martedì 31 dicembre 2019

FRANCA DONA': "MATERA (IL CIELO SUI SASSI)"



Franca Donà,
collaboratrice di Lèucade

Questa poesia di Franca Donà, nata dal recente viaggio a Matera in occasione del Premio Internazionale Itinerante "Dal Tirreno allo Jonio", è l’esempio palpante della
  versificazione e del sentire di profonda empatia naturale e culturale della poetessa.


Matera  (il cielo sui Sassi)

Mi dissero del tempo fermo ai Sassi
di una Betlemme alla finestra
ma non del cielo sopra essi
del vento che trasportava onde
e lo stupore di conchiglie bianche
sopra le case affacciate agli scalini
l’incanto degli ulivi nel canto dell’argento.
Fu quel colore denso d’oltremare
a conquistarmi i sensi, gli occhi
rincorsero le nubi avvinte dai tramonti
bagliori accesi aprirono le grotte
come sepolcri al canto della pace
e lentamente scoprii leggera poesia
come una scia di luna sul manto della notte.
Mi colse il verso del silenzio,
la magia del sole che s’oscura
e un raggio a trafiggere la terra,
il dono dell’eternità che vive
in quelle case abbarbicate al cielo.

Franca Donà







              


MARCO DEI FERRARI: "SFILO LUNGARNI"



Marco dei Ferrari,
collaboratore di Lèucade










SFILO LUNGARNI

Vagante solitario manintasca
luminanti Lungarni su Lungarni giù
fiochi spilli di lampi grumi
d'auto sfreccìo sfreno
moto bus rapidi pedoni veloci
fluorescenti occhiuti da buio grifagno
SPINA crucciosa osserva ansimi passi
quadrangolo ricamo
sbucciato sfibrato recluso
sibilo Pisa confusa... sfida
assolo d'assenza giovani coppie affianca
braccetto mano bacetto in mano
spensieri composti mercati scomposti
bar negozi palazzi basiti caroselli impazziti
sciami Natali offerti LOGGE infatue sofferte
Essere incarno da saga incompiuta
riviste giornali notizie truffali
arcanici dubbi in tasca biro? aspirina?
bersi birra?
dilag'Arno e schizza Ligabue
Mengoni Venditti Malgioglio
cenacolo Battisti rex ascolto...
passo lento bicinciampi
squillo contromano...
Che importa? Essere carne
o Spirito maceria...
così sfilano secoli Lungarni
seppellendo vivi viventi venturi.

Marco dei Ferrari

EDDA CONTE: "BUON ANNO"




Edda Conte,
collaboratrice di Lèucade
....
Contrasti di luce
echi di silenzio
sull'anno che muore...
a scaldare i cuori
la fiamma di un camino acceso
la tavola apparecchiata
il candore della tovaglia
come pagina bianca
che si anima di parole.
 Sbocceranno i giorni
sogni di magica illusione
se la vita ancora generosa
 vorrà donarci amore
a Primavera.

Buon anno, Nazario carissimo,!
Edda.


domenica 29 dicembre 2019

FRANCO DONATINI LEGGE: "RELICTA" DI BENEDETTO MAGGIO




Nell’introdurre questa nuova opera di Benedetto Maggio, non posso non sottolineare il processo di approfondimento e maturazione delle tematiche tipiche della sua poesia, la memoria unita al rimpianto del passato, l’angoscia del presente e il senso di abbandono. In sintesi il travaglio dell’uomo moderno, diviso tra la dolce e talvolta amara nostalgia del ricordo e il dramma della vita che scorre, del tempo che avanza inesorabile e tiranno.
Nel ricordo ci sono gli amori, le passioni, le persone care, gli eventi familiari quelli esterni, che costituiscono il vissuto complessivo del poeta.
Il gioco delle voci / si è già spento / e un ritornello d’ombre segna il tempo / … / all’improvviso un giorno, alla finestra… / …mi sorprende l’autunno! / con lo stanco sorriso della luce / ... / E sia l’ora che dice “tutto passa” / il vuoto del letargo, dell’attesa
È un passato che si smorza, diventa indefinito nei contorni, in questa poesia “Il gioco di voci”, che testimonia la caducità delle cose e delle emozioni.
In altri casi, come in “Quel flusso di fotoni” la luce partorisce un’immagine che il ricordo conserva intatta nella forma e nello spirito:
Quel flusso di fotoni / t’ha cercata / come a rendersi bello / in te. La luce / sul tuo ovale riposa / un’elica di riccio delicata / t’allunga le sue spire / fino al labbro.
Altre volte sono i particolari degli ambienti e degli eventi, il vago ombreggiare del fico, un porto d barche senza remi, lo sfilare dei treni, un dissolversi di ponti acque e pianura, la terra rossa dell’orto, l’agrumeto schermato a tramontana, che oltre ad essere ricordi nostalgici, assurgono a metafore del sipario della vita.

C’è poi il ricordo degli amici incrociati nel corso degli anni che hanno condiviso con noi la passione e l’emozione della poesia, come “In ricordo di Ubaldo” un comune amico poeta che ci ha lasciato troppo presto:
lo sento passare. Lo sento come quando / un ticchettio usuale e persistente / che si ferma / riecheggia nella mente / dove ha ormai preso spazio e ritmo…
Anche in questo caso c’è la percezione della persistenza fisica e spirituale della memoria:
E intorno vedo la stanza e muri / e i quadri appesi trai quali s’aggirava / il tuo febbrile pensiero 
Ma è l’amore il tema dominante di questa silloge, l’amore declinato in tutte le sue accezioni.
L’amore della giovinezza, platonico, appena sfiorato ma rimasto nella profondità della sfera emotiva:
Sebbene non ci siamo mai sfiorati / dimmi che in quel recesso del passato / a fondo penetrai / il tuo cuore indeciso / e lì m’inabissai…
E soprattutto l’amore pieno di desiderio, esaltazione dei sensi, che ancora mantiene il suo vigore di un tempo anche dopo averlo perduto:
E ne andavi orgogliosa, tu / di quella tua carne di latte prorompente / che tendendo laccetti e triangolini  / sopra le spiagge / saziava già all’istante più appetiti
C’è infine il rapporto con la morte in una doppia valenza.
La prima vissuta come fine dell’essere, come l’impossibilità di portare a termine un percorso che resta incompiuto che avrebbe avuto molto altro da dire e da fare:
L’incompiuto cessare dell’essere / questo mi opprime / e i piedi che calpestano la terra / e non lasciano le orme / o il groviglio sfuggente dei pensieri / imperfetti, lo sconfortato ripetuto approccio / ai problemi irrisolti…
La seconda come elemento di separazione tra due mondi che di fatto conservano un collegamento, si parlano attraverso le persone che abbiamo amato che hanno fatto parte della nostra sfera di affetti:
I morti ci guardano / I morti ci parlano! / … / I morti ci gridano! / e ciò che distogliemmo, delle loro parole, / ora rimbomba / un’eco assordante percuote / il nostro orecchio profondo. / È fragoroso il loro suono / assente…
La poesia di Benedetto Maggio parte da una condizione intimista, di esperienze vissute in prima persona e rielaborate per divenire un paradigma universale dell’esistenza dell’uomo nella sua completezza sensoriale e spirituale, nella sua interrelazione con gli altri con cui ha condiviso affetti, amori, passioni, nostalgie e ricordi.  Ricordi di luoghi, di persone, di eventi, rivissuti con la sensibilità di oggi, dell’uomo maturo consapevole dell’impossibilità di possedere di nuovo quei momenti, ma determinato a mantenerne la presenza nella sfera più profonda.
C’è una visione filosofica della vita e del mondo, un’astrazione che tuttavia si stempera nel radicamento concreto alle proprie esperienze senza perdere l’universalità che è un requisito fondamentale della poesia.
Tutto questo è perfettamente chiarito nel corso della silloge, in particolare nella lirica “Il frullo del passero” che rappresenta una sorta di manifesto della sua visione poetica, una forma non didascalica, ma efficacie di definire la poesia e il modo di approcciarsi ad essa:
Non cercare mai la poesia / perché Lei non lo vuole. / Non ama i cercatori, non ama i seduttori / fugge da spasimanti egoisti che l’incalzano / per rubarle una nota, un’istantanea / e posare con Lei.
Una testimonianza personale, così come fa Baudelaire in “Correspondances”, in cui si definiscono i ruoli della natura che ci circonda di cui con i nostri sensi facciamo parte, della trama di affetti e fenomeni che ci parlano con la loro presenza, di come giocano nell’espressione poetica il collegamento e l’associazione dei diversi campi sensoriali.
Solo chi si possiede queste chiavi di lettura ma si lascia istintivamente trasportare dalla sua forza coinvolgente raggiunge la poesia:
Non cercare la poesia, ti dico / perché non la troverai / o la troverai morta. / Quando vorrà, sarà Lei, a toccarti
Un modo per ribadire ancora una volta che la poesia non è ricerca stilistica e nemmeno astratta elaborazione filosofica, ma un modo originale e profondo di connettersi con ciò che ci circonda e che sta dentro di noi attraverso il richiamo poetico che giunge soltanto a chi è in grado di percepirlo.  
Un approccio complesso alla comprensione delle problematiche dell’esistenza, che si avvale di un linguaggio ricco di suggestioni e sfumature, di cui questa silloge rappresenta un’alta testimonianza.

