venerdì 27 dicembre 2019

M. ROSARIA DE LUCIA: "LA VITA E I COSTUMI DEGLI UOMINI NON SONO MUTATI"



PRESENTAZIONE


 “Favole …, il loro scopo è quello di rendere migliore il mondo, insegnando pure la prontezza della mente.  Non pensare che quello che  scrissi secoli e secoli fa non sia più attuale: la vita e i costumi degli uomini non sono mutati rispetto al 6° secolo a.C. quando io, Esopo, vivevo, schiavo di Xanto, sull’isola greca di Samo, e scrissi 358  favole.  I diretti discendenti di coloro che al perdono preferivano  la vendetta o di coloro che dotati di poca o nulla valenza,  quel poco lo sapevano vendere con sussiego, di coloro che, nel tentativo di salvarsi, provocarono la loro rovina, di   chi aveva e mise tutte le proprie energie per non avere più, di chi voleva apparire virtuoso, ma solo apparire, non popolano ancora il mondo? Il sentimento della gratitudine era ed è fievole.  E che dire dei menzogneri spudorati? La mia non  è una visione pessimistica dell’esistenza, o meglio, degli uomini. E’ frutto di realismo, di piena consapevolezza dell’immutabilità delle situazioni e dei comportamenti. Ho cercato di dare una risposta ai “perché” che tutti gli uomini da sempre si sono posti. Ci sarò riuscito,  grazie al mio spirito arguto, e alla mia filosofia spicciola? A voi che ancora non vivete nella Verità, lascio il mio messaggio: apprezzate e praticate il buon senso dettato dalla ragione, bandite la stupidità e lasciatevi incantare dalle piccole cose,  che accompagnano il diligente lavoro svolto con pazienza nella quotidianità”.
Se Esopo, colui che, nel mondo occidentale, ha codificato il genere letterario della favola, avesse voluto lasciarci un breve messaggio di presentazione, forse l’avrebbe fatto nei termini suesposti.  Non che la favola fosse nata con lui, giacché  ogni popolo da sempre ne curava la tradizione orale, ma lui ebbe il merito di averne fatto letteratura.  Definitivamente risolto il dubbio sulla sua reale esistenza, quanto è conosciuto sulla sua vita è stato tramandato dal Romanzo di Esopo, una biografia romanzata risalente al I-II secolo d.C., la cui prima stesura risale al V secolo a.C. perché già conosciuta da Aristofane ed Erodoto. Se ne ricava che fosse deforme di aspetto e con un difetto di pronuncia; reale od immaginaria, questa descrizione è in linea con la filosofia di Esopo: l’apparenza inganna, anche in chi è di umile condizione e di aspetto deforme non mancano doti di intelligenza, onestà, ingegno.  Qualità che non riuscirono a salvarlo da morte violenta o che, forse, contribuirono alla sua fine. Infatti per un uomo integerrimo, che aveva il dono di saper stigmatizzare i comportamenti viziosi dei suoi simili, trasferire in un contesto favolistico gli inganni, le astuzie, la sopravalutazione dell’apparenza, la miope stoltezza degli uomini, significò attirarsi le antipatie e le ire degli abitanti di Delfi che si erano riconosciuti nei suoi scritti: lo condannarono a morte, salvo poi pentirsene perché la città fu colpita da una pestilenza interpretata come punizione divina per l’omicidio commesso. 
Curiosità: il Re Sole, Luigi XIV di Francia, appassionato cultore di Esopo, volle destinare una parte dei Giardini della reggia di Versailles al ricordo delle sue favole più note: il Labirinto, su consiglio del grande scrittore di fiabe Charles Perrault fu arricchito di 39 fontane rappresentanti ognuna una favola. Una placca metallica conteneva un riassunto della favola rappresentata e, curiosità nella curiosità, i figli di Luigi XIV impararono a leggere proprio grazie a queste iscrizioni. Il re Luigi XVI sostituì l’intero labirinto con piante esotiche ed un prato all’inglese.  A proposito di Charles Perrault, autore di una delle versioni della fiaba di Cenerentola: la trama della fiaba prende spunto dalla storia vera di  Rodopide (1) (più comunemente nota come Rodopi o Rodope), il cui nome in greco significa “roseo aspetto”,  originaria della Tracia, schiava e successivamente, secondo alcuni storici, sposa del faraone Amasis (570-526 a.C.). Le colleghe di schiavitù ne erano gelose a causa della sua carnagione chiara e le infliggevano pesanti maltrattamenti. La figura di Rodopide compare nel Romanzo di Esopo: entrambi schiavi in Egitto (e cronologicamente il dato è compatibile), il favolista le avrebbe alleggerito il carico delle invidie  con le sue narrazioni.                                                  
Le favole di Esopo esercitarono sempre un indubbio fascino sulle generazioni seguenti, anche di culture diverse: nel mondo latino, Fedro trasferì in poesia quanto Esopo aveva scritto in prosa.                                  
“Ora spiegherò, in breve, il perché sia stato inventato il genere delle favole. Ci fu un tale che, nella sua condizione di schiavo (2) soggetto a padroni, non osava esprimere, come avrebbe voluto, il suo pensiero, perciò tradusse in piccole favole i suoi stati d’animo ed eluse le accuse di calunnia ricorrendo a situazioni frutto della sua fantasia. A mia volta, del viottolo (3) ho fatto una strada: alle favole che lui ci aveva lasciato, ne ho affiancate altre creandole con la mia immaginazione, attinenti alcune alla mia triste sorte”. (Fedro, Fabulae, III, vv. 33-40)  
(1)Erodoto II 134-135: … Alcuni Greci attribuiscono questa (= di Micerino) piramide a Rodopide la cortigiana, ma non è vero: costoro, secondo me, parlano senza neanche sapere chi era Rodopide, altrimenti non potrebbero attribuirle la costruzione di una piramide come quella che costa migliaia di talenti, una cifra per così dire incalcolabile; inoltre Rodopide godette il massimo splendore all’epoca di Amasi e non sotto il regno di Micerino … Rodopide era di stirpe tracia e compagna di schiavitù di Esopo, il favolista. … Rodopide giunse in Egitto al seguito di Xanto di Samo …  Erodoto IV 49: … Dal paese dei Peoni e dal monte Rodope il fiume Scio si getta nell’Istro dividendo a metà il monte Emo. … Sono stati riportati i brani di Erodoto per attestare la differenza tra Rodopide e Rodope: il primo nome, nel testo greco di Erodoto, è, il secondo.(2) Il riferimento è ad Esopo. Anche Fedro conobbe la condizione di schiavo. (3) Tracciato da Esopo.
“Divertendoti,  otterrai consigli utili per vivere: consigli che non devi  sottovalutare anche se sono bestioline o alberi a fornirteli!” (Fedro, Fabulae, I, prologo). La distanza temporale che separa Esopo (VI secolo a.C.) da Fedro (I d.C.) è di  sette secoli: in un lasso di tempo pur notevole,  la vita e i costumi degli uomini non erano minimamente mutati: Fedro, - di cultura e ambiente greco, viveva a Roma, prima schiavo dell’imperatore Augusto, poi da questi reso libero in considerazione dei suoi meriti letterari - al pari di Esopo, ebbe un processo perché Lucio Elio Seiano, politico vicinissimo all’imperatore Tiberio, aveva captato nelle frecciate di Fedro accuse ai potenti. Dell’opera di Fedro rimangono 93 favole. Per completezza di esposizione, va precisato che ne sono note altre 32, contenute nella cosiddetta Appendix Perottina, cioè nella raccolta compilata nel 1470 dal vescovo Niccolò Perotti, che ne ricavò il testo da codici ora perduti. Altri favolisti dell’antichità furono il greco, ma di probabile origine romana, Babrio (fine II secolo d.C., inizio III secolo d.C.) ed il romano Aviano (fine IV secolo d.C.).  Al pari di Fedro, non furono favolisti originali:  Babrio rese in versi le favole esopiche, riguardo ad Aviano lasciamo parlare lui stesso: «Mi arrovellavo, caro Teodosio, sul come avessi potuto legare il mio nome alla gloria nel campo  delle lettere: fu così che mi balenò l'idea di comporre favole, una  finzione   da ideare con piacevolezza e che non sia costretta  dai limiti della realtà. Ma chi ardirebbe parlare di eloquenza o poesia a te che, in ambedue i generi, superi i Greci e i Romani giacché vanti una ottima conoscenza e delle loro lingue e delle loro opere? Non ti sarà difficile individuare in Esopo colui al quale mi sono ispirato, lui che, seguendo i dettami dell'oracolo di Delfi, confezionava gradevoli storie  per  insegnare la moralità. Tra i suoi imitatori, Socrate che inserì favole nelle sue opere eccelse, e Orazio (1) che con le sue poesie, seppe fornire insegnamenti sapienti in forma scherzosa.  Spetta a Babrio il merito di aver messo in versi  le favole esopiche, lasciandocene due volumi. Da parte sua Fedro  scrisse cinque libri di favole. Ed io pubblico,  tradotte in latino e rese in versi, quarantadue favole in un sol libro, senza fronzoli: un lavoro che ti distenderà, farà leva sulla tua immaginazione, alleggerirà i tuoi crucci   e ti mostrerà tutte le abitudini   della vita. Ho dato la parola agli alberi; ho reso alle bestie feroci la sensibilità dell'uomo, agli uccelli il dono dell’oratoria, un sorriso  agli animali, per dotarli , al bisogno, di una morale che sia atta ad ognuno  di essi». (Fabulae, Praefatio). (1) La satira 6 del secondo libro termina (vv. 114-168) con l’apologo de Il topo di campagna e il topo di città. In ogni epoca ed in ogni tradizione letteraria spiccano favolisti di indubbio spessore: in Italia, l’anonimo autore del Novellino (secolo XIII), Agnolo Firenzuola e Anton Francesco Doni (secolo XVI), Giambattista Basile (secolo XVII), Lorenzo Pignotti, Aurelio Bertola, Luigi Fiacchi, Gaspare Gozzi (secolo XVIII), fino al poeta dialettale Carlo Alberto Salustri, noto con lo pseudonimo di Trilussa, anagramma del vero cognome (secoli XIX, XX) ; in Francia Jean de la Fontaine (secolo XVII); in Germania Gotthold Ephraim Lessing (secolo XVIII). Favole e non fiabe: le prime sono il racconto breve di un semplice fatterello che ha per protagonisti per lo più animali, che però personificano gli esseri umani e i loro vizi, analizzati con sottigliezza nel profondo, con l’intento di lasciare in chi  legge o ascolta un insegnamento morale. Le seconde sono il racconto ricco di fantasia che, pur con riferimenti a elementi di vita reale, intreccia le azioni di persone con esseri irreali come fate, maghi, gnomi, folletti, orchi, giganti,  dotati di poteri magici, risultandone un misto di realtà e finzione.  Costituisce il titolo della pubblicazione la parafrasi del detto lupus in fabula: si è giocato sull’assonanza tra le  parole lupus e lapis. Come ad un certo punto di una favola è prevedibile l’arrivo del lupo, così è per il sopraggiungere di una persona nel momento in cui se ne sta parlando. Ecco spiegato il detto lupus in fabula. Il lapis invece è una pietra colorante dura di cui i pittori si servono per fare i disegni. Il termine indica anche la matita, strumento base per l’esecuzione delle illustrazioni che accompagnano i testi della presente edizione la cui novità  si concretizza nel fatto che, - corredata ogni favola di un sottotitolo costituito da un proverbio, una frase celebre, un motto, una sentenza, un verso di una poesia per condensare il racconto -, si è pensato di arricchirle di positività trascendente con  brani tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento: la morale laica trova sublimazione nella Parola dei profeti e di Gesù. Imitare Gesù e non il mondo per cambiarlo in senso cristiano. Il veterotestamentario libro dei Giudici (IX, 8-15), che rappresenta il periodo storico dal XIII alla metà dell’XI a.C., riporta uno dei più antichi esempi di favola: Iotam, figlio di Gedeone, stigmatizza l’ignobile azione compiuta dai Sichemiti che hanno eletto re  Abimelech al prezzo della vita degli altri settanta figli di Gedeone:
[8] Un giorno gli alberi si misero in cammino
per andare ad eleggere un re
che regnasse sopra di loro.
Dissero all'ulivo: Regna sopra di noi!
[9] Rispose loro l'ulivo:
Dovrò forse rinunciare al mio olio
col quale si rende onore agli uomini e agli dei,
per andare ad agitarmi
al di sopra degli altri alberi?
[10] Allora gli alberi dissero al fico:
Vieni tu a regnare sopra di noi!
[11] Rispose loro il fico:
Dovrò forse rinunciare alla mia dolcezza,
ai miei ottimi frutti,
per andare ad agitarmi
al di sopra degli altri alberi?
[12] Allora gli alberi dissero gli alberi alla vite:
Vieni tu a regnare sopra di noi!
[13] Rispose loro la vite:
Dovrò forse rinunciare al mio mosto
che dà gioia agli dèi e agli uomini,
per andare ad agitarmi
al di sopra degli altri alberi?
[14] Allora gli alberi dissero tutti insieme allo sterpo:
Vieni tu a regnare sopra di noi!
[15] Rispose lo sterpo agli alberi:
Se avete davvero l’intenzione
di eleggere me vostro sovrano,
     venite a ripararvi alla mia ombra.
Altrimenti, un fuoco uscirà dallo sterpo
e divorerà i cedri del Libano!”

Il significato di questa favola, o meglio apologo, noto ad Esopo che lo inserisce nella sua opera, è che quegli alberi che producono un frutto prezioso per l’uomo non vogliono ergersi a sovrani ma vogliono continuare a vivere utilmente. Solo lo sterpo, i cui unici frutti sono le spine, vorrebbe, con arroganza e presunzione, assurgere alla carica di re, pur non avendo una chioma alla cui ombra far riparare i sudditi. Una invettiva rivolta ai potenti.  Scriveva Jacques Bénigne Bossuet, vescovo e teologo francese (1627 - 1704), nel testo Politica estratta dalle proprie parole della Sacra Scrittura: Subito che v’è un Re, altro non ha a fare il Popolo che starsene sotto la di lui autorità in riposo. Se il Popolo si solleva impaziente, e ricusa lo starsene tranquillo sotto l’autorità Reale, entrerà il fuoco della division nello Stato ed insieme con tutti gli altri Alberi consumerà il Pruno; cioè a dire il Re ed i Popoli: i Cedri del Libano saranno bruciati; insieme con la gran possanza ch’ è la Reale saranno rovesciate tutte l’ altre possanze e tutto lo Stato altro non farà che una medesima cenere. Se Esopo ha delineato l’etica, cioè i principi che  regolano l’attività nell’ambito della natura e secondo i suoi dettami, invitando i lettori a difendersi con le armi del “chi la fa l’aspetti”, l’Antico e il Nuovo Testamento dettano i principi che regolano la condotta morale dell’uomo e del cristiano alla luce della fede e della ragione guidata dalla fede, elevando la parte positiva dell’animo umano a virtù teologali (fede, speranza, carità) e cardinali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza). I più piccoli rimarranno rapiti dalle avventure vissute dai protagonisti delle favole, alle quali è stato intenzionalmente attribuito il classico incipit  “C’era una volta”, esclusivo delle fiabe. Senza, tuttavia, scorgere negli stessi protagonisti, mimetizzati, i tipi umani con i loro comportamenti e ragionamenti derivanti dai molti vizi e dalle poche virtù. I più grandi, gli adulti, carichi di esperienze di vita, riconosceranno atteggiamenti riscontrati nei loro simili e, con un sincero esame di coscienza, anche in loro stessi. Occorre precisare che, rispetto alla stesura originaria di Esopo che  aveva redatto le sue favole in forma breve, con una struttura semplice e con l’uso di uno stile popolare, pur mantenendone il “canovaccio”, si è optato  per una loro resa in forma narrativa,  arricchendole di particolari. Nelle favole in cui sono protagonisti, gli animali conservano i caratteri peculiari della specie a cui appartengono: il leone simboleggia la forza e il coraggio; il lupo la prepotenza famelica; la volpe l’astuzia; la pecora la mansuetudine; la formica la laboriosità; il cane è l’ affezionato custode dell’uomo; fino all’asino instancabile e paziente. Alla lettura, in generale, vanno riconosciuti vari effetti tutti benefici: antistress, per cui si può parlare di vera e propria biblioterapia; introduce nello stato d’animo dell’autore e dei personaggi di cui si legge, dilatando la  vita del lettore più empatico fino a donargli la sensazione di vivere nella dimensione narrata; costituisce un’ottima palestra mentale; fa acquisire la proprietà di linguaggio per comunicare con chiarezza ed, infine, predispone ad un buon sonno. Alla lettura di Esopo, in particolare, vanno riconosciuti i meriti di una resa reale della vita in cui l’unico elemento fantastico è dato dalle capacità umanizzate degli animali protagonisti. Trasmette valori, elenca le difficoltà della vita e le capacità degli uomini di poterle superare, con ironia, arguzia e conoscenza profonda dell’animo umano. Con l’auspicio che Esopo “ne … surdo narret fabulam”! (Terenzio, Heauton Timorumenos ossia Il punitore di se stesso)                    
CRONOLOGIA ESSENZIALE
Antico Testamento composto dal X al II secolo a.C.
Vangeli e Lettere apostoliche composti dal 50 all’80 d.C.
Guerra di Troia combattuta dal 1250 al 1240 a.C. o dal 1194 al 1184 (XIII- XII secolo a.C.)
Fondazione di Roma 753 a.C. (VIII secolo a.C.)
Esopo VI secolo a.C.
Erodoto V secolo a.C.
Socrate 470 o 469 a.C. - 399 a.C.
Guerre pirriche 280 a.C. – 275 a.C.
Orazio 65 a.C. – 8 a.C.
Fedro I secolo d.C.
Babrio II/III secolo d.C.
Aviano fine IV secolo d.C
                                          AVVERTENZA
Come detto nella presentazione, i testi delle favole non sono una mera traduzione dal greco, ma una vera e propria rielaborazione in forma narrativa. La “morale”, a volte, è stata completamente modificata per renderla più coerente con l’insegnamento della favola.
I DUE ASINELLI
(Vivi nascostamente)
C’era una volta una coppia di asinelli che avanzava a fatica lungo la via per il gran peso delle cariche some: in una c’era un tesoro in monete, nell’altra spighe d’orzo in abbondanza. L’asinello carico di denaro procedeva, nonostante la fatica, a testa alta pavoneggiandosi, all’apparenza, per la bella sonagliera che luccicava sul suo collo, ma dentro di sé sapeva di vantarsi anche perché, a differenza del compagno, era stato scelto per trasportare non il vile cereale, bensì il nobile metallo.
L’altro asinello gli veniva appresso con passo quieto e placido. All’improvviso, a scompigliare questa camminata, un agguato teso da alcuni banditi: il povero asinello che, per il suo carico, era ricco, è circondato, i banditi: con una spada in pugno minacciano una strage, limitandosi alla fine a tirare contro il malcapitato solo qualche fendente e a portar via il prezioso carico di monete. E per l’altro asinello, quello con il carico d’orzo? Neppure uno sguardo, perché i briganti, delle spighe non se ne farebbero nulla. Piange la cattiva sorte l’asinello bersaglio dei banditi, mentre l’altro, il negletto (trascurato, disprezzato) gioisce felice e contento sia perché ha il suo carico ancora sulla soma e sia perché, soprattutto, non lamenta ferite. Morale della favola: chi ha poco vive sicuro, chi ha molto e ne va fiero si espone al pericolo.
Proverbi: 13,8: Per riscattare la vita di un uomo c’è la ricchezza, però il povero non si sente mai minacciato.
Matteo 6, 19-21: Non accumulatevi tesori sulla terra dove tignola e ruggine consumano e dove i ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non scassinano e non rubano. Perché là dove c’è il tuo tesoro , sarà anche il tuo cuore.
Luca 12, 16-21: La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé … Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé e non arricchisce davanti a Dio.
Lettera di Giacomo 5,2-3: Le vostre ricchezze sono marcite, le vostre vesti sono state divorate dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco.
IL LUPO E IL CANE
(La libertà non ha prezzo)
C’era una volta un lupo mal in arnese, più che magro, macilento,  spossato da far pena, per la fame che lo affliggeva. Un giorno, nel suo vagabondare alla ricerca di qualcosa da azzannare, si imbatté in un cane che era proprio il suo opposto: bello grasso, col pelo lucido, se ne andava in giro solo per il piacere di godersi la bella giornata, senza preoccupazioni di sorta. Il lupo lo fermò e, dopo i convenevoli dei saluti come si usa tra animali ben educati, “come fai ad essere così grassottello”, gli chiese, “cosa mangi? Guarda me, invece, che per natura sono molto più robusto di te, mi si contano le costole e fra poco morirò di stenti”. Con molta semplicità, il cane gli risponde proponendogli: “Fai come faccio io che servo il mio padrone. Puoi farlo anche tu”. “Cosa?” chiese il lupo interessato a questa soluzione. “Fai la guardia davanti alla porta di casa, tieni lontani i ladri specie di notte”. “Tutto qua?” si disse il lupo e rivolto al cane: “E’ il lavoro per me, sono pronto. Ora nel bosco patisco il freddo per le nevicate, quando mi va meglio il mio pelo si inzuppa di pioggia, conduco una vita faticosa. Vuoi mettere come sarebbe più facile avere un tetto sulla testa e mangiare tutti i giorni fino a satollarmi (saziarmi) senza fare nulla?” Gli risponde il cane: “Vieni con me amico, hai ragione a voler mutare la tua stenta esistenza con una vita più agevole”. E si avviano verso casa. Il cane trotterella davanti e il lupo lo segue, sognando già le delizie della nuova sistemazione. Ma una cosa lo fa risvegliare: sul collo del cane c’è una chiazza tutta spelacchiata; preoccupato per il suo nuovo compagno gliene chiede la cagione. “Non è nulla”, minimizza il cane, “Dimmelo per favore”, insiste il lupo. “Quando mi comporto un po’ da pazzerello mi mettono una catena per farmi dormire durante il giorno così che di notte possa star sveglio; però al crepuscolo mi liberano e posso andare dove più mi piace. Mi portano spontaneamente il pane e non solo, il padrone arriva persino a darmi gli ossi delle carni servite alla sua tavola. E ciò che ciascuno lascia delle pietanze è mio. Che te ne pare? Senza grande sforzo mi riempio la pancia”. “Senti a me” lo interruppe il lupo, “se mi venisse voglia di uscire, lo potrei fare?” “Non proprio, amico”. “Caro cane, rimani tu a godere di tutto quello di cui mi hai fatto l’elogio”, rispose il lupo, “non voglio regnare se la condizione per essere re è quella di essere schiavo”. Morale della favola: conviene patire, liberi, la fame e il freddo piuttosto che vendere la propria dignità per il superfluo dei ricchi. Libero tra gli stenti, meglio che ben pasciuto ma assoggettato alla catena del padrone.
Deuteronomio 8,3: Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore.
Matteo 4,4: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.
Giovanni 8,32: Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi.

                               IL LUPO E L’AGNELLO
(Contro la forza la ragion non vale)
(La voce dell’innocenza)
(Le colpe dei padri ricadono sui figli)

C’era una volta un limpido ruscelletto di montagna le cui fresche acque dissetavano un lupo ed un agnello. Il lupo, che viveva ad alta quota, scorto l’agnello che beveva più in basso, volle attaccare briga pregustandone le tenere carni. Non seppe trovare di meglio che apostrofarlo con una domanda assurda: “Perché mi rendi torbida l’acqua che sto bevendo?” L’agnellino, piccolo ma non per questo sciocco, ebbe la risposta pronta e, seppur tremando, controbatté: “Come posso farti ciò di cui ti lamenti, o lupo? Io mi trovo più in basso rispetto a te e perciò l’acqua arriva prima a te e poi scorre giù da me”. Il lupo dovette arrendersi all’evidenza e tra sé e sé riconobbe che l’agnellino aveva detto il vero. Ma non si perse d’animo, non poteva farsi sfuggire quelle carni così appetitose, e continuò a rivolgersi all’agnello con un’altra assurdità: “Sei mesi fa hai sparlato di me”. Questa l’aveva sparata proprio grossa: l’agnellino non aveva ancora compiuto sei mesi. “Come posso aver detto cose cattive su di te, se sei mesi fa non ero ancora nato?” Il lupo ne sapeva una più del diavolo e mentre gli rispondeva che era stato il montone suo padre a dir male di lui, con un balzo gli salta addosso sbranandolo. Morale della favola: prepotenti non opprimete gli innocenti!
                    Il lupo e l’agnello (redazione di Esopo)
Un lupo vide un agnello che beveva in un torrente, e, adducendo qualche bel pretesto, gli venne voglia di mangiarselo. Dalla sua postazione, là a monte, cominciò ad accusarlo di sporcare l’acqua, così che non poteva bere. L’agnello gli fece presente che per bere  l’acqua la sfiorava solo e che inoltre, stando a valle,  gli era impossibile intorbidire l’acqua a monte. Caduto quel pretesto, il lupo allora riprese: “Ma tu sei quello che l’anno scorso ha insultato mio padre”. E l’agnello a spiegargli che a quella data non era ancora nato. “Bene” concluse il lupo “Anche se tu sei così bravo a trovare delle scuse, io non posso certo rinunciare a mangiarti”.
                  Il lupo e l’agnello  (redazione di Fedro)
Ad uno stesso ruscello erano giunti un lupo ed un agnello, spinti dalla sete; il lupo stava più in su, molto più in giù l’agnello. Allora quel ladrone, spinto dalla gola vorace, portò un pretesto per litigare. E disse: “Perché hai intorbidito l’acqua a me che sto bevendo?” Il lanuto tutto timoroso in risposta disse: “Per cortesia, lupo, come posso fare ciò di cui hai da lamentarti? L’acqua da te passa, scendendo, alle mie labbra”. Quello, confutato dalle forze della verità, disse: “Sei mesi fa hai parlato male di me”. L’agnello rispose: “A dire il vero non ero ancora nato”. “Tuo padre, per Ercole, disse il lupo, parlò male di me”. E così, afferratolo,  lo sbrana, con una ingiusta uccisione. Questa favola è stata scritta per quegli uomini che con falsi pretesti opprimono gli innocenti. 
       
Proverbi 13,5: Il giusto odia la menzogna, ma l’empio getta sugli altri discredito e vergogna.
Isaia 32,7: Il furbo – inique sono le sue furbizie –progetta scelleratezze per opprimere i poveri con parole menzognere, anche quando il povero può provare il suo diritto.
Matteo 2, 16: Erode … s’infuriò e mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù …
Matteo 5,11-12: Beati voi, quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi.
Matteo 5,37: Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno.
Luca 10,3-5: Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa.
                                                  
LE RANE E IL RE
(Chi si accontenta gode)

C’era una volta un grande stagno dove vivevano simpatiche ranocchiette che non avevano leggi da rispettare né tanto meno un re a cui obbedire. Ma non erano contente di questa loro libertà, non sapevano goderne: chi voleva saltare sul sasso in cui già stava placidamente l’altra, chi si lamentava per gli spruzzi provocati dalle compagne e chi voleva a tutti i costi mangiare l’insetto che aveva già in bocca l’amica; perciò si misero a pregare Giove perché mandasse loro un re che mettesse un po’ d’ordine nelle loro vite smodate; la rana più dormigliona di tutte aggiunse che le compagne gracidavano a tutte le ore del giorno e della notte incuranti delle esigenze di chi voleva riposare.  Il padre degli dèi rise a quella insolita richiesta e tuttavia fornì alle ranocchiette il sospirato re: dal cielo fece cadere nello stagno un bel travicello (e … se non sapete cosa sia un travicello, ecco la spiegazione: è un pezzo di legno, una piccola trave ricavata da un tronco d’albero che è stato squadrato). Per quanto piccolo, il travicello cadendo nell’acqua dello stagno fece un gran rumore e provocò un piccolo maremoto tanto che le rane ne furono atterrite. Corsero a nascondersi sotto il fango sul fondo dello stagno temendo chi sa quali cataclismi (inondazioni, sconvolgimenti dovuti a cause naturali). Ma passò un minuto, ne passò un altro e un altro ancora, nulla, nello stagno era tornata la calma. Una rana più coraggiosa delle altre emerge dal fango e vede che il loro re galleggia placidamente sull’acqua senza profferire parola né fare movimenti; chiama tutte le altre compagne invitandole a intrecciare un balletto sul loro re. Non se lo fecero ripetere due volte: tutte le rane saltano felici su quella nuova sala da ballo piovuta letteralmente dal cielo! Ma si sa che un bel gioco dura poco: stanche di un re che si era presentato tanto rumorosamente ma che ben presto si era rivelato placido ed innocuo, inviarono a Giove una ambasceria per chiedere un altro re, tanto si era dimostrato inutile il loro re travicello. Giove decise allora di inviare sul trono delle rane un serpentello: quando cadde nello stagno, a differenza del travicello, non fece alcun rumore, non provocò alcun maremoto, perciò le rane non fuggirono a nascondersi ed anzi gli si affollarono intorno per dargli il benvenuto. Ma … fu il serpentello a dare il bentrovate alle ranocchiette: cominciò a colpirle ad una ad una col suo dente velenoso. Inutile ogni tentativo di fuga, non ci sono difese da opporre all’infido re, non riescono neppure a gracidare tanto sono atterrite e intorpidite dal veleno. Una rana, la dormigliona che era ancora in pigiama e non aveva voluto presentarsi al suo re così abbigliata, salvatasi dal morso, fece un salto fino in cielo riuscendo a parlare con Mercurio (il messaggero degli dèi): lo supplicò di aiutarle togliendole dall’afflizione di un re tanto malvagio. Giove però, a cui Mercurio presentò la richiesta della rana, fu inflessibile e pronunciò la seguente morale della favola: vi siete lamentate della vostra buona sorte, ora sopportate la cattiva.
Michea 4,9: Ora perché gridi così forte? In te non c’è forse un re?
Matteo 6, 7-13: “Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate. Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre (*) in tentazione, ma liberaci dal male”.
Giovanni 9,31: L’uomo che era stato cieco rispose: “Ora, noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno è timorato di Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta”. 
(*) Non permettere che cadiamo in tentazione.
IL RE TRAVICELLO
Poesia di Giuseppe Giusti (1809/1850)

Al Re Travicello
piovuto ai ranocchi
mi levo il cappello
e piego i ginocchi;
lo predico anch’io
cascato da Dio:
oh comodo, oh bello
un Re Travicello.
Calò nel suo regno
con molto fracasso;
le teste di legno fan
sempre del chiasso:
ma subito tacque
e al sommo dell’acque
rimase un corbello (= balordo)
il Re Travicello.
Da tutto il pantano,
veduto quel coso:
“E’ questo il Sovrano
così rumoroso?”
s’udì gracidare.
“Per farsi fischiare
fa tanto bordello (= rumore)
un Re Travicello? Un tronco piallato
avrà la corona?
O Giove ha sbagliato
oppur ci minchiona (= si burla di noi):
sia dato lo sfratto
al Re mentecatto,
si mandi in appello
il Re Travicello”.
Tacete, tacete;
lasciate il reame,
o bestie che siete,
a un Re di legname.
Non tira a pelare (= togliere la pelle ai sudditi),
vi lascia cantare,
non apre macello
un Re Travicello.
Là là per la reggia
dal vento portato,
tentenna, galleggia
e mai dello Stato
non pesca nel fondo:
che scienza di mondo!
Che Re di cervello
è un Re Travicello!
Se a caso s’adopra
d’intingere il capo,
vedete? di sopra
lo porta daccapo
la sua leggerezza.
Chiamatelo Altezza
che torna a capello
un Re Travicello.
Volete il serpente
che il sonno vi scuota?
Dormite contente
costì nella mota,
o bestie impotenti:
per chi non ha denti,
è fatto a pennello
un Re Travicello!
Un popolo pieno
di tante fortune,
può farne di meno
del senso comune.
Che popolo ammodo,
che principe sodo,
che santo modello
un Re Travicello!


LA MUCCA, LA CAPRETTA, LA PECORA E IL LEONE
(Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio)
(Fare la parte del leone)

C’era una volta un leone che se ne andava a caccia in compagnia di una mucca, di una capretta e di una pecora: strana compagnia davvero, visto che il leone è il re della foresta, e quindi potente e prepotente, mentre le altre tre sono placidi ruminanti che solitamente non mettono il naso fuori dei loro pascoli. Ma sentiamo come andrà a finire. Insieme riescono a catturare un grosso cervo, la mucca muggiva per indicare la posizione del cervo, la capretta balzava agile per farlo andare verso il leone, la pecora belava per attirarlo, il leone, facendo le porzioni (che se ne dovevano fare gli erbivori di una porzione di carne?), dice: “Io prendo la prima perché sono il leone, la seconda perché sono forte, la terza perché valgo di più e se qualcuno oserà prendere la quarta mal gliene incolga”. Così il re con la sua prepotenza mangiò per quattro. Morale della favola: non bisogna fidarsi di persone dall’indole non solo dichiaratamente prepotente, ma soprattutto, diversa dalla propria.

Proverbi 1, 10-16: Figlio mio, se i peccatori cercano di sedurti, tu non acconsentire. Se ti dicono: “Vieni con noi, insidiamo l’orfano, tendiamo una rete all’innocente! Inghiottiamoli vivi come fanno gli inferi, tutti interi come quelli che cadono in un pozzo; troveremo così tutte le cose preziose, e riempiremo le nostre case con il frutto della rapina. Anche tu sorteggerai con noi la tua parte e tutti noi lo stesso sacco”, figlio mio, non ti incamminare con loro, scosta il tuo piede dalle loro vie! Veramente i loro piedi corrono verso il male e si affrettano a versare sangue.

Siracide 37, 1: Ogni amico dice: “Anch’io ti sono amico!” Ma c’è chi è amico solo di nome.

Siracide 37, 5: C’è il compagno che fatica con l’amico, ma per l’interesse del suo stomaco, e al momento dell’attacco leverà lo scudo.

Luca 3,13: Ed Egli disse loro: “Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato”.

LE RANE AL SOLE
(Tale padre, tale figlio)
(Da un pero non nasce una mela)
(Le aquile non generano colombe, né i leoni conigli)

C’era una volta il sole, per la verità c’è anche ora, ma quella volta aveva deciso di prender moglie. Non appena la notizia giunse all’orecchio delle rane, preoccupate, cominciarono a gracidare forte, tanto forte da recare disturbo persino alle stelle. Giove in persona chiese il motivo di tale lamentosa preoccupazione. La rana portavoce spiegò: “Divo Giove, abbiamo sentito dire che il sole si vuole sposare; già così da solo, con i suoi raggi infuocati, ci secca tutti gli stagni. Cosa succederò quando gli nasceranno dei figli?” Morale della favola: tale padre tale figlio, ossia se tutti gli uomini fossero onesti, in breve il mondo sarebbe popolato esclusivamente da persone oneste. Pare che la favola abbia avuto spunto dal matrimonio di un ladro, con le conseguenze facilmente intuibili.
Matteo 7, 16-20: Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni ed ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere.
Matteo 12, 33: Se prendete un albero buono, anche il suo frutto sarà buono; se prendete un albero cattivo, anche il suo frutto sarà cattivo: dal frutto infatti si conosce l’albero.
Giovanni 8, 42-44: Disse loro Gesù: “Se Dio fosse vostro Padre, certo mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma Lui mi ha mandato. Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alle mie parole, voi che avete per padre il diavolo , ed volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna”.
         
LA VOLPE E IL CORVO
(Chi ti adùla ti tradisce)
(Chi sa adulare sa anche calunniare)

C’era una volta un bel corvo tutto nero che se ne stava appollaiato tra le verdi fronde di un albero alto, ma non abbastanza da non essere notato da una volpe che, come è risaputo, in quanto a furbizia non è seconda a nessuno. Il corvo pregustava il momento in cui avrebbe iniziato a mangiare la fragrante fetta di torta al formaggio che, da quando l’ aveva rubata dal davanzale di una finestra, teneva ben stretta nel becco. La volpe, rivolgendosi al pennuto, mentendo e sapendo di mentire giacché sapeva bene che il corvo è nero e dal corpo tozzo, iniziò ad adularlo con queste parole: “Beato te, corvo, col tuo bel corpo ricoperto di piume tanto splendide, e che bel portamento. Peccato solo che tu sia muto, altrimenti, se la natura ti avesse fornito di una voce melodiosa, saresti stato il volatile più sublime della terra!” Stoltamente piccato perché ritenuto privo della facoltà di cantare, lo sciocco corvo non trova di meglio da fare che aprire il becco per spiegare la voce e … paffete la torta cade in bocca alla volpe! Ha voglia il corvo a piangere: mentre lui digiuna, la volpe banchetta. Morale della favola: guardiamoci dalle false lodi mosse al solo scopo di portare beneficio a chi astutamente e perfidamente le tesse.
Proverbi: 29,5: L’uomo che adùla il prossimo gli tende un laccio sui suoi passi.
Proverbi 25,27: Mangiare troppo miele non fa bene, non dire dunque parole lusinghiere.
LO ZOO DELLE FAVOLE
Poesia di Gianni Rodari (1920 – 1980)

Signori e signore,
venite a visitare
lo Zoo delle favole
con le bestie più rare.
………………………………

Vedete da questa parte
il Corvo poco saggio
che apre il becco a cantare
e perde il suo formaggio;

non ha ancora imparato
l’antica lezione:
ci costa ogni mattina
tre etti di provolone (*).


(*) Il provolone è un tipo di formaggio a pasta dura.

LA VOLPE E LA CICOGNA
(Chi la fa l’aspetti)
(Rendere pan per focaccia)

C’era una volta una volpe che diceva di essere amica di una cicogna ed un giorno, in nome della loro amicizia, la invitò a pranzo. La volpe non si diede tanto da fare per ricevere degnamente la sua amica, limitandosi a preparare una minestrina che le servì in una larga scodella. La povera cicogna quel giorno era destinata a saltare il pasto, infatti non poté toccare cibo e non perché non si accontentasse di sorbire un brodino con un po’ di pastina, bensì perché, per quanti sforzi facesse, il suo lungo becco non le permetteva di arrivare a bere se non qualche goccia. E così soffrì la fame. Non è che la cicogna sia cattiva d’animo, è solo che il proverbio “chi la fa l’aspetti” deve pur significare qualcosa. Allora a sua volta la cicogna invita la volpe, e, apparecchiato con cura, al momento di servire porta in tavola due bottiglioni: in uno dei due lei inserisce il suo lungo becco e mangia a quattro palmenti tutte le leccornie che conteneva. Stavolta è la volpe a rimanere a pancia vuota: il suo muso non entra nel collo del bottiglione e quindi, non potendo lamentarsi per essere stata lei a dare il cattivo esempio, se ne torna nella tana a pancia vuota. Morale della favola: non compiamo sgarbi perché, prima o poi, ci saranno ripagati con la stessa moneta.
Proverbi 20, 22: Non dire “Renderò male per male”, ma spera nel Signore ed Egli ti salverà.
Proverbi 24,29: Non dire”Come ha fatto a me, così io farò a lui; renderò a ciascuno secondo quello che ha fatto!”.
Matteo 5,38-39: Avete inteso che fu detto “occhio per occhio, dente per dente”, ma io vi dico di non opporvi al malvagio.
Matteo 6, 14-15: “Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”.
Prima lettera di Pietro 3,9: Non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma piuttosto benedite, perché a questo siete stati chiamati: ad avere in eredità la benedizione.
               
ERACLE E LA RICCHEZZA
(I soldi non danno la felicità)

C’era una volta Eracle che, accolto in cielo per le sue nobili virtù non meno che per la sua forza fisica, salutava ad uno ad uno gli dèi che gli esprimevano tutta la loro ammirazione (e se l’ammirazione è espressa dagli dèi che incarnano la perfezione vuol dire che è vera). Facciamo un passo indietro: all’età di quindici anni ad Eracle si presentarono la Mollezza e la Virtù; la prima gli offrì di percorrere una via agevole e piena di piaceri, la seconda gli propose una via lunga e faticosa che lo avrebbe destinato all’immortalità. Cosa scelse Eracle? Naturalmente la via propostagli dalla Virtù e per questo dovette affrontare ben dodici fatiche. Oltre a queste notevoli imprese, Eracle trovò anche il tempo di aiutare chi si trovava in difficoltà: liberò Prometeo dal rapace che gli rodeva il fegato, ricondusse  dall’Erebo, che per i Greci era il mondo sotterraneo, alla vita Alceste, arrivando persino ad aiutare gli dèi nella lotta contro i Giganti.   Per questa sua generosità unita ad una invincibile forza fisica, Zeus lo volle tra gli dèi dell’Olimpo. Ed eccoci di nuovo in cielo.
Sopraggiunse il figlio della dea Tiche (la Fortuna dei Romani),  Pluto, dio della ricchezza,  che quando scendeva sulla Terra procedeva zoppicando, mentre quando tornava in cielo lo faceva volando, perché le ricchezze si acquistano difficilmente e si perdono facilmente. Eracle non lo degnò nemmeno di uno sguardo, mostrandosi anzi indifferente al suo arrivo. Il padre Zeus gliene chiese la ragione ed ecco la risposta di Eracle: “Ho in odio chi è amico dei disonesti, perché col pretesto del guadagno guasta tutto”. Le parole di Eracle significano che una giusta prosperità è augurabile per tutti, ma se la ricerca del guadagno facile condiziona e subordina la moralità, allora diventa insopportabile per l’uomo forte e onesto.  E questa è la morale della favola.  Eracle  ha rappresentato l’eroe per eccellenza dotato di forza fisica straordinaria unita alla lealtà di comportamento.
Da un sermone del gesuita Gerard Manley Hopkins (1844-1889): Nostro Signore Gesù Cristo, fratelli miei, è l’eroe nostro, un eroe che tutto il mondo vuole. Voi sapete che sono state scritte le favole: pongono un uomo di fronte al lettore e glielo mostrano generalmente bello, audace, lo chiamano il mio eroe, il nostro eroe. Le madri fanno spesso un eroe del figlio loro; le ragazze del loro innamorato, e le buone mogli del loro marito. I soldati fanno un eroe di un gran generale; un partito del suo capo; una nazione di ogni grande uomo che le porti gloria, re o guerriero o uomo di stato o pensatore o poeta, o chiunque egli sia. Ma l’eroe è lui, Cristo. Egli è anche l’eroe di un libro o di alcuni libri, dei divini Vangeli. E’ guerriero e conquistatore, di cui è scritto che uscì conquistando e a conquistare. E’ re, Gesù di Nazareth, re dei Giudei, sebbene quando egli giunse al suo regno la sua gente non ve lo accolse e ora il suo popolo avendolo respinto, noi Gentili siamo i suoi eredi. E’ uomo di stato che tracciò nel proprio sangue il Nuovo Testamento e fondò la Chiesa cattolica romana, che è infallibile. E’ pensatore, e ci insegnò divini misteri. E’ oratore e poeta, come appare dalle sue parole e parabole eloquenti. E’ l’eroe di tutto il mondo, il desiderio delle nazioni.
Proverbi 23, 4-5: Non ti affannare per accumulare ricchezza, rinunzia ad un simile pensiero. Infatti, appena la guardi, essa già non c’è più , perché mette ali come aquila che vola verso il cielo.
Matteo 7,13-14: Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano.
Matteo 19, 23-26: Gesù allora disse ai suoi discepoli: “In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello (*) passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli”. A queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero: “Chi si potrà dunque salvare?” E Gesù, fissando su di loro lo sguardo, disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”.
___________________________________
(*) Perché un cammello dovrebbe passare per la cruna di un ago? Sono due le probabili spiegazioni alla metafora espressa da Gesù: la prima è che in realtà abbia detto che era più facile che una gòmena (grossa corda di canapa) passasse per la cruna di un ago, ma una errata traduzione ha trasformato la gòmena (kamilon) in cammello (kamelon). La seconda spiegazione, la più attendibile: a Gerusalemme esisteva una porta chiamata “cruna dell’ago” il cui transito era riservato, viste le sue dimensioni ridotte, ai soli uomini e preclusa agli animali. E così appare chiaro il riferimento espresso da Gesù alla maggior possibilità di un passaggio di un cammello attraverso la porta destinata ai soli esseri umani. Cfr. Porta Pertusa nelle Mura Leonine, le mura fatte erigere da papa Leone IV negli anni 848-852 a protezione del Colle Vaticano. Il nome di Porta Pertusa indica che la porta è un  pertugio, cioè un’ apertura stretta, attraverso cui potevano transitare esclusivamente gli appartenenti alla Curia.

ZEUS E LE BISACCE
(Nessuno è perfetto)

C’era una volta Zeus che decise di fornire ogni essere umano di due bisacce che ne contenessero i difetti, una per i nostri e l’altra per quelli dei nostri simili. Il problema che si pose a Zeus fu  dove collocarle. E pensa che ti ripensa, trovò la soluzione: una la collocò dietro la schiena e l’altra sul petto di ogni essere umano. Ma quale delle due contiene i nostri difetti e quale quelli degli altri? Ecco la risposta: i nostri sono contenuti nella bisaccia posta sulle nostre spalle (ed è per questo che non riusciamo a vederli), mentre quelli altrui li abbiamo in quella davanti (e quindi li notiamo continuamente). La colpa non è nostra, è Zeus che ha sbagliato! Morale della favola: cerchiamo di essere indulgenti con il nostro prossimo, e cerchiamo di migliorarci dando uno sguardo anche alla bisaccia sul retro, magari con l’aiuto di uno specchio. 
Luca 6, 41-42: Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo? Come puoi dire al tuo fratello: Permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, mentre tu non vedi la trave che è nel tuo?  Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora potrai vederci bene nel togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.
IL CAVALLO ALLA MACINA
(Tutto ei provò … la gloria maggiore … la gloria che passò. A. Manzoni. Il cinque maggio)

C’era una volta un uomo che viveva malamente di espedienti, rubando tutto quello che gli saltava in testa. Un giorno lo solleticò l’idea di rubare addirittura un cavallo, staccandolo da una quadriga (= cocchio tirato da quattro cavalli) che era in attesa di uscire dai carceres. Non pensiamo allora che il ladro abbia compiuto una buona azione, liberando il cavallo dal carcere! Infatti nell’antica Roma i carceres erano le stalle di partenza delle quadrighe che di lì dovevano scendere nel circo per gareggiare  e questo cavallo e i suoi compagni non erano cavalli da nulla, avevano vinto tutte le gare a cui avevano partecipato. La povera bestia, abituata a tutti gli onori tributati ad un vincitore di razza, finì venduta ad un mugnaio. Costui, noncurante dei trascorsi trionfi del cavallo, già osannato dagli spettatori che assistevano alle gare nel circo, lo destinò all’ umile lavoro di girare la macina. La fatica era tanta, resa ancora più pesante dalla mancanza di riguardi riservata ad un cavallo che svolgeva un lavoro indubbiamente più utile ma per nulla gratificante. Per rendere meno dura la giornata, si diceva tra sé e sé che il suo lavoro serviva per macinare il grano con cui impastare pane per tutta la città. Ma era dura lo stesso. A sera, quando, sfinito ed assetato veniva condotto ad abbeverarsi, non poteva fare a meno di gettare un occhio nel circo dove i suoi compagni ancora si esibivano nelle gare ed in cuor suo pensava: “Correte felici, anche senza di me celebrate nel circo questo giorno di festa dedicato ai giochi. Io, vittima della mano scellerata di un ladro, sto qui a piangere la mia triste sorte che il destino mi ha riservato.  Mi spezzo le reni da mane a sera per girare la macina e non ricevo che un po’ di biada e acqua. E’ vero, anche per correre e vincere nel circo faticavo, ma avevo l’applauso della folla”. Morale della favola: prima tra tutte, non rubiamo. Poi, apprezziamo sempre i momenti che stiamo vivendo, anche se faticosi, perché ne potrebbero sopraggiungere altri parimenti faticosi ed in più misconosciuti. Quando ci dovesse cogliere il rimpianto di una vita felice, nel momento in cui stessimo svolgendo un lavoro che non ci è congeniale, pensiamo che comunque è di utilità e ne ricaveremo sollievo.
Esodo 20, 1 e 15:  E Dio pronunciò tutte queste parole così dicendo: Non rubare. (Settimo Comandamento)
Deuteronomio 5, 6 e 19: Io sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione di schiavitù. Non rubare.
Luca 5,4-6: Gesù disse a Simone: “Prendi il largo e calate le reti per la pesca”: Simone rispose: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti”. E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci, e le reti si rompevano.
IL SOLE ED IL VENTO DI TRAMONTANA
(A ciascuno il suo)
(Il fine giustifica i mezzi)

C’era una volta una fredda giornata d’inverno in cui soffiava forte da Nord il vento di tramontana. C’era anche il sole perché la tramontana, pure se fredda, almeno ha il merito di spazzare via le nuvole. Tra tutti e due, sole e vento, si annoiavano perché la loro vita era monotona: il primo a sorgere, brillare in cielo per qualche ora per poi tramontare; e questo tutti i santi giorni. Il secondo a gonfiare le sue gote per soffiare, ora in quella parte di mondo ora in un’altra, il suo gelido alito. Per movimentare un pochino la loro giornata, decisero di sfidarsi a chi era il più forte. Non potevano misurarsi in una gara di corsa, infatti il sole non poteva correre verso Ovest altrimenti il giorno sarebbe durato di meno, non poteva correre verso Est altrimenti sarebbe cominciato di nuovo il medesimo giorno (è solo una favola: infatti sappiamo tutti che il sole è fermo, mentre è la terra a girargli intorno, girando pure su se stessa); non potevano neppure fare un incontro di pugilato: come sarebbe stato possibile per il sole colpire … l’aria? Mentre pensavano a come sfidarsi, la loro attenzione fu colpita da un povero viandante infreddolito che procedeva lungo la via imbacuccato ben bene nel suo mantello. Tutti e due, sole e vento, ebbero un’idea: la sfida sarebbe stata vinta da chi tra loro fosse riuscito a togliere di dosso al viandante il mantello. Iniziò la tramontana: gonfiò a più non posso le gote e poi … via, una folata più forte in direzione del malcapitato viandante: “Brrr, che freddo” disse e si strinse ancora di più addosso il mantello. Per quanto la tramontana soffiasse, il mantello non cadeva dalle spalle del viandante. Fu la volta del sole: i suoi caldi raggi dardeggiavano e, provando tepore, il viandante si tolse il mantello dando la vittoria al sole. Morale della favola: per raggiungere un obiettivo, occorre usare mezzi adeguati. Inoltre, si ottiene di più con la persuasione che con la violenza. Ed infine, è inutile competere con persone tanto diverse da noi.
Siracide 43, 1-3: Il limpido firmamento è vanto del cielo, spettacolo celeste in una visione di gloria. Il sole, mentre appare all’alba, proclama di essere l’opera meravigliosa Dell’Altissimo; a mezzogiorno dissecca la terra, di fronte al suo calore chi può resistere?
Giona 4,8: Quando spuntò il sole, Dio fece soffiare un turbinoso vento orientale così che il sole colpì la testa di Giona.
Michea 2,8: … Al giusto che cammina voi togliete il mantello … .
Giovanni 3,8: Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito.

IL BAMBINO E LA SERPE
(Fai il bene e scordalo, fai il male e pensaci)
(Scaldarsi la serpe in seno)
C’era una volta un bambino obbediente e servizievole. Un giorno la mamma gli chiese di andare nel bosco a raccogliere legna per il camino: ottobre era lì con i suoi primi freddi e lunghi pomeriggi autunnali. Il piccolo lasciò immediatamente il gioco e si diresse nel bosco; in breve raccolse una grossa fascina di rametti e tutto soddisfatto si stava dirigendo verso casa pregustando già il buon calduccio che si sarebbe prodotto dal camino. E non solo, anche che buon profumino di carne arrostita ne sarebbe derivato! Era quasi a casa, quando vide una piccola serpe mezza morta dal freddo: senza pensarci su due volte, generosamente la prese per farla partecipe del calore che avrebbero avuto in casa. Ma dove tenerla? Le manine erano impegnate a reggere la fascina. Trovò la soluzione: la mise tra felpa e maglioncino, da sotto non poteva cadere perché c’era la legna ben aderente sul suo pancino e così la piccola serpe, rianimata dal calore ma scontenta di non trovarsi a strisciare libera tra il verde, reagì malamente mordendo il piccolo. Fortunatamente non era un serpentello velenoso ma solo ingrato. Il bambino non aveva voluto togliere la serpe dal suo mondo, voleva solo farla riprendere al caldo e poi lasciarla di nuovo libera nel suo ambiente. Ma forse questo era troppo difficile da capire per la serpe. Morale della favola: l’ingratitudine è una brutta bestia … è proprio il caso di dirlo. Da questa favola, il detto “scaldarsi la serpe in seno” cioè ricevere un danno da chi è stato beneficato.
Proverbi 28, 5: I malvagi non comprendono la giustizia, ma chi cerca il Signore comprende tutto.
Sapienza 16, 10: invece i denti di serpenti velenosi non vinsero i tuoi figli, perché intervenne la tua misericordia e li guarì.
Luca 10, 19: Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare.
Luca 17,11: Durante il viaggio verso Gerusalemme, Gesù attraversò la Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza, alzarono la voce, dicendo: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”. Appena li vide, Gesù disse: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano furono sanati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: “Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?” E gli disse: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato”.
                           
IL PAVONE E LA DEA ERA
(Non si può avere tutto)

C’era una volta un usignolo che con la sua melodiosa voce primeggiava sugli uccelli del cielo: tutti lo ammiravano per questa sua straordinaria dote canora.  Tutti meno il pavone che, anzi, addirittura lo invidiava. Giorno dopo giorno la sua tristezza, causata dall’invidia,  aumentava e, raggiunto il colmo, decise di  andare da Era; tra le lacrime, si sfogò: “Quando provo a cantare tutti scappano, e già lo preferisco alle prese in giro di alcuni. Quando è l’usignolo a cantare, tutti lo ascoltano estasiati. Perché deve capitarmi questo?” E giù a piangere. Era, intenerita, prese a consolarlo: “Tu, pavone caro, sei splendido per il tuo piumaggio dai colori senza pari. La tua coda poi … è una meraviglia unica!” “Ma come sono delizia per gli occhi, avrei voluto esserlo pure per le orecchie”, ribatté tristemente il pavone. Era lo prese amorevolmente da parte e gli sussurrò materna:  “L’usignolo ha avuto il dono del canto, l’aquila della forza e tu della bellezza”. Morale della favola: ognuno di noi ha avuto dei doni, del buono, tutto non si può avere. Bisogna sapersi accontentare e apprezzare i beni che ci sono stati concessi.
Matteo 25, 14-15:  “Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, ad un altro due, ad un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì”.
Luca 19, 12-13: Gesù disse dunque “Un uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano per ricevere un titolo regale e poi ritornare. Chiamati dieci servi, consegnò loro dieci mine, dicendo: impiegatele fino al mio ritorno”. 

IL CONTADINO, I SUOI FIGLI E LA VIGNA
(I sogni son desideri)
(Illusione dolce chimera sei tu)
C’era una volta un contadino un po’ avanti negli anni, però ancora in gamba ed in grado di coltivare, con l’aiuto dei suoi figli, una grande vigna rigogliosa che ogni anno produceva tanti, tanti grappoli d’uva, e naturalmente, un eccellente vinello. Non passava giorno senza che il contadino non elogiasse la sua vigna con parole di vivo apprezzamento: “Figlioli, ricordate sempre che in questa vigna c’è un vero tesoro. Lavoratela sempre con cura”. I figli, un po’ meno acuti del padre,  pensavano che sotto terra da qualche parte la vigna nascondesse un baule pieno di monete e di monili d’oro. E così, quando l’anziano contadino volò in cielo, i figli maldestri, tranne uno che continuò a zappettare intorno alle sue piante, smisero di curare le viti, ed iniziarono a scavare alla ricerca del baule. Ma più scavavano e più non trovavano l’agognato tesoro, solo tante radici delle povere piante a cui cominciavano a seccarsi le foglie; i grappoli, che erano stati sempre gonfi del dolce succo, pendevano striminziti dai tralci. Venne il periodo della vendemmia, per i poveri grulli non ci fu molto da lavorare, ricavarono a mala pena un bigoncio di uva. E pochi litri di vino. Mentre il fratello che non si era lasciato incantare dal miraggio del tesoro vendemmiò la più bella uva del territorio. Finalmente, ma per quell’anno troppo tardi, capirono che il tesoro di cui parlava sempre il padre consisteva nel lavoro paziente e meticoloso per produrre ottima uva. Morale della favola: il vero tesoro è quello che si ricava dal proprio lavoro.
Genesi 3,19: Il Signore disse: “Con il sudore della tua fronte mangerai il pane, finché tornerai alla terra perché da essa sei stato tratto, perché polvere sei e in polvere tornerai”.
Proverbi 12, 11: Chi coltiva la propria terra si sazia di pane, ma chi va dietro a chimere è privo di senno.
Proverbi 28, 19: Chi lavora la sua terra si sazierà di pane, chi insegue chimere si sazierà di miseria.
Siracide 7, 15: Non disprezzare il lavoro pesante né l’agricoltura creata dall’Altissimo.                            
LA VOLPE E L’UVA
(Ognuno ha i suoi limiti)

C’era una volta una volpe che aveva già fatto strage in molti pollai, ma aveva ancora fame. Mentre vagava per la rigogliosa campagna alla ricerca di qualcosa con cui avrebbe potuto golosamente chiudere il pasto, si imbatté in una bella vigna i cui grappoli allettavano molto il suo palato e la sua gola. Però, c’era un però: i grappoli erano in alto, troppo in alto per la statura della volpe. Per quanti salti facesse, non le riusciva di raggiungerli, e più saltava e più la fame aumentava. Non c’era nei pressi neanche una scala, uno sgabello su cui poter salire e raggiungere così il suo obiettivo. All’ultimo salto maldestro che le aveva procurato anche una, anzi quattro, slogature alle zampe, finalmente vinta, la volpe, che dovette ammettere le sue scarse qualità di saltatrice, sconsolata disse: “L’uva non è ancora matura, tornerò quando non sarà più acerba”. Ma essendo settembre inoltrato, l’uva non era per nulla acerba. Morale della favola: coloro che, per incapacità propria, non riescono a concludere quanto vorrebbero, con le parole sminuiscono tale loro limitazione, attribuendo ad altro l’insuccesso. E accusano le circostanze, assolvendo la loro inadeguatezza, mentre l’errore è in sé stessi e non al di fuori. I tentativi di raggiungere un obiettivo, quando sono frustrati dall’insuccesso, ci portano a dichiarare falso disprezzo per quanto non riusciamo a raggiungere a causa dei limiti delle nostre capacità.
                            La volpe e l’uva (in lingua greca)
λώπηξ λιμώττουσα, ς θεάσατο πό τινος ναδενδράδος βότρυας κρεμαμένους, βουλήθη ατν περιγενέσθαι κα οκ δύνατο. παλλαττομένη δ πρς αυτν επεν· «μφακές εσιν.» Oτω κα τν νθρώπων νιοι τν πραγμάτων φικέσθαι μ δυνάμενοι δι' σθένειαν τος καιρος ατινται.
Una volpe che stava morendo di fame, come scorse dei grappoli d’uva pendere da una vite, voleva coglierli ma non ne aveva la forza. E allontanandosi diceva fra sé: “Sono acerbi”. Così anche alcuni tra gli uomini che non hanno la forza per conseguire dei risultati concreti adducono come causa la scarsità dei giusti tempi.
         La volpe e l’uva (nella lingua di Fedro e nella sua redazione)
Fame coacta vulpes alta in vinea uvam adpetebat, summis saliens viribus. Quam tangere ut non potuit, discedens ait: “Nondum matura est; nolo acerbam sumere”. Qui, facere quae non possunt, verbis elevant, adscribere hoc debebunt exemplum sibi”.
Una volpe, spinta dalla fame, cercava di cogliere dell’uva da un’alta vite, facendo salti con tutte le sue forze. Dato che non riusciva a toccarla, rinunciando disse: “Non è ancora matura; non voglio coglierla acerba”. Coloro che non potendo fare alcune cose le svalutano a parole, devono prendere questo come esempio per se stessi.
Proverbi 24,7: Troppo alta è per lo stolto la sapienza.
Matteo 19,26: E Gesù, fissando su di loro lo sguardo, disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”.
Luca 1,37: Nulla è impossibile a Dio.
L’ASINO E LA LIRA
(Chi non risica non rosica)

C’era una volta un asinello che brucava quieto in un prato, quando la sua attenzione fu attratta da una lira (= strumento musicale a corde) abbandonata tra l’erba. Con un misto di curiosità e timore, si avvicinò  e con uno zoccolo diede un colpetto allo strano oggetto: le corde iniziarono a vibrare, producendo un suono melodioso. L’asino rimase affascinato dalla melodia che ne ricavò, eppure disse, con la modestia e l’umiltà del suo carattere: “Sei tanto bella, armoniosa lira, ma sfortunata perché io sono digiuno di musica e più di un colpo di zoccolo non posso osare di fare. Se ti avesse trovato uno più versato di me nell’arte di  Euterpe (= musa della musica), sai che gioia avrebbe donato a chi avesse avuto la fortuna di poterlo ascoltare!” Morale della favola: spesso grandi talenti si perdono per modestia, senso di inferiorità, se non per la più grave svogliatezza. Invece bisogna coltivare le inclinazioni che la natura ha donato ad ognuno.
Matteo 5, 14-16: “Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio (*), ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli”.
__________________________________________________
(*) Il moggio, oltre ad essere una antica unità di misura di capacità,  è un recipiente che contiene granaglie.
Siracide 40, 21: Il flauto e l’arpa rendono piacevole il canto, ma vale di più una lingua amabile.
Matteo 25, 16-18: Colui che aveva ricevuto cinque talenti andò subito ad impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Così  anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Luca 19, 20: … Signore, ecco la tua mina, che ho tenuto riposta in un fazzoletto …
Luca 8, 16: Nessuno accende una lampada e la copre con un vaso o la pone sotto un letto; la pone invece su un lampadario, perché chi entra veda la luce.
           
ESOPO E LO SCRITTORE DA QUATTRO SOLDI
(Chi si loda si sbroda)

C’era una volta un tale pieno di sé che, per il solo fatto di saper tenere una penna (o un calamo, uno stilo, una piuma d’oca, insomma qualunque strumento atto a tracciar segni) in mano, si piccava di essere un valente scrittore. Un giorno volle sottoporre i suoi lavori di nessun valore al giudizio del malcapitato Esopo, fermamente convinto che la sua ritenuta “capacità” di fissare i pensieri in uno scritto fosse degna di divulgazione. Si presentò con falsa modestia ed attaccò a leggere. Gli sbadigli si sprecavano, era proprio impossibile seguire quelle parole senza senso e per di più messe giù senza la minima nozione di grammatica e sintassi. Quando ebbe finito la lettura, rivolto al suo interlocutore (che  avrebbe fatto volentieri a meno di esserlo) attaccò: “Esimio Esopo, non ti sembri che io sia stato spinto dalla superbia a sottoporti le mie composizioni. Ti prego, dimmi, in tutta sincerità, ti son sembrate troppo elevate? Non ti sembra che il contenuto sia perfetto? Pensi altrettanto della forma? Non ho nulla da imparare, anzi potrei insegnare. Io sono convinto del mio ingegno, ma voglio sentire da te se il risultato è pari alla mia bravura”. Esopo non ne poteva più di tanto cieca orgogliosa presunzione: quello che aveva ascoltato era quanto di peggio le sue orecchie, in anni e anni di vita, fossero state costrette ad udire.  Una vera tortura e, alla fine, sbottò: “Te lo dico in tutta sincerità, come d’altra parte, tu hai richiesto. Approvo che tu ti lodi da solo e ti celebri come  scrittore eccelso, visto che sei l’unico e l’unico rimarrai a tessere gli elogi della tua ambizione”. Morale della favola: ambizione (= desiderio di esaltazione agli occhi altrui), petulanza (= chiedere con insistenza esasperante) e presunzione (= opinione esagerata di sé da parte di chi pretende di sapere o saper fare ciò  che non sa e non può) vanno a braccetto. Chi merita effettivamente l’altrui plauso non deve andare a chiederlo perché gli verrà spontaneamente rivolto.
Proverbi 27,2: Ti lodi un altro e non la tua bocca, un estraneo e non le tue labbra.
Luca 18,9-14: Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri: “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo (*) e l’altro pubblicano (**): Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”.
(*) Fariseo, un appartenente ad una corrente religiosa ebraica del I secolo a.C. che accettava, accanto alla legge scritta, anche la tradizione orale che si perdeva in una molteplicità di precetti da osservare con rigore. Gesù ne riprende il legalismo a cui manca la vera fede.
 (**) Pubblicano, nell’ordinamento fiscale romano era una figura di appaltatore di imposte che pagava allo stato una somma determinata e riscuoteva le tasse per proprio conto.

IL CAVALLO E IL CINGHIALE
(Prima di parlare conta fino a 10)

C’era una volta un cavallo che viveva libero in una meravigliosa radura; la sua vita si svolgeva tra lunghe galoppate in una natura selvaggia eppur ospitale: tanta erba da brucare, paesaggi mozzafiato da ammirare, aria pura da respirare ed una limpida sorgente a cui abbeverarsi. Un giorno un cinghiale, che si era rotolato nella mota, volle prendere un bagno nell’acqua della sorgente che il cavallo riteneva sua esclusiva proprietà. Quindi immaginiamo le risentite lamentele che rivolse al cinghiale quando lo trovò immerso nell’acqua che, a causa del fango distaccatosi dal corpo del cinghiale, aveva assunto un colore non certo invitante per essere bevuta. Il cinghiale si difendeva dicendo che, a parte il fatto che la sorgente era a disposizione di tutti, non poteva rimanere così sporco. Il cavallo insisteva nel difendere le proprie idee al riguardo. Nessuno dei due mostrava benevolenza nei riguardi dell’altro. Ne sorse una lite. Il cavallo, irato, chiese aiuto ad un uomo che viveva molto lontano dalla radura, tanto che non aveva mai visto un cavallo in vita sua. Con eloquenti nitriti, il cavallo raccontò l’accaduto all’uomo e lo invitò a montargli sulla groppa: dopo una veloce galoppata arrivarono alla sorgente. Il cinghiale era ancora lì a crogiolarsi nell’acqua che oramai aveva riacquistato la sua limpidezza. Però l’uomo, per assecondare le richieste del cavallo, fece una dura ramanzina al cinghiale e per essere ancora più rispettato nel suo ruolo di difensore non mancò di tirargli contro anche delle lance acuminate. “Sono contento di averti recato aiuto dietro le tue preghiere”, disse l’uomo al cavallo, “perché con una fava ho preso due piccioni. Fuor di metafora, ho catturato un cinghiale le cui carni saporite saranno il pasto mio e della mia famiglia per giorni, e ho imparato quanto sia più comodo e rapido spostarsi in groppa ad un cavallo piuttosto che a piedi. Da oggi sarai al mio servizio”. Allora il cavallo, mestamente, ammise: “Sono stato pazzo a chiedere vendetta per un piccolo affronto, che a ben guardare non era nemmeno tale perché il mondo e i suo doni sono di tutti,  ed ora mi ritrovo ridotto in schiavitù dall’uomo”. Morale della favola: l’ira è cattiva consigliera. E’ meglio aspettare prima di rispondere o agire d’impulso.
Qohelet 7, 9: Non essere facile ad irritarti nell’intimo, perché l’irritazione dimora in seno agli stolti.
Giovanni 2, 13-17: Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato”. I discepoli si ricordarono che sta scritto. Lo zelo per la tua casa mi divora. (Salmi 69,10).
                          
LA CORNACCHIA E LA PECORA
(Vivere … sulle spalle altrui)

C’era una volta una cornacchia oltremodo fastidiosa, che aveva preso di mira una tranquilla pecorella che brucava su un prato. L’antipatico volatile, una mattina di buon ora le si era posato sul dorso e all’imbrunire stava ancora lì appollaiato per cibarsi degli insetti impigliati tra il vello della pecora.  Anche la pazienza più tollerante alla fine si spezza,  perciò la povera pecora, stanca di sentirsi quello sgradito ospite sulla schiena disse: “Cornacchia, pare che tu abbia preso gusto a starmi addosso, visto che sono ore che non mi lasci in pace, ma io non ho reagito, mansueta come sono. Se ti fossi piazzata sulla schiena di un cane, cui non mancano di certo denti aguzzi, a quest’ora ti avrebbe già punito con un doloroso morso”. Il nero volatile, per tutta risposta, confermando la sua indole malvagia, apostrofò la pecorella: “io guardo dall’alto in basso e con aria di sufficienza chi è notoriamente debole, al contrario ai forti lascio il passo e anzi indietreggio.  So bene chi prendere di mira e chi, da quella furba che sono, lasciare in pace; per questo riuscirò a vivere fino a mille anni”. Morale della favola: chi è abituato a vivere con astuzie ai danni di chi non reagisce cerca il suo tornaconto evitando di scontrarsi con chi sa difendersi.
Matteo 11, 28-30: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero”.

I CANI AFFAMATI
(Del senno di poi son piene le fosse)
                             
C’erano una volta alcuni cani che, lungo le rive di un fiume, si arrovellavano il cervello per riuscire a placare i morsi della fame sperando di trovare un po’ di cibo, magari qualche pesce che avesse voluto fare una passeggiata sulla terra ferma. Pia Illusione! Il tempo passava, la fame aumentava e di pesci scioccherelli nemmeno l’ombra. Quando le speranze erano oramai ridotte al lumicino, uno dei cani, con un bau bau di gioia lanciato con il residuo di fiato che ancora gli rimaneva in corpo, comunicò ai compagni di fame che sul fondo del fiume aveva scorto un quarto di bue che li avrebbe saziati tutti. Iniziò il conciliabolo su come poter recuperare quello che doveva essere il loro pasto, e, dopo tanto riflettere, non ebbero idea migliore di questa: bere tutta l’acqua del fiume per raggiungerne il fondo e la carne su di esso adagiata. Ma non ci avevano detto di essere affamati? A quanto pare dovevano essere pure super assetati! Ed iniziarono a bere, però più bevevano e più acqua c’era ancora da bere; le loro pance non ne contenevano più. Alla fine dovettero arrendersi: il più sveglio tra loro osservò che un fiume non è una piscina che, una volta svuotata del suo contenuto in litri, rimane vuota; un fiume è continuamente alimentato dalla sorgente. Per quel giorno dovettero accontentarsi di essersi saziati d’acqua. Morale della favola: prima di intraprendere qualsiasi azione, pensare, riflettere, considerarne tutti gli aspetti.
Qohelet 7, 24: Rimane lontano ciò che è lontano, e profondo ciò che è profondo: chi lo potrà raggiungere?
Siracide 22, 15: Sabbia, sale e carico di ferro sono meno pesanti dell’insensato.
Matteo 7, 24-27: “Chiunque ascolta le mie parole e le mette in pratica è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi , soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde perché era fondata sopra la roccia. Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica , è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande”.
Matteo 10, 16: “Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe”.
  
IL PASTORE ED IL RE
(Male non fare, paura non avere)

C’era una volta un pastore, già avanti con gli anni, che faceