martedì 31 ottobre 2017

EMANUELE ALOISI: "SPIGHE DI GRANO"

L’autore ha avuto l'onore di conoscere il grande pittore, di origine calabrese, Azzinari, detto il pittore del vento.  Nel vedere le sue tele, di getto, ha scritto questo testo. Ma, in verità, questo è il classico testo che scrive, da quello che confessa,  rapidamente e inconsapevolmente.....

Spighe di grano

Come spighe di grano
siamo gli uomini
prima di nascere dei semi
di grano e spighe d’altra terra
di un altro canto tra le zolle
e tra i colori di papaveri
dei cardi
e delle spine di altri voli
dei canti in cielo di farfalle
ai piedi forbici taglienti
agli apici dorate voci
tra l’ombre nere delle querce
rosari pregni di fantasmi
e gocciole di pioggia sugli steli
sulle lenzuola delle viola
di ciclamini in bellavista
e chini tamerici silenziosi.

Come spighe di grano
siamo gli uomini
spostati
tra tempestose cime
e mari tumultuosi di coralli
agnelli muti, ignare offerte
altari ornati di candele
e lucciole
disperse sugli scogli
belati
e dissacrati sacramenti.

Sussurra il vento
Il luccichio dell’oro
di notte sussurrando
tra le stelle
portando chicchi ovunque
in altre terre, in altri campi
dove la pioggia danza
uguale
e sgocciola succose gocce
di melograni appesi
abeti spenti all’orizzonte
e voli di farfalle sempre uguali
papaveri
e veli rossi di vestiti
agnelli privi di una voce
nelle carezze delle mani
di un vento uguale
tra le corde,
destino che non è diverso
come l’avverso campo.

Come spighe di grano
siamo gli uomini
ricolme urne
di cenere, l’ignoto che sfavilla
scintilla
nell’incessante vento
che pregno
sussurra impavido divino.






lunedì 30 ottobre 2017

CLAUDIO FIORENTINI: "NUOVE DA CAPTALOONA"


Claudio Fiorentini,
collaboratore di Lèucade

Oggi parliamo di "Il gioco delle mantidi", silloge scritta a quattro mani da Aia Ianniti e Marco Mastrilli, e di "Fiori di Ginestra", un saggio narrativo sulle brigantesse, di Maria Scerrato. E poi musica!
Buon ascolto


https://www.spreaker.com/user/performingradio/visioni-da-captaloona-30-ottobre-2017

domenica 29 ottobre 2017

giovedì 26 ottobre 2017

N. PARDINI LEGGE "VITA" DI C.FIORENTINI

Claudio Fiorentini,
collaboratore di Lèucade

Un inno alla vita, al suo misterioso e magico cammino; al suo gioco di andate e ritorni; di fughe e di abbracci; un amore pulito, dialettico, sacro, infinito, terreno, dicotomico per questa sofferta e amabile dualità che si prolunga a suo piacimento: “So che finirà/ - un giorno, una notte, che importa -/ il nostro gioco/ allora smetterò di desiderarti, vita/ e tu ti girerai dall’altra parte in cerca di nuovi avversari...”. Momenti di cielo a volte azzurri e altri  di foschia, d’altronde fra innamorati non sempre le cose corrono lisce: si alternano ad attimi di sperdimento emotivo rapporti di incomprensioni vicissitudinali.  Il poeta è cosciente della fugacità del tempo e della precarietà di una occasione fatalmente toccatagli; si tratta della sua storia, di questa meravigliosa avventura, di questa compagna a volte appiccicosa, a volte distante, ma sempre burlona, schiva, birichina; la prende così come è con tutta l’umoralità che la distingue, con tutto il bagaglio di atteggiamenti ora piacevoli ora meno, perché non è possibile starne senza, è vita, ed è fondamentale riflettere sul fatto che esistiamo. Ma sa, anche, il poeta, che un bel giorno, non importa quale, essa lo lascerà in cerca di nuovi avversari: morire è come porre fine a questo rapporto con una donna fatta a modo suo: “perché io so che sei, vita/ unica, così.” Ma ciò non toglie che la si possa amare con la più intensa felicità: “Sarà così, per me, per sempre:/ vivere cercandoti, vita, e mai trovarti/ ma sempre felice, spudoratamente felice…”. L’autore, da buon mortale, fa del suo esistere  una conflittuale  passione di odio-amore; e lo strappo non è poi  una tragedia greca: fa parte del gioco; ne è un componente imprescindibile. I versi, con un movimento ritmico di varia estensione, visualizzano il succedersi articolato del tessuto emotivo.

Nazario Pardini


VITA

Così come sei
burlona, schiva, birichina
o vita
ti terrò con me, fino alla fine.
 Sei bugiarda, tentatrice
e vinci sempre al gioco...
Ti piace, in particolar modo, giocare ad acchiapparella
io ti cerco e ti seguo
senza mai afferrarti.

Ma no, mento, ti ho presa, sì, ricordo
era una notte di luglio
e da allora abbiamo sempre giocato insieme
io qui e tu la mia avversaria.

È una sciocchezza, sai? In realtà è bello così: io e te
siamo fatti per spiarci, per desiderarci
per avere notti piene di sogni
e sogni pieni di nuove possibilità
ma mai per toccarci.
Noi due, vita, siamo quelli del nascondino
tu da una parte e io dall’altra,
siam fatti per eluderci e null’altro.

So che finirà
- un giorno, una notte, che importa -
il nostro gioco
allora smetterò di desiderarti, vita
e tu ti girerai dall’altra parte in cerca di nuovi avversari...
Io, stanco delle tue beffe, capirò
perché, vedi, gli occhi che ti bramano sanno che averti
tutta, completa, fino in fondo
ucciderebbe il desiderio
lo stesso che oggi
mi fa credere alla felicità
e mi porta a cercarla.

Sarà così, per me, per sempre:
vivere cercandoti, vita, e mai trovarti
ma sempre felice, spudoratamente felice
perché io so che sei, vita
unica, così.

Claudio Fiorentini
7 maggio 2017


MARCO DEI FERRARI: "PISA E IL CIBO NEL MEDIOEVO"

PISA e il cibo nel medioevo
(un itinerario)

Marco dei Ferrari,
collaboratore di Lèucade

Un inquadramento di “cultura” alimentare per l'area pisana si può ricollegare all'ampia documentazione riferita alla realtà storica toscana. Prescindendo dall'età barbarica, e valutando la situazione economico-politica del XI secolo, non si possono dimenticare la profonda dicotomia tra le classi sociali (dominanti e dominati), la crescita demografica (dopo la stasi della caduta imperiale romana) e la diminuzione delle aree coltivate per aumento delle riserve signorili di pascoli, caccia e pesca.
Distribuendo la disponibilità dei prodotti alimentari più indicativi nei modelli adattati alle varie esigenze di consumo dei secoli della potenza pisana, si può altresì schematizzarne il quadro storico:
A) – Gli albori della presenza pisana assistono ad un “ritorno” del pane come elemento principale di sostentamento per tutta la popolazione (in primis per i contadini), unitamente ai resti di animali macellati (riservati ai servi della gleba) ed alle zuppe di verdure stagionali e di legumi (ceci – piselli – fave...) consumate con pane intinto in ciotole adatte all'uso (polenta di fave e minestre di cereali inferiori -paniccia con latte-) ovviamente ferma restando la preferenza per la carne (destinata ai ceti più abbienti).
B) – nei secoli XI e XII (consolidamento della Repubblica pisana) le risultanze delle Crociate tra l'altro contribuiscono alla diffusione del consumo di spezie orientali e zucchero. Le spezie sostituiscono il sale (ingrediente preziosissimo che solo gli aristocratici più ricchi possono permettersi) e si utilizzano anche in funzione curativa (v. crescita professionale dello “speziale”) riservata inizialmente ai monaci.
C) – A partire dal XIII secolo (esplosione economico-politica di Pisa) si diffonde l'uso delle uova (conservate nella segatura, calce, sale, olio...) che si impongono sempre più se il “Liber de cucina” del XIII secolo (anonimo toscano) così le indica: “de ova fritte, arrostite, sbattute è si noto che non bisogna dire d'esse”...     
La conseguenza della crescita nell'uso delle spezie si evidenzia anche sulle tavole dei “signori” dove appaiono cannella, zenzero, noce moscata, cumino, zafferano, mentre ai contadini non mancano erbe aromatiche più economiche come menta, aglio, origano, timo.
Nei secoli XII e XIII non possiamo poi dimenticare la pubblicazioni di libri di cucina-ricettari (anche sulle tracce della cucina povera) e sulle “buone maniere” a tavola accettate negli ambienti di corte.
Contestualmente il '300 (declino di Pisa) assiste alla maturazione della civiltà culinaria toscana con l'importanza crescente del cibo,  del vino e il consumo della pasta semplice e ripiena (raviuolo) come si ricava da una ricetta proposta dal mercante fiorentino Saiminiato dé Ricci.
Analogo ragionamento possiamo fare per la diffusione delle “lasagne” (condite con ragù di carne), che comportano la nascita di una vera e propria categoria di professionisti (lasagnai) e l'adozione della forchetta (citata in una “novella” del Sacchetti).
Nei momenti di carestia, all'epoca molto frequenti, si ha notizia altresì del consumo in Toscana (e nel contado pisano) di un pane migliato da cui deriva un tipo di gnocchi detti “strangola preti”...
Miglio e castagne con polenta e verdure costituiscono infatti il nutrimento delle classi meno abbienti sia in pianura che in montagna.
Proseguendo nello schema, si rileva che il secolo XIV è quello della peste, dove si masticano erbe, si utilizzano spezie e si usa l'aceto (con pane) molto considerato come disinfettante curativo.
All'epoca poi degli “accostamenti” gastronomico-sociali e dell'arricchimento dei prodotti poveri (nobilitazione degli stessi: come esempio per l'aglio con l'agliata) anche il vino si consuma in tutti i ceti sociali(testimonianze presenti nei “Tacuinum Sanitas” - manuali di scienza medica nella seconda metà del XIV secolo).
Dalla fine del 1300 e nel 1400 (crisi e fine della Repubblica Pisana) si verifica una profonda trasformazione della cultura europea che si riflette nella cucina toscana. L'estetica e la dimensione qualitativa nella cultura gastronomica divengono predominanti con una profonda spaccatura tra alimenti destinati alle classi agiate e al volgo (anche se l'“immaginario” aristocratico non esclude una convergenza di gusti e abitudini tra le classi). Queste considerazioni emergono dalla lettura del ricettario dell'Anonimo Toscano. Il gusto comunque si evolve e si democratizza (o quasi) come le spezie che vengono progressivamente sostituite dallo zucchero (ingrediente costoso), mentre le “distinzioni” sociali trovano altre forme di strutture gastronomiche per evidenziarsi.
Dunque in questi secoli la centralità delle verdure, le carni salate, la salsa all'aglio, il dolce-salato (agrodolce)caratterizzano buona parte dell'alimentazione consumata dai ceti popolari, mentre i “grandi pranzi” (ovvero la grande “cucina”) costituiscono un'altra morfologia e sintassi di cultura gastronomica destinata alle classi dominanti.
I pranzi aristocratici ad esempio iniziano con vini bianchi cui seguono carni servite con mandorle e spezie, poi formaggi e tortini con datteri, miele e frutta.
Nel “buio” pisano (ormai Pisa sottomessa a Firenze) ricordiamo famosi banchetti medicei come il banchetto di nozze di Bernardo Rucellai con Nannina dé Medici (1446) e quello di Lorenzo il Magnifico con Clarice Orsini (1469), chiare testimonianze di una cucina anche “scenografica”, sempre riservata comunque all'elite di potere.
Pisa (ormai politicamente estinta) segue gli itinerari della cucina toscana a guida fiorentina (sempre distinta tra ricchi e poveri) e assiste con il “libro de arte coquinaria” (1456) del Maestro Martino da Como (il più prestigioso cuoco italiano del secolo), al passaggio dalla cucina dell'Alto Medioevo a quello rinascimentale, culturalmente definito da nuove ricette; tecniche nuove di cottura dei cibi; princìpi igienici e dietetici in ascesa.
Il Medioevo pisano anche gastronomico è finito.


Marco dei Ferrari

PATRIZIA STEFANELLI: "DIALETTO: LA LINGUA MATERNA"

Dialetto: la lingua materna
Èccheme bella méje ca so menute,
i gran sospiri tuoi m’hanno chiamate.


Patrizia Stefanelli,
collaboratrice di Lèucade

Stare qui a Gaeta, la cittadina che mi ha cresciuta, ad ascoltare, non vista, le voci di dentro, le mie e quelle che mi giungono da una finestra aperta su via Indipendenza, non ha prezzo. Sono una ladra di suoni. Le voci sono di due donne anziane e alcune parole mi restano oscure. Il senso, però, quel gramelot che mette insieme onomatopee, ritmi e parole tronche, accende il giullare che è in me. Gesticolo al pubblico assente e comprendo dal non detto, dai silenzi, dalle risate. Faccio mia la mimica, il mondo unico dei personaggi, la loro favola. Sono le tre del pomeriggio di un’estate calda e afosa. Un gatto passa indifferente. Mi getta appena uno sguardo e se ne va. Mi tornano alla mente gli studi per la tesi universitaria sul teatro dei luoghi e le tradizioni. La voglia di approfondire la scrittura dialettale si fa necessità. L'oralità è ben diversa, i suoni hanno piccole ma incisive diversità nella scrittura. Via Indipendenza è un lungo budello di pietra lavica, si snoda da Montesecco a Calegna (quartieri) e attraversa il primo insediamento di pescatori e contadini risalente al XVIII secolo.  Nel suo lungo percorso ha vicoli a destra e a sinistra. I balconcini quasi si toccano e quelli con i vetri al sole rendono la luce a quelli in ombra. I bassi, locali al piano terra, sono abitazioni; un tempo erano stalle. Anche le stalle, fino a una quarantina d’anni fa, erano abitate. Il somaro stava sotto e sul mezzanino si dormiva. Non c’è che dire, al mattino, la sveglia, si sentiva di sicuro. Il dialetto gaetano ha differenti sfumature riscontrabili tra la “parlata” del Borgo (di cui fa parte la nostra via Indipendenza), ex comune di Elena fino al 1927, e Gaeta Sant'Erasmo (Gaeta vecchia), sede del Regno delle due Sicilie fino al 1861. Gaeta vive ancora tra storia e leggenda, tra mito e fantasia popolare. Diodoro Siculo la collegò agli Argonauti che da queste sponde passarono e al nome di Eeta, padre di Medea e re della Coclide. Strabone, invece, indicò il termine kaiétas (cavità) usato dai pescatori Laconi per indicare l'insenatura del suo golfo. Virgilio poi, ah Virgilio nell'Eneide, trova l'origine del nome in Caieta, la nutrice di Enea, sepolta dall'eroe su queste sponde. Nel libro VII 1-2 dice: "Tu quoque litoribus nostris Aeneia nutrix Aeternam moriens famam Cajeta dedisti". Dante Alighieri, dopo Ovidio, conferma tale avvenimento ne "La Divina Commedia" tramite il racconto di Ulisse: "Quando mi dipartì da Circe, che sottrasse me più d'un anno là presso Gaeta, prima che sì Enea la nomasse...". Cicerone la nomina in una lettera ad Attico: "Sono state sbarcate a Gaeta le statue che mi hai procurate". D’altronde egli, così come tanti consoli Romani, aveva in questi luoghi la sua dimora estiva e qui, tramite i sicari di Antonio trovò atroce morte. Che storia meravigliosa hanno i paesi! Una storia che nei secoli ha portato alla lingua del popolo, parola “intima” con cui capirsi al volo, segreta ai più, la quale rischia di perdersi e che è preziosa fonte delle nostre radici. Dal 1032, anno in cui tramonta il ducato dei Docibile, Gaeta subisce varie dominazioni: longobarda, sveva, angioina, aragonese e prima ancora, nel 500, era stata dominio di goti e bizantini. Dal 1504 al 1707 la dominazione spagnola fu davvero importante sia per il folclore sia per la lingua. Ahimè, agli spagnoli seguirono gli austriaci durante la guerra di successione spagnola e in seguito, nel 1734, i Borbone, ramo cadetto della dinastia dei Capetingi, di origine francese. E fu così che avemmo vocaboli come: Mammalucche (rimbambito – dall’arabo mamlùk, schiavo comprato), Mastranfone (capintesta, caposquadra da maste+ranfe, dal longobardo rampf, artiglio), Paposce (ernia scrotale, dal francese poche du papa), La buatte – barattolo dal francese boîte, Scuppètte (fucile, dallo spagnolo escopeta), Utriarese (adagiarsi, rotolarsi per terra, dal francese vautrer), Ciù ciù (chiacchierio, moine dal francese chou chou), Fà scé scé (cercare rogne, dal francese chercher), ‘Nfranzesàte (cattiveria a significare: contagiato dai francesi i quali portavano malattie veneree) e tanti altri. Curiosità desta l’ortoepia tenendo conto della fonazione che considera la vocale “e” (non accentata) come nel parlato francese. Il suono è debole e si ottiene emettendo il fiato con la bocca appena aperta. Entrando un attimo nel testo poetico che propongo in lettura, per facilitarne la comprensione, devo precisare: nel vernacolo gaetano tutti i verbi, nel tempo infinito, troncano le desinenze areereire, conservandone la prima vocale che è accentata; l’uso dell’indicativo imperfetto, adatto a esprimere un’azione che si ripeteva abitualmente, vede la desinenza “éje”: (…) sagliéje (letta “éie”, con una pronuncia della i tra gli-dolce e i).   
Gli avverbi si traducono con perifrasi e ancor di più con onomatopee. Porgo spiegazione dell’avverbio di modo Lòcche lòcche.  L’ho usato come sinonimo di piano, lentamente, ma è anche, a mio avviso, derivazione di allocco (che a sua volta è usato per dire: goffo, attonito, svagato, ingenuo). A un orecchio attento, lòcche lòcche, aggiunge il suono degli zoccoli dell’asino sulla via. Insomma, in italiano non è facilmente traducibile. Per tutto questo, tenendo conto della musicalità e dell’armonia peculiari alla poesia, è utile leggere un testo dialettale basandosi sul suono e sul ritmo.


bibliografia: Gliù ruuoce di Salvatore Antetomaso


Poesia vincitrice del “Premio D’onore e di Merito” al Premio Nazionale di Poesia "Patrizio Graziani" IX Edizione (2017) - Associazione Culturale Teatro Fiore – Gioia dei Marsi (AQ)
metro: endecasillabi e settenari

Lòcche lòcche sciugliènne le preghiére

… apuó se stétte alla muta e ‘ntraménte
ca gli’asene pe vie se ne sagliéje
-cuórpe de troppe juorne e soletudene-
cu nu sussurre surde,
che paréje lamiente de penziére
annascùse, sgranéje perle d’óro.
Lòcche lòcche sciugliènne le preghiére
a gliù quadrìvie la fronte signéje:
Arena Rossa, Cuostolo e Catena*
‘ncòppe a tutte l’antica cappelletta
de la Madonna séje, de gliù Colle.

“Vire la sporta méje? Ne tè niénte,
chiglie póche de rane gli’ho lassàte
a signà, pe turnà, la vie de case,
de gliù passagge signe.
T’arraccumànne  ‘stu sumaru mije
jè viécchie e dóje sullécchele abbàstane…
Vé isse, addò vach’io
oppure io cu isse, ma jè stessa cóse.
Abbracceme Madonna; la fruttàte
sia tante a chélla vigna bèlle. Vire?
Vire la sporta méje?”

Juste juste nu po’ aizéje gli’uocchie iènne
all’Erta* ca la Fémmena aspettéje.
Scignéje cante a la piane in rechiàme:
Èccheme bella méje ca so menute,
i gran sospiri tuoi m’hanno chiamate
.
Rispunnéje la Tèrre séje, mut[e
a] chigliu poèta ch’ancóre luntane
la sentéje vibrà
comm’é ‘n’amante ch’Amore apprepàre.


*Denominazione di alcune zone di campagna.


Traduzione dal dialetto di Gaeta.

Piano piano sciogliendo le preghiere

… poi stette zitto e intanto/ che l’asino per via se ne saliva / -soma di troppi giorni e solitudini-/con un sussurro sordo/ che sembrava lamento di pensiero/ ascoso, perle d'oro egli sgranava./Al passo lento scioglieva preghiere/e al quadrivìa la fronte si segnava:/Arena Rossa, Cuostolo e Catena, /in sommità l’antica cappelletta/della Madonna sua, quella del Colle. /“Vedi la sporta mia? Non tiene nulla/quei pochi chicchi li ho lasciati andare/a segnar, per tornar, la via di casa o / del passaggio il segno. /Ti raccomando questo mio somaro/è vecchio e due carrube ora gli bastano…/ Lui viene, dove io vado/ oppure io vado con lui, ma è lo stesso. / Abbracciami Madonna; la fruttata/ sia tanta a quella vigna bella. Vedi?/ Vedi la sporta mia?”/ Appena alzava gli occhi mentre andava/ all’Erta* la sua donna lo aspettava. / Scendeva canto alla valle in richiamo:/ “Eccomi bella mia che son venuto/ i gran sospiri tuoi m’hanno chiamato”/E rispondeva la Terra sua, muta/ a quel poeta che ancora lontano/la sentiva vibrare/ come un’amante che Amore prepara.


Patrizia Stefanelli


RODOLFO LETTORE: "LETTURA DI POESIE" LINK

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martedì 24 ottobre 2017

ANNALISA RODEGHIERO LEGGE: "ARTIGIANATO SENTIMENTALE" DI GABRIELE BORGNA



Artigianato sentimentale di Gabriele Borgna
         Puntoacapo Editrice, 2017
Lettura di Annalisa Rodeghiero: IL MESTIERE DI SCRIVERE



Annalisa Rodeghiero,
collaboratrice di Lèucade

È dunque un mestiere quello cui allude il titolo, un mestiere del cuore se è in esso che risiede il sentimento.
A questo, infatti, mi fa pensare il titolo dell’opera d’esordio di Gabriele Borgna, dove per mestiere mi piace intendere quel genere d’attività cui l’artigiano si dedica con fantasia e passione e che lo porta a forgiare oggetti preziosi, perché frutto di un lavoro coordinato tra l’ingegno e le mani.
Ma qui il prodotto non è oggetto da esporre e da mettere in vendita bensì materia d’ordine superiore, qui si tratta di poesia. Poesia “del sentimento”, termine che origina dal verbo sentire e non si allude tanto a un sentire del pensiero ma a una percezione interiore dell’essenza delle cose. Ecco perché posso dire di aver riconosciuto fin dai primi versi l’autenticità nella poesia di Borgna.
È poesia del sentimento dei sentimenti, è poesia d’amore. Un amore a tutto tondo che trae nutrimento dall’aspra terra ligure: Pare di scorgere il firmamento/ intero scivolare sulle durezze/ di questa dalia minerale, / dedalo di crinali e muri di scogli, per poi innalzarsi ad accogliere e cantare la sua donna: Atollo del bene, terra/ per tutti nei naufragi e il figlio non ancora nato ma già percepito come il rovescio del nulla, / il volto di un bene intraducibile/ che tiene tutto in sé e/ tutto, tutto ricapitola. Colpisce immediatamente la bellezza formale dei primi versi citati in cui il poeta si avvale anche dell’uso di un efficace enjambement: firmamento/ intero; ma ad incantare qui, a mio avviso, è soprattutto, l’intensità della parola, che non nasce dalla parola ma da un sentire interiore, profondo, universale.
Continuiamo dunque a riflettere su questa parola d’amore. Si tratta di un amore che irrompe nelle prime poesie come impasto totale di spirito e materia: Amore, / su di noi non neve/ cade ma farina bianca/ che il pensiero amalgama/ e nel tuo nome lievita. Dell’immensità e della continuità di questo amore Gabriele è pienamente consapevole e lo dimostra nella splendida dichiarazione: Io per te sarò un oceano, un eterno/ flusso senza fine, dall’onda lunga… (altro stupendo enjambement). E subito si percepisce il bisogno di rivelare la gratitudine per l’amore ricevuto, nella chiusa sublime di Tesoro mio:
Ma più d’ogni altro tesoro
vale il clima nuovo che dài,
la brezza che rinnovi,
il senso della vela per il viaggio
che ha rotta nel tuo nome.

Questo amore intenso ha ancora più valore, in quanto sembra essere una conquista recente e forse, inaspettata: e tu, sei giunta a Natale/ come il più bello dei doni. E allora accade, che dopo aver letto i versi sopra riportati, il lettore, ancora altri ne vorrebbe della stessa intensità e bellezza, ma la scena sembra troppo presto capovolgersi, come se il poeta avesse scritto quei versi volgendo lo sguardo indietro, a ricordare un recente nòcciolo duro di solitudine (Apri il tuo cuore/ o nessuno ci entrerà) e d’insoddisfazione, manifesta nella fugace gloria di un’estate/ nata già morta di troppo autunno e dove s’intravede appena la feroce/ bellezza sfiorita nel composto/ duello con l’indifferenza e ancora nei versi amari in chiusa della lirica Foglie: Vai, vai anche tu/ come le foglie vanno.
Ed è da questa precarietà che nascono i tanti interrogativi che Gabriele si pone e che sappiamo essere una prerogativa dei poeti. Interrogarsi, è il loro modo di esistere, in questo universo che quanto più rivela, tanto più, poi si espande, allargando sempre orizzonti altri, allo sguardo che mai si stanca di cercare nuove verità. S’interroga, Gabriele e invita il lettore a seguirlo in un susseguirsi di domande, volutamente prive di risposta: Ma contro chi/ pensi di trionfare? e ancora: - Dopo la stazione, cosa? E per citarne un’altra tra quelle che ritengo più significative nel libro: Ma tutto ciò –poi- per quale amore? E infine, profondissima: Ma cosa provo, ora, mentre esisto?
Domande poste come incipit in alcune poesie o come splendide chiuse, in altre.
È normale, in fondo, che dall’interrogativo si possa partire (pastore d’intime ombre / con la bocca cariata / alla base del cuore) o all’interrogativo si possa giungere nel vagabondare d’anima e di pensiero. È sprofondando nella sofferenza: Il mio dolore è una pietra, / un pianeta senz’orbita, è attraversando passioni effimere, vuoti sovrapposti e rimorsi, che si possono, infine, apprezzare pienamente nuove scoperte: I tuoi fiori delicati/ rieducano le mani/ a carezze più vere.
Infatti, per l’inevitabile ciclicità della vita, mentre qualcosa dentro scivola, degrada, mentre qualcosa dentro muore, uno sguardo nuovo si apre con implacabile chiarezza:
Su questa panchina,
in questo abbraccio
principio e termino
con implacabile chiarezza.
C’è uno sguardo nuovo
in questi occhi stanchi.
E nessun senso ulteriore.
Questi gli ultimi versi di Piazza Chiesa Vecchia (au Portu), a conferma che è la sua terra, dove il vento è il suono del cosmo, dove si sente l’odore del silenzio attraverso raggi di luce, a riporta(rlo) per mano agli albori dei sogni di sabbia e la natura parla aiuta(ndolo) a impiccare ogni/ singola afflizione ai fili/ delle stese, educate all’inchino/ duro dalla tramontana.
Dalle radici quindi origina la forza interiore di Gabriele, dal solco tracciato dai grandi poeti di quella terra, origina la sua intensa poesia, spiccatamente sua ma ancorata alla tradizione. Questo l’intento che si percepisce dai suoi versi e dalle parole rilasciate in una recente intervista a Rai Tre Regione Liguria, nell’ambito della rubrica Libriamoci.
Non a caso, ha scritto di lui Giuseppe Conte, prefatore del libro: “Oso dire che Sbarbaro e il giovane Montale sarebbero stati contenti come lo sono io di leggere versi così.”
Così, come a me è accaduto leggendoli e scrivendone. 
                                                           
Annalisa Rodeghiero