo prepotente

- e conforto.

                                  

 NEVE

“ Verrà  la neve?”, chiedevi.

Come questi che vivo erano i giorni

 e i cieli coltre senza spiragli,

ore  uguali nei desideri spenti.

Come reclina quell’albero la cima

e rigida la siepe erge le foglie!

Come allora, quando la domanda

confermava del  tempo il moto ciclico.

S’appiattisce la tenda contro il vetro

ogni oggetto è  in attesa.

“Verrà la neve?”.

Indifferente e candida coprirà ogni

grido perduto nei secoli e negli anni.

                                                                              

 

 

                                                               

Marisa Cossu legge " Il nido " di Dario Marelli

 

Marisa Cossu legge “Il nido”, poesia inedita

di

 Dario Marelli

 

 

 

“… dove il cielo si rompe in un turgore e il bianco

ha il sapore di un inno, si vive

appena sopra la superficie del sogno

e tutto accade a un passo da qui”.

(Pierluigi Cappello)

 

 

Il nido

 

 

Tra le foglie del cuore

si nascondono covi d’uccello

dove le piume si trasformano in ali.

Sanno i tuoi occhi

le radici del bene e volano

oltre le cime lucenti di bellezza e silenzio

-solo il fischio del vento-.

Lì le bufere si quietano al sole,

gli arcobaleni germogliano incanti.

 

Sulle punte dei larici

-ne respiro la resina-

la neve cede il passo all’immenso.

E l’anima si ammanta di azzurro,

riprende il suo battito.

 

                           È un atto d’amore furibondo

                     il profumo del bosco”

 

Dario Marelli

 

 

 

Logos e desiderio nella poesia “Il nido”

 

Nell’incavo profondo dell’anima Dario Marelli compone la musica del verso, tra lievi foglie consapevoli del prossimo distacco, desiderose di custodire il calore e i colori dell’attesa e il libero volo chiamato al cammino nell’azzurro. Qui

“si nascondono covi d’uccello

dove le piume si trasformano in ali”.

 

Il canto origina dal complesso ingranaggio “cuore-cervello” dove frammenti sensoriali ed emotivi vengono custoditi insieme per esplodere lentamente, passo dopo passo, immagine dopo immagine nella catarsi della realtà sospirata. Nel percorso il poeta ricongiunge le istanze dell’anima alla bellezza circostante e all’armonia interiore. Tutto origina dalla sintonica partecipazione al cosmo misterioso e suggestivo in una immanente meraviglia: è un modo di stare infinitamente nella pienezza di un amore furibondo suscitato dagli umori della natura e dalla totalizzante, psico-fisica, immersione nell’amato mondo della montagna. La valle attraversata è già pura bellezza nell’andamento del respiro e nel senso di ben-essere che si rafforza nell’appercezione del candido silenzio, l’Apeiron in cui tutto origina e trova fine.

L’io poetico si leva con ali appassionate versandosi negli occhi amati, specchio d’altro amore nel proprio universo emotivo; si volge alla contemplazione olimpica di qualcosa che altri non possono sentire; qualcosa che alla fine riconduce al Nido per riunire foglia a foglia, piuma a piuma, frammento a frammento d’esistenza:

“Lì le bufere si quietano al sole,

gli arcobaleni germogliano incanti”.

 

E non è solo un Infinito spazio-temporale, ma la condizione dell’essere poeta, del percepirsi particola dell’Immenso nella bellezza delle cime lucenti, del vento e dei passi che lasciano orme azzurrine sui soffici tappeti innevati. Fioriscono arcobaleni nella meraviglia dell’assoluta intensità di uno sprazzo di cielo. Raggiungere una meta attraverso l’incanto di un viaggio interiore pervaso dal sentimento della neve, è ciò che si propone Dario per trovare ristoro, pace ed approdo. Il “Nido” è alcova in cui riposare almeno per un attimo sospeso, incontaminato come i boschi e i monti da scalare, un non-luogo che potrebbe essere altrove, ma che ora vive tra quelle atmosfere.

Sul cuore del poeta incombe un silenzio carico d’attesa, un piacere assaporato ma non ancora compiuto. Il fischio del vento, in questa sinestetica realtà, entra a far parte dell’universo emotivo-sonoro a preannunciare la scoperta del sé e sembra non interrompere l’energica andatura del passo né la tensione emotiva:

“-solo il fischio del vento-“  

È un suono inglobato tra ambiente e psiche, allusione melodica ai tanti diversi “venti” della vita, forse richiamo letterario e affettivo. Il fischio del vento è tensione a superare i confini, una sfida volta a sé stessi per scalare le rocce e le inevitabili salite.

Nei poeti il vento è simbolo del soffio vitale che fugge, forza che trascorre oltre l’accaduto disperdendone i contorni:

“Vento ostile che spinge a fuggire gli uccelli” (Pascoli); “Il consumarsi dell’eterno grembo” (Montale); “Il conforto della musica del vento” (Sereni); “Le parole soffiano nel vento” (Bob Dylan).

Le citazioni riguardano solo alcuni dei poeti la cui ispirazione può essere evocata nei versi del nostro poeta; ma è ancora più coinvolgente comparare all’emozione di Dario Marelli i magnifici versi, monumento universale della lirica leopardiana:

“E come il vento/ odo stormir tra queste piante, io quello/infinito silenzio e questa voce/ vo comparando: e mi sovvien l’eterno…”

L’Eterno, l’Infinito, l’Immenso di Dario Marelli sono ancora qui oltre le cime dei monti già vissuti nella tempestosa immaginifica attesa. Tra poco il compimento del desiderio, l’epifanica visione, l’ossimorico fine-inizio della ricerca, la poesia abbracciata in un totalizzante atto d’amore. “Solo chi ama conosce”, confida Elsa Morante in “Alibi”: il volo ardito è lo stesso logos, incontenibile forza d’amore.  Entusiasmante la chiusa in un distico dagli echi ungarettiani (Il porto sepolto), potente, evocativa, destabilizzante. Il lettore non è abituato a questo spessore dell’amore, al suo tremore esistenziale, alla profondità del dettato poetico. Sobbalza, è colpito nell’ombra del proprio io, comprende che, in Dario Marelli, la passione è poesia delle cose desiderate e conquistate:

“È un atto d’amore furibondo

il profumo del bosco”

 

Questa lirica, in due strofe e un distico finale, fluisce nella sintagmatica efficacia espressiva del verso libero mediato da parole essenziali a volte pungenti, sempre eleganti. Il linguaggio elevato del Nostro è il “grembo” in cui si dischiude l’essere rendendo possibile l’esistenza del mondo. Alcuni versi settenari, come quello d’esordio “Tra le foglie del cuore” ed altri nel corpo del testo, o endecasillabi come i due ultimi della prima strofa, mostrano con altre forme metriche, l’influsso della tradizione letteraria nell’originale linguaggio di Dario Marelli. Anche il verso “lungo” si compone e scorre in un crescendo illuminante e significativo, ben dosato e dal ritmo impeccabile.  

 Con preziosa perizia compositiva Dario cesella il verso in una tessitura scorrevole, classica ed essenziale; il ritmo è dato dallo stesso respiro del poeta, la misura è nella maestria prosodica. L’innovazione risiede, infatti, nel “fare poesia” con sincera disponibilità a muovere emozioni e riflessioni lontane da modernismi ed eccessi nocivi alla comprensione dei valori di alterità, etici ed estetici che ispirano l’attività poetica.

In questa beve e intensa lirica il soggetto è sempre presente, mescolato alle “cose” fuori da sé, l’oggetto viene indotto all’interno del processo creativo, lo pervade per essere soggettivizzato e lasciato libero nel canto. La poesia di Dario può essere posizionata tra le più significative espressioni della poesia contemporanea, sulla scia dei grandi del Novecento fino ai nostri giorni. Meritevole di essere storicizzata, essa non soccombe alle mode o alle correnti che tentano di destrutturare l’Arte della parola in progetti di poco meditate “nuove” ontologie, ma crea di fatto un ponte tra il lascito della tradizione letteraria e la genuina innovazione. Le parole di Dario sono di per sé “realtà” capaci di portare alla luce ciò che vi è nascosto.

 

Marisa Cossu

 

lunedì 27 marzo 2023

Claudia Piccinno " Sfinge di Pietra "

                                      


Claudia Piccinno. Già  partendo dalla nota di quarta ci troviamo a leggere l’introduzione  attenta e chiara della poetica della Piccinno: “La poesia di C. Piccinno si snoda su un percorso emotivamente fluente e epigrammaticamente coinvolgente. Ibi omnia sunt: i turbamenti, l’amore, gli affetti che lo rendono umano. Una  vera navigazione, un odeporico cammino verso la luce, verso un’isola di cui si conosce poco; neppure la rotta e il mistero che contiene”. Qui è contenuta la polimorfica andatura della poetica della Nostra : una silloge complessa e plurale dove l’animo della poetessa appare chiaro e lampante attraverso le poesie e resoconti   che si leggono a mano a mano durante la lettura. Un vero capolavoro dove occorre leggere più volte le poesie per entrare in profondità dell’animo dell’autrice. Partendo dalla prima composizione  già siamo in  grado di capire gli intenti e la maestria con cui la Piccinno vuole esternare i suoi battiti, le sue emozioni. Questo il titolo: 

LA SFINGE DI PIETRA E ALTRE POESIE:

“E se anche in questo momento di connessione

Tu decidessi di defilarti

Io capirei.

E se io continuassi a scrivere

Con penna molesta,

e a te  nuocesse, mi fermerei…”

  fin dalla poesia incipitaria è chiaro il discorso di remissione  e di affetto,

di amore e di  di dolcezza con cui la Piccino si rivolge al patner…

Una silloge quindi di grande portata  spirituale, in cui gli affetti e le relazioni occupano il primo posto dell’intero processo  di navigazione. Una navigazione in cui  la nostra affronta mari e burrasche senza mai perdersi d’animo, perché il suo intento è quello di raggiungere la meta. Come d’altronde si capisce procedendo con la lettura della XXII composizione: “Ti fai di pietra/ quando hai paura/Ti fai di marmo per non sbilanciarti/ Ti fai di legno/ per non esporti…”. Indecisioni, incertezze, inquietudini, come spesso avviene nel rapporto umano, e qui di umano ce n’è molto, anzi moltissimo. Diceva Seneca: “si vult amari ama”. Non c’è misura nell’amore. Tutto porta con sé, fino alla pazzia. Mi piace chiudere la mia nota con l’ultima composizione che ritengo simbolica ed esaustiva

“Mi annebbia la visuale

il tepore dei tuoi baci,

ne conservo l’alone

perché io sono vetro “      (XL)

 

Nazario Pardini
 

Lorenzo Spurio :"Il canto dell'emigrante nella poesia del professor Domenico Pisana "

 IL CANTO DELL’EMIGRANTE: IMPEGNO ETICO-CIVILE NELLA POESIA DEL PROFESSOR DOMENICO PISANA1


 Risulta rilevante, per il discorso comune della poesia contemporanea imbevuta di impegno civile, parlare dell’opera pubblicata dal noto poeta, scrittore e saggista siciliano il professor Domenico Pisana che nel 2014 ha dato alle stampe, per i tipi di Europa Edizioni di Roma, il volume dal titolo chiarificatorio Tra naufragio e speranza. I motivi cardine che hanno ispirato un’opera di questo tipo e i paradigmi lungo i quali si sviscerano forme e contenuti sono da leggere con le lenti di quell’indignazione illuminata che nella società d’oggi, pur diffusa, spesso finisce per mostrarsi vulnerabile nel j’accuse e nel lancio di messaggi poco chiari. Pisana, al contrario, con la sua opera di evidente impegno civile e di scoramento particolarmente sentito dinanzi alle aberrazioni e indifferenze diffuse che dominano nella nostra età storica, si discosta nettamente dal pressapochismo recriminatorio e poi falsamente indulgente, alla mera cronica documentaristica di ciò che accade, vale a dire il suo messaggio ha intendimenti più alti e raggiunge il suo scopo mediante l’adozione di una poetica che subito si percepisce come amica, solidale, prettamente umana, finanche consolatrice. L’opera si dispiega attraverso un percorso oculatamente predisposto dal Nostro che vede susseguirsi liriche di diversa lunghezza, dove anche la disposizione grafica dei versi risulta rilevante e degna di attenzione, appositamente accorpate in tre sotto-sillogi che hanno rispettivamente i titoli di “Ed ora, la notte”, “Verso l’aurora” e “Sognando la speranza”. La titolazione della tripartita silloge ben introduce alla simbologia dominante all’interno del lavoro che fa riferimento a momenti di luce, crepuscolo, bagliore difficile da cogliere, foschia, ombra e vera e propria tenebra. Il poeta modicano, che ha all’attivo un’amplissima produzione saggistica in fatto di Teologia (ambito per il quale ha ottenuto lauree, riconoscimenti e tenuto corsi su vari argomenti) è con viva probabilità affascinato a quella dimensione antipodale e scissoria della luce e dell’ombra, metafora di conoscenza e barbarie, di giustizia e inciviltà, di bene e di male, di cui il nostro testo sacro per eccellenza, in numerosi punti, dà testimonianza nei vari racconti biblici. 1 Saggio pubblicato sul sito “Alla volta di Leucade” del prof. Nazario Pardini in data 06/08/2018. Link: http://nazariopardini.blogspot.com/2018/08/lorenzo-spurio-legge-il-canto.html Il punto di partenza nell’indagine etico-sociale di Pisana, che poi è resa mediante la scelta prelibata di forme espressive, perifrasi, versi e costruzioni semantiche di particolare presa sul lettore, è la nostra realtà abitativa, il contesto odierno dell’oggi dove l’uomo soffre la sua vulnerabilità e vive in una condizione privativa del Bene, sempre in una sorta di sospensione che ne svilisce la sua vera natura. In questa trattazione Pisana esordisce parlando di una “realtà sensibile” (25) che è appunto quella data dall’universo empirico che spesso sembra apparir falsata da ciò che, nel privato, nel personale e nell’universo del concreto, si sperimenta. I mali del secolo sono intravisti in varie manifestazioni attitudinali dell’uomo percepito sempre più distante dalla riflessione, dalla comprensione degli altri e dalla confessione, e improntato con sempre maggior foga all’esaudimento di sé e alla magniloquenza di tutti i meccanismi che abbiano come fine un profitto personale o la conservazione di uno stato d’agio e rilassatezza. Di base si ravvisa l’impronta di un uomo che sembra perdere i connotati della corporeità carnale per attribuirsi esso stesso, in un’azione di vanteria e saccente superomismo, caratteri che gli sono estranei, fronteggiando, quando non proprio scalzando vilmente, la dimensione superiore che tutto assiste. Il poeta ragusano parla di “folle corsa/ per uccidere Dio e impadronir[si] del cosmo” (25): si tratta di una prima forma di minaccia verso l’entità celeste che intuitivamente è abbassata nella sua aurea di grandezza. Come si vedrà il lavoro di Pisana può essere configurato sul crinale di una catabasi (caduta2 , discesa) dell’uomo richiamata appunto nell’abbruttimento della condizione di umanità e nel fenomeno migratorio nel quale ben assistiamo alla degenerazione morale dell’uomo, alla quale fa seguito un’imprecisata anabasi, auspicabile e molto ben godibile per come ci viene presentata, nella filigrana della parola-cardine della speranza. Non c’è, in effetti, una vera e propria risalita dalla barbarie e dalle tenebre nelle quali si è sprofondato, Pisana non intravede un uomo nuovo che, messe da parte le recalcitranti smanie egoiche e di sprezzo verso l’altro, ritrova una sua dimensione ideale ma fa intervenire, come una musa bianca, una presenza alata, la speranza. Essa, se non è il segno decisivo di un’età nuova caratterizzata dalla positività è una sorta di ingrediente d’apertura che, se ben amalgamato alle condizioni sociali, potrà dare i suoi positivi risvolti. L’ascesa, il rinsavimento morale e la rivincita dell’intera umanità potrà, allora, avvenire dando fede alla volontà di cambiare e nel credere che, con l’impegno, la forza di volontà, la ragione e l’umana compassione, si possano ristabilire condizioni favorevoli, o per lo meno accettabili, nel processo comunicativo tra strati sociali, governi, fornendo una traduzione consona ai mali che allontani iniquità, pregiudizi ed ostacoli forme di violenza e recriminazione. Elemento di transizione tra questi due stadi è rappresentato dalla materialità fluida, flessuosa e spasmodica dell’acqua: gran parte delle liriche fanno riferimento alla tragica costumanza dei naufragi nelle acque del Mediterraneo. Realtà, questa, non nuova se si pensa a quanto, in altri tempi e contesti geo-politici, avveniva negli anni ’90 con le orde di profughi balcanici che solcavano l’Adriatico alla folle ricerca di un luogo dove vivere, lontani da conflitti bellici. La traumatica esperienza dell’immigrazione mediante la rotta di direzione centro-Europea è stata, negli ultimi anni, motivo di grande interesse anche da parte dei poeti (cito la silloge Gazzella di Fabio Grimaldi) ed è clamoroso come una tematica così preponderante nel nostro oggi, che attanaglia le nostre coscienze, non potesse non interessare il professore modicano. L’acqua diviene una sorta di indefinibile luogo-non luogo, entità di mezzo funzionale per raggiungere uno scopo ed è essa stessa il compimento 2 L’idea di una vera e propria caduta è permessa anche da alcuni versi dello stesso Pisana che ben descrivono la situazione nelle forme dell’impoverimento e della derelizione dell’umanità: “siamo caduti nel vuoto rivo di luce” (25). di un rito di passaggio che non per tutti ha esito positivo. Metaforicamente Pisana collega quell’acqua fisica, che è strada fluttuante e perigliosa di imbarcazioni che vengono dall’Africa, alla corruzione dell’uomo europeo che, in termini pratici, sembra inetto o indifferente ad accogliere lo stato di calamità continua: “nell’acqua della menzogna,/ l’arroganza dell’onda ha travolto l’arroganza della mente” (26). In queste poesie Pisana passa a raccontare con un tono platealmente commosso e disturbato (“Soffre la mia anima”, 33) le vicende tristi di uomini e donne senza nome, di macchie d’esistenze che si perdono e si stingono in un mare che diviene tagliola (mangia), idrovora (risucchia) e camposanto (dà sepoltura tra gli abissi). Sono le vicende di “vite macchiate di sangue” (27) i cui capostipiti della tragedia non sono i vili traghettatori che si arricchiscono elargendo minacce, botte, sfruttando e violentando le donne, bensì le schiere più alte di chi gestisce il potere a vari livelli, i “padroni del presente e del domani” (27), viva è la convinzione che “siamo figli traditi dai misteri del potere” (85). I moniti di Pisana sono resi in maniera sibillina, senza nessuna altisonanza o forma retorica, con un linguaggio pacato che è emblema di un’insoddisfazione permanente dinanzi a quel desiderio mai raggiunto di “struggente aria di libertà” (29). Se Pisana è un uomo di fede è anche credente nelle forme dell’intelletto umano ed è per questo motivo che spesso richiama la ragione quale elemento assopito o negato nella società odierna al quale bisogna ritornare ad ascoltare in maniera sincera e rigorosa: la speranza del cambiamento, di cui Pisana parlerà abbondantemente nell’ultima sezione del libro, è così sentita e alimentata proprio grazie alla grande fiducia e rispetto che riconosce nei confronti della razionalità dell’uomo, capace in passato di tante invenzioni e grandezze ma anche di scelleratezze e abomini dai quali è sempre doveroso prendere le distanze. Ma la ragione non va neppure strumentalizzata ad uso e consumo, ecco perché Pisana sostiene la necessità che “la ragione abbass[i] le armi” (26) e, in un’altra poesia così scrive: “Ora è tempo di ritrovare/ il limite dei lumi invasi dall’assoluto/ e di lasciare alle spalle/ racconti di violenza ove la follia/ ha regnato per lungo tempo come angelo di luce” (27). La ragione non è che non ci sia, ma è stata lesa (“La ragione s’è frantumata lentamente”, 33) e soppiantata in forma completa da qualcos’altro, da una pazzia ossessiva, ma è in qualche modo offuscata, adombrata dai meccanismi del sistema: “La ragione è sempre uguale a se stessa,/ le ore vivono lembi di tristezza travestiti di luce” (28). In questa sorta di perdita della giusta strada, di ottundimento, nascono i rovelli esistenziali, le domande tribolate, i quesiti insostenibili, le aporie, le ingiunzioni di una consecutio, vengono a mancare i procedimenti logici, comunicativi e pratici per fornire una chiave di risposta alle problematiche. Il poeta si mostra particolarmente teso (riferisce del suo “senso smarrito”, 53) dinanzi a questo sistema dove le ridda di voci, le ideologie frammiste alle convinzioni dettate da spregevoli tabù fanno da padroni, richiamando la necessità di un’elaborazione mentale e attuativa delle forme di criticità: “distesi le mie ansie di risposte” (29). L’impegno di Pisana è totale: un uomo che ha a cuore il benessere del mondo non può esimersi dal porsi domande. Se sarà difficile fornire risposte, sarà obbligatorio, invece, porsi quesiti, un po’ alla maniera di cui Wittgenstein sosteneva. L’esigenza della domanda nasce da una volontà di ampliamento della comprensione: “Nella penombra d’un mondo nuovo/ un ingenuo poeta credeva lottando” (29) come pure nel tentativo di costruire coesione attorno a una posizione in termini di vicinanza sociale, compattamento, elargizione a chi detiene il potere di esigenze condivise, nutrite, impellenti e alle quali far fronte in termini utili e congrui. Il poeta diviene allora combattente e, in quanto tale, prode sostenitore delle sue credenze difese con caparbietà: “Coscienza e libertà/ mi spingevano a reagire:/ con coraggio” (30). Non è lecito né moralmente corretto assurgere al ruolo di pavido spettatore, di voyeur incallito, di osservatore della tragedia mentre questa deflagra, prende forma, deborda e si diffonde spaventosamente. Pisana mostra quanto sia oculato e lungimirante per il poeta che ha assunto a sua dimensione etica l’impegno civile e altruistico abbandonare la posizione di margine, di negletto, di colui che vede non visto dietro la tendina della finestra, perché tutto ciò sarebbe conforme all’adozione di una bieca connivenza alle storture e al male. Forme di rivolta silenti e appartate non hanno mai avuto risvolti significativi ed è per questo motivo che non è consentito di edulcorare ciò che di grave persiste e accade né negare che non esista il marcio; Pisana si erge distintamente contro quell’attitudine di molti che, dinanzi alla tragedia, intuita, in corso o prossima allo svolgimento, è semplicemente un “essere a riva spettatore” (33). Da qui nasce il grido interiore dell’uomo di denunciare non solo gli accadimenti più truci ma anche gli atteggiamenti di chi, comodo sulla poltrona di casa, vive pensando alla propria unica sorte come se i fratelli annegati o malmenati in altre parti del globo non sia un pensiero che lo riguardi. “Viviamo stagioni di solitudini” (39), rincalza Pisana nel fedele tracciato di un identikit umano assai amaro e deludente, pessimo e vigliacco per la sua “indifferenza vestita di noia” (39). Il professore pone la giusta attenzione su due degli aspetti dominanti in questa “furia postmoderna dell’acqua assassina” (33) che riguardano la vecchia Europa, megera che osserva e parla, poi si vede bene di allungare la propria mano: la solitudine e il silenzio. Entrambi connotati in maniera negativa quali forme di negazione, di allontanamento dalla società, di recrudescenza dell’indifferenza verso l’altro. Così scrive in una lirica molto potente: “La melodia dell’arpa che squarcia il silenzio ingiusto:/ non reggo alle parole che dicono il falso,/ alla bilancia doppia che giudica i morti” (42). Il suo impegno morale, che non è semplice coinvolgimento con la materia trattata e reale empatia, ma che affonda nell’esigenza umana di cristiano di lavorare per il bene della comunità alleviando le pene di ciascuno, si rintraccia adeguatamente in alcuni versi nei quali confida le sue tribolazioni affidandole al verbo: “rimango flebile voce di lamento/ chiusa oltre il silenzio della parola” (55); “e davanti alla cronaca di giorni difficili/ invoco la Parola/ che fa sperare contro ogni speranza” (74). Seguendo questa linea interpretativa che è il focus concettuale dell’intero libro comprendiamo anche alcune costruzioni che delineano bene l’intero contesto: ci sono “lacrime prive di pianto” (44) a testimoniare la mendacità di un dolore che è di carta, fatto di facile pietismo e nutrito di niente; c’è anche un “labirinto di stagnati amicizie” (46) dove la stagnazione è data da una fissità incongruente al bene collettivo, una stasi che sa di lascito a se stessi ma richiama anche “l’acqua stagnante”, quella di una qualsiasi pozzanghera dove il liquido contenuto marcisce sotto il sole, vede la nascita di microrganismi, larve e produce una vita malata, infettante. Il prodotto di tanto imbarbarimento ed egoismo è ben tracciato in alcuni versi da Pisana: “L’assenza dell’altro ci rende fiumi sonnolenti/ la chiusura una spelonca di requiem” (93). Le tinte che Pisana attribuisce a questo “naufragio sociale” (76) sono numerose e vanno indagando le perplessità di uomo saldo nella ragione e timoroso dinanzi all’imperversare della tragedia, sbiadita replica di se stessa, con immancabili recidive spesso peggiori degli affondi precedenti che rendono “questa vita così cieca” (93). Una storia amara, quella contemporanea, contrassegnata da imbarcazioni affondate, migranti deceduti e dispersi, conte veloci e impossibili delle perdite, bambini salpati dalle proprie terre e divenuti orfani durante la traversata; “La vita scorre in ipotesi oscure” (79), scrive Pisana. Il mare non mangia solo corpi e certezze ma fa annegare anche diritti, desideri, volontà degradando la natura dell’uomo: “Il mare in tempesta ha vomitato i resti/ di pochi valori usciti indenni dalle acque” (36) scrive, aggiungendo “le onde hanno spazzato la fragilità dell’essere” (41). Ed è così, in questo percorso concentrico dove vita e morte si danno il testimone di continuo correndo una staffetta macabra, che Pisana sottolinea l’importanza del saper “vedere oltre”, vale a dire di figurare, intuire e anelare a un dopo migliore del presente pregno di disperazione e annichilimento. L’ultima sezione affronta il tema della speranza, concetto astratto che il professore rende palpabile, tanto da percepirne le possibili trame, che vanno ricercate, rinsaldate opportunamente per costruire un ordito solido: “Siamo qui a sperare la speranza” (76) scrive in una delle ultime liriche che compongono il volume. Ed è in questa espressione dalla foggia tautologica che ben recepiamo al meglio l’afflato vitalistico del poeta e con esso l’insegnamento cristologico. Tutto ci parla di un mondo futuribile che non è utopia, ma che va cercato e costruito con l’impegno arguto e sincero di tutti: “Vorrei tornare a cantare/ parole ricamate di speranza” (76) ed è a tarda sera, quando la frenesia della città s’allenta, che tali pensieri fioriscono sorgivi: “La speranza resiste alle molestie della notte” (87). La trasvolata che Pisana compie scandagliando l’animo umano in questi tempi di crisi di coscienza in cui divampano focolai di xenofobia e avanzano marce populiste, è così fulgente per mezzo di un apporto visivo, iconico, panoramico, a lunghezza d’onda e ad in gradimento che ci consente di avvicinarci al problema, leggerlo e approfondirlo a trecentosessanta gradi, visionandolo secondo varie sfaccettature; questo accade perché, come lo stesso osserva lucidamente: “guardo da lontano mentre osservo da vicino” (36). La traiettoria di questa vista è a lungo raggio eppure penetra con esattezza e grande dignità nel nerbo costitutivo della problematica etico-sociale di fondo. Oltrepassare la nudità di un tempo inclemente è possibile, scantonando la depressione e l’indifferenza nelle quali si è piombati, per intravedere un oltre da creare quale basamento di un domani meno fosco e più promettente: “I miei occhi osservano il pianto dei naufraghi, cercano nuovi mondi di certezze/ chiedono dov’è la dea ragione” (26).


 Lorenzo Spurio

Franco Donatini invita " La verità delle cose negate- Parigi è stata uccisa " di Ilaria Parlanti

 



Presso “Villa Le Sughere”, in località Conti 15 al Marginone di Altopascio, nel contesto del Salotto Artistico Letterario si terrà, questo venerdì 31 marzo dalle ore 19:30, la presentazione di due libri: un romanzo di narrativa e un libro di poesia della giovane scrittrice Ilaria Parlanti: “La verità delle cose negate” (Arsenio Edizioni) e “Parigi è stata uccisa” (Edizione Dialoghi).

Introduce la serata con conversazione con l’autrice il professore universitario di Pisa, critico d’arte e autore di libri di poesia e narrativa Franco Donatini, con l’intervento del poeta e scrittore Floriano Ansani.

Sinossi La verità delle cose negate:

Isabella, giovane e stimato medico vertebrale, ha sempre percepito la sua vita come squarciata a metà: i giorni a Parigi all’ospedale Saint Victor de Paul e ciò che rimane. Sono trascorsi più di dieci anni da quando ha deciso di andarsene via dalla Francia e di partire per gli Stati Uniti, in particolare a Boston, dove ha iniziato la sua carriera come chirurgo ortopedico infantile. Il suo passato la tormenta ogni giorno e detta tutte le sue scelte, prima fra tutte quella di diventare medico. Un pomeriggio Isabella viene a conoscenza di ciò che è accaduto: il Saint Victor è stato chiuso e non esiste più. A quel punto avverte l’esigenza di comprare un quaderno e, in un modo frenetico e convulso, inizia a ricordare ogni dettaglio del luogo che ha da sempre segnato la sua vita. In un lungo addio all’ospedale, ogni episodio emerge alla luce e Isabella intraprende un percorso tortuoso all’interno della propria mente, per perdonare e perdonarsi, per abbandonare l’ascia di guerra contro se stessa e imparare a lasciarsi andare.

Sinossi Parigi è stata uccisa:

E' il frammento eretico di una persona che è nata diversa dagli altri. È il racconto di ogni outsider della società, di coloro che sono ai margini, incompresi, taciuti, invisibili. È la forma più sostanziale di amore per la città che ha dato all’autrice una seconda possibilità. Si interpella il dolore, la forma più vera di vita, il coraggio e la rassegnazione, l’odio e l’amore. Una raccolta in cui la città diventa personaggio, con un volto e un’anima. L’intento è quello di descrivere ogni luogo che è stato fondamentale per il viatico di cure all’estero, per imprimersi nella mente che Parigi è Ilaria e Ilaria è grande e complessa quanto una meravigliosa e fatiscente capitale europea.

Ilaria Parlanti ventiseienne di Chiesina Uzzanese in provincia di Pistoia, ha trascorso l’infanzia e la prima adolescenza divisa tra il suo paese natale e Parigi, a causa di una “malformazione scoliotica congenita e agenesia della quinta e sesta costa” (sindrome di Jarcho-Levin), una patologia genetica rara curabile soltanto nella capitale francese. Nel 2017 è stata selezionata come autrice nell’Enciclopedia della poesia italiana contemporanea a opera della Fondazione Mario Luzi. Nel 2019 ha diretto due cortometraggi: Come un uragano senza identità e Circling paths, premiati in festival internazionali. Nel 2021 ha esordito con il romanzo La verità delle cose negate.

domenica 26 marzo 2023

Nazario Pardini legge " Sintomi Poetici " di Marisa Cossu

una navigazione in un mare di sin estetiche

 onde peregrine verso l’ isola della pace

 

Vento marino

“ Va dove vuole il vento e non dimora

 che in lati spazi aperti a sciolte briglie,

 talvolta in bianche valve conchiglie

 da cui la voce antica lieve affiora.

 Di canzoni e lamenti suona ancora

 l'eco delle sommerse meraviglie

 di alberate triremi e di flottiglie

 perse per sempre in fondo ad una gora;

 ma l'onda, con la voce sua sonora,

 tutto ricopre anche le ritte chiglie

e la sirena che adorna la prora.

 Esala il mare un sogno che svapora

e a sé traduce quelle meraviglie

 nel roseo cielo di una nuova aurora. “

 

Iniziare la mia esegesi sulla poetica di Marisa Cossu partendo dalla poesia incipitaria significa andare fin da subito nel cuore della sua poesia. Del suo canto, antico e moderno. Antico perché ripercorre le orme dei padri, moderno perché scopre gli input, i più intimi segreti,le problematiche più attuali del mondo umano. La poetessa apre la sua silloge con un sonetto di perfetta armonia petrarchesca. Il percorso di questo poema si snoda su un andare armonico e vitale, eufonico e intimo, sensibile e umano. Molti i temi toccati e tutti riportano alla vita e ai suoi marchingegni misteriosi : il sentimento, la passione, il memoriale,la rievocazione di tempi e luoghi dove l'io viveva arie di primavera, luce di soli abbaglianti e dove l’amore e il sogno alimentavano l’esistere. Tutto scorre liscio, franco, personale , e tutto è il ritratto di un’anima che posa su un vassoio d’argento la sue entità spirituale. È raro incontrare una poetessa che sa fare della vita un'opera d'arte e Marisa ci riesce affidandosi alla sua esperienza scritturale fatta di sinestesie e metafore, di iperboli che danno luce all’ insieme. Si tratta di un viaggio per mari infiniti, pieni di trabucchi e di scogli, dove è facile perdersi fra i pelaghi insaziabili. Ma la Nostra non si smarrisce, rìprende la rotta anche dopo avere sbattuto la barca; si affida ad una tavola scampata al naufragio e si dirige verso la sua isola di pace e di armonie. E là che trova la sua destinazione,là dove i sintomi poetici l'attendono pronti a reificare le sue malinconie, i suoi patemi, e le sue allegorie. La Cossu è alla continua ricerca di verbi e strutture ritmiche di raro valore sintagmatico. La parola si ampia o si restringe per seguire Ie emozioni di cui il testo è zeppo. Il sintagma, lo stilema, il complesso gioco morfosintattico sono lì a disposizione per concretizzare le rare fasi del dettato poetico. La varietà degli scritti della silloge ci danno la contezza del valore della poetessa che trova nei suoi plurali componimenti il sistema di farsi conoscere, di far conoscere la sua sapientia culturale e il suo magmatico mondo versificatorio. Dacché i vari testi della silloge, sono pronti a significare la grandezza di un'autrice polimorfica e plurale, la sua immensa capacità di incastonare verbi e sintagmi in versi di iconica valenza. Sbizzarrirsi nelle diverse forme poetiche non è da tutti, (rondò, sonetti caudati, sonetti elisabettiani, acrostici. ..) ma la poetessa con la sua chalance  prosegue nel suo cammino dando spazio signifìcante alle esplosioni del suo intelletto, sia che si tratti di un autunno melanconico e velato:

 

l'autunno

“ Vedi, l'uggioso Autunno si alimenta

 nell'aria sonnolenta

di voci e d'ombre sperse e soffocate.

 È pausa della,l’ira che rallenta

 nella stagione spenta

 tra foglie morte ed armonie velate.

 

 Cade l'oro del giorno in una lenta

malinconia che inventa

 nebbiosi abbrivi e musiche stonate;

 vedi mutare l'ora quasi stenta,

 la pioggia si lamenta

con voce roca per strade bagnate.

 

 E triste appare, dove già ricama

d'ombra la griglia trama di una fuga di sole, il cielo immoto,

 un disegno remoto,

una voce dall'alto che ci chiama.

 

E il volo degli stormi, unico moto,

sospiro dentro il vuoto,

 presagio dell’ inverno che proclama

 nell'esistenza grama

 la prigionia dell'uomo e dell'ignoto. “

 

sia che si azzardi a descrivere con dovizia di particolari la forma della pietra:

 

 La  pietra

 “Non può la pietra sciogliersi

 avere forma d'acqua, quando penetra

 nell’ima terra e provvida

disseta semi ed erba, e vita genera.

 

 La pietra è un corpo ruvido:

un cuore inaridito, sempre immobile,

 

 accovacciato e misero

 rimpiange il limo nero, da cui origina

 

un filo verde timido

 di una speranza, forse, che lo illumini.”

 

 o la sfuggevole voce dell'acqua:

 

Acqua

“Quel getto che zampilla dalla roccia

l'acqua sorgiva che costante sversa

 dalla gravina un rivo, da cui sboccia

 l'antica voce incatenata e spersa,

 

 corre veloce dove lignea broccia

 lo stringe con la forza più  perversa.

 Grande fatica unire goccia a goccia

 l'acqua che rugge e che riemerge tersa.

 

Rivolo stanco e memore del viaggio,

 rassomiglia alla stanza della vita:

sotto la terra dura perde il sole,

 

 ma continua la corsa dove vuole

 e cerca uno spiraglio, una ferita,

 che lo conduca a un provvido passaggio.”

 

 sia che si tratti dell'acqua che tanto rassomiglia alla stanza della vita nel suo cammino in uno spiraglio che la conduce a un provvido paesaggio.

 Ricco l'uso del vocabolario, ricchi gli intarsi di parole e suoni, di visioni e bucoliche immersioni, dove ogni termine trova la sua portata iconica e visiva. Tutto si fa significante e audace, tutto è importante  e necessario in questo Poema di grande portata epigrammatica. E' qui che l'anima della Marisa Cossu si disperde, lo fa nei marchingegni costruttivi dove trova casa, una casa accogliente che dà ospitalità ad un ingegno esuberante. Ma è forse nella poesia di chiusura che la poetessa trova palpiti lirici più immediati per abbracciare l'animo di chi legge. Poesia dove con riferimenti biografici esprime quella solitudine che condanna ogni poeta:

La Porta

“ Forse verrà di notte al capezzale

la tua sempre fuggevole presenza,

come solevi quando ero bambina

 e la luce spegnevi scomparendo

 dietro la porta scura della stanza.

Finalmente mi prenderai la mano

 protesa a te nel tremito nascente

 dalla mia stanza vuota, dal dolore

 bruciante dell'addio

 che chiuderà la porta.

 E non avrò potuto, come allora,

 dirti che t'amo e che mi sento sola. “

 

Una silloge complessa e armonica, plurale e polisemica, dove ogni parola ha un senso, ogni verso ha un suo connotato e dove la parola giusta nel verso giusto fanno di questo elaborato un insieme di forme poetiche in cui l'anima trova il suo posto.

Nazario Pardini