Prof. Franco Donatini, Università di Pisa

RODOLFO LETTORE: "LINKS DI POESIE RECITATE"

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sabato 28 dicembre 2019

SILVANA LAZZARINO: "SERATA DI MUSICOPOESIA..."






SERATA DI MUSICOPOESIA CON ENNIO SANTANIELLO
Scritto da Silvana Lazzarino il 27 Dicembre 2019 

Si è svolta lo scorso 21 dicembre 2019 a Roma alla libreria Hora Felix la serata di musicopoesia organizzata dall'Iplac, con presentazione della silloge di poesie di Francesca Branca e poesie musicate dal musicista sardo Ennio Santaniello

A sugellare il successo degli incontri letterari organizzati dall’Iplac di cui è presidente Maria Rizzi, con presentazioni di libri di poeti e scrittori affermati ed emergenti presso la libreria Hora Felix a Roma (Via Reggio Emilia 89) è l’evento che ha visto protagonista la musica dell’artista sardo Ennio Santaniello e la poesia di nomi di spicco del panorama contemporaneo legati all’Iplac. Svoltasi lo scorso 21 dicembre 2019 dalle ore 18.00, la serata sarda di musicopoesia, moderata da Fiorella Cappelli Consigliera Iplac, scrittrice e poetessa, accanto alla presentazione della silloge di poesie della poetessa sarda Francesca Branca “Il tempo del respiro” con letture di Loredana D’Alfonso scrittrice, poetessa e giornalista, ha restituito un nuovo ascolto delle emozioni creando sinergie di ritmo e voce attraverso l’incontro tra poesia e musica.
A realizzare questa sincronia tra linguaggi artistici affini è stata la grande professionalità del musicista sardo Ennio Santaniello che con passione ha musicato le liriche di poeti di grande spessore donando ad esse una nuova energia fatta di appartenenze ad un tempo finito e infinito, in cui si parla di ricordi e  speranze, nostalgie e attese, con lo sguardo ad un futuro in divenire. I poeti protagonisti del reading e autori delle liriche musicate da Ennio Santaniello: Loredana D’Alfonso, Guido Giannini, Agnese Monaco, Luciana Capece,  Angiolina Bosco, Francesca Branca, Roberto De Luca, Paolo Buzzacconi, Fiorella Cappelli, Franco Campegiani, Antonio Masia, Italo Spada, Sonia Giovannetti, Aurora De Luca, Silvia Cozzi, Maria Rizzi, Stefano Baldinu, Marco Biffani, Sandro Angelucci, Nicola Rizzi.  Tra le poesie musicate da Santaniello, tutte di grande spessore e forza comunicativa accanto a “I capelli degli angeli” di Sandro Angelucci, “Un Natale di magia” di Silvia Cozzi, “Frecce necuore” di Franco Campegiani e “Donna che ami” di Guido Giannini, citiamo  “Mistero” di Paolo Buzzacconi, “Vento e mirto” di Italo Spada, “Distanza” di Luciana Capece e “Il Sole e la Terra” di Sonia Giovannetti.
Ennio Santaniello ha saputo ricamare su ogni verso di ciascuna lirica lo spessore delicato e avvolgente della melodia per far vibrare quello stato d’animo nascosto nella poesia stessa che la musica riesce a esaltare e rivelare ancor più di ogni altra forma d’arte. Qui musica e versi hanno creato un connubio perfetto dove il sentire ha avvolto cuore e mente, lungo quel filo invisibile in cui tutto sembra sospeso per riaffiorare con la vibrazione di un pensiero di ieri e di oggi, forse sognato, ma che si riflette di una luce che appartiene al percorso della vita.

Silvana Lazzarino


venerdì 27 dicembre 2019

CINZIA BALDAZZI: "SABA, CALVINO, LA LEGGEREZZA "


Cinzia Baldazzi,
collaboratrice di Lèucade
                                                   

Saba, Calvino, la leggerezza
di Cinzia Baldazzi
 
Umberto Saba

Nel 1920, vale a dire un secolo fa, Umberto Saba (1883-1957) pubblica la poesia Ritratto della mia bambina. I tredici endecasillabi sciolti, slegati da rime (non considerando la riproposta della parola «cielo» alla fine dei versi 2 e 12), sono dedicati alla figlioletta Linuccia, allora di dieci anni.

La bambina con la palla in mano,
con gli occhi grandi color del cielo
e dell’estiva vesticciola: “Babbo
– mi disse – voglio uscire oggi con te”.
Ed io pensavo: Di tante parvenze
che s’ammirano al mondo, io ben so a quali
posso la mia bambina assomigliare.
Certo alla schiuma, alla marina schiuma
che sull’onde biancheggia, a quella scia
ch’esce azzurra dai tetti e il vento sperde;
anche alle nubi, insensibili nubi
che si fanno e disfanno in chiaro cielo;
e ad altre cose leggere e vaganti.


Nel 1921 vede la luce l’edizione originaria del Canzoniere e, già prima della versione completa del 1945, è ben evidente, in analogia a questa poesia, una forte urgenza di sollecitazioni autobiografiche o morali, un bisogno estremo di confessarsi - tanto attuale nei nostri giorni - non solo nei brani genericamente di prosa, ma anche nei componimenti lirici.
Qui cogliamo Saba nel ritratto della figlia, con «gli occhi grandi color del cielo» e una «estiva vesticciola»: l’autore è solito raccontare momenti, ragioni peculiari della vita personale, nonché di chi lo circonda. In quale misura? Senz’altro tramite un organismo poetico in fieri, in costruzione, le cui singole unità prolungano i rispettivi echi trovando il più autentico significato nella dimensione del tutto. Mentre la fanciulla gioca «con la palla in mano», interviene qualcosa di imponderabile nella sua psiche, nell’anima, nel prezioso universo dell’infanzia, e la piccola si rivolge al «babbo» chiedendo di uscire con lui.
Lo apprendiamo con l’enfasi di un tono volutamente infantile, insito nella coesione logico-intuitiva del messaggio comunicato per mezzo dell’utilizzo di un discorso diretto, di un parlato familiare che, privo di esplicito filo di continuità, è interrotto dalle riflessioni appartenenti al poeta adulto: gli assi della similitudine, introdotti ed evocati dal termine letterario «parvenza», associano la bimba alla schiuma del mare biancheggiante sulle onde, al filo azzurro del fumo dei camini, ben presto dissolto dalle folate, o alle nuvole impalpabili nel chiarore della volta celeste.
Linuccia viene dunque accostata a enti naturali caratterizzati da una “leggerezza” capace di transitare sotto forma di liete apparenze attraverso la pesantezza della routine concreta, quotidiana, privata, storica.
Italo Calvino


Alla leggerezza («lightness») è dedicata la prima delle sei conferenze commissionate a Italo Calvino (1923-1985) dall’Università di Harvard nel Massachusetts per le Charles Eliot Norton Poetry Lectures. Lo scrittore le prepara nell’estate del 1985, ma al momento di partire per gli Stati Uniti, nel mese di settembre, muore improvvisamente (Garzanti le pubblicherà tre anni dopo con il titolo Lezioni americane, a cura della moglie Esther Judith Singer).
Il paragone tra i ragionamenti di Calvino e lo status elaborato da Saba, specie in Ritratto della mia bambina, è di natura dialettica, nondimeno convincente, inquietante. Così avrebbe esordito Calvino di fronte all’uditorio di Harvard:

Dedicherò la prima conferenza all'opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d'aver più cose da dire.

Saba assimila la bambina all’inconsistenza aerea di un filo di fumo o delle nuvole, o a qualsiasi altro elemento in grado di vagare nell’etere, al modo in cui le figure magiche delle fiabe percorrevano distanze incommensurabili (pur nella convinzione, ormai generalizzata, in base alla quale nessuno pensa più che la favolistica sia un repertorio esclusivo dell’infanzia). Nella prolusione sulla leggerezza, Calvino sottolinea come nella letteratura orale, generatrice dei tales, il “volo” in un altro mondo vissuto da protagonisti e lettori sia un topos ricorrente. Gli eroi e le eroine dei racconti, forse amati anche dalla nostra Linuccia, sognano diversi reami; le principesse e i loro paladini viaggiano attraverso l’aria, come sintetizzava lo studioso Vladimir Propp: «A dorso di cavallo o d’uccello, in sembianza d’uccello, su una nave volante, su un tappeto volante, alle spalle d’un gigante o d’uno spirito, nella carrozza del diavolo, ecc».
La perifrasi proposta dai versi di Saba innalza l’ampiezza musicale del suono, introducendo una seconda parte del componimento in cui tale salto espressivo-contenutistico diventa spia del modo di concepire la ποίησις (pòiesis) del nostro autore, articolata com’è in svariate tessere di un mosaico dove i frammenti, o le illuminazioni di differente matrice ideativa, si incontrano intersecati uno all’altro, legati da intime assonanze strutturali: che sono poi il segno, a un livello superiore, della stessa accidentalità, della medesima incostanza della vita, del complesso rapporto degli uomini fra loro e con le cose.
Replicare alcuni sostantivi («schiuma», «nubi») e accostare lessemi consonantici («posso […] assomigliare», «scia […] esce», «fanno […] disfanno») potenzia, in questo spazio della lirica, la musicalità dei segni-segnali scelti ad hoc, e numerosi enjambement arricchiscono il continuum colloquiale ottenuto.
Nel 1916, alludendo alla propria poetica “impura” in totale contrasto con le Scuole del Novecento, il nostro Umberto Saba, sconfortato eppure sorretto da un timbro anche aggressivo, esclama: «Quanta zavorra nella mia navicella!».
A distanza di settant’anni, Calvino esporrà la medesima preoccupazione:

La mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio.

Ma, in seguito, quella «zavorra», quei fattori discontinui dell’opera di Saba risulteranno per lo scrittore decisivi, irrinunciabili tasselli di un’interezza esauriente al massimo. Ritratto della mia bambina viene composto nell’atmosfera gioiosa successiva alla “pesantezza” e alla tragica gravità della Grande Guerra, quando Trieste, tornata italiana - lo preciserà l’autore in Storia e cronistoria del Canzoniere - suggerisce la propensione ad amare «le cose leggere e mutevoli che vagano sopra la pesantezza della vita».
Uno stato d’animo parallelo ha accompagnato, d’altronde, l’input sintattico-lessicale del brano, privilegiando moduli essenzialmente pittorici, dove l’appello sembra rivolto a colori, a fenomeni della natura còlti nel taglio specifico della loro lucentezza, trasparenza, levità e mutevolezza, indici polisemici straordinari dell’emblema universale dell’infanzia. Il brano, in sostanza, è un “racconto” con figure indipendenti, trama, punti di vista dialettici, cronologia spirituale o veristica, all’altezza di richiedere di identificarne le voci, di fare i conti con il più inquietante, evasivo, anzi il più misterioso e assiduo di tutti i personaggi di Saba: la poesia.
Anni dopo, sempre nelle Lezioni americane, Calvino esporrà una schematizzazione sul tema della leggerezza:

Possiamo dire che due vocazioni opposte si contendono il campo della letteratura attraverso i secoli: l’una tende a fare del linguaggio un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube, o meglio un pulviscolo sottile, o meglio ancora come un campo d’impulsi magnetici; l’altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni.

Il tema merita un’ultima riflessione. Una simile “leggerezza” - le cui radici, come già visto, sono comuni all’immaginifico letterario, all’etnologia e al folklore - rappresenta un simbolo a due facce: perché, se appare corretto considerare la “leggerezza” in grado di togliere il dolore di un peso inibitorio mortale, ritengo anche realistico che, per desiderarla, acquisirla ed essere riparati o trasportati in un regno in cui ogni mancanza sarà magicamente risarcita, sia necessario averne sofferto la necessità.
Umberto Saba, dunque, nell’elogiare in chiave biografica la qualità infantile della sua figlioletta, per un verso se ne rallegra, per l’altro è consapevole come la condizione fondamentale per renderla possibile sia quella di rimanere al di là delle cose, del “sistema”. Dell’età adulta in generale, dell’infanzia sofferta e infelice in particolare.


Riferimenti bibliografici
Umberto Saba, Tutte le poesie, a cura di Arrigo Stara, Milano, Mondadori 1978
Italo Calvino, Lezioni americane, Milano, Garzanti 1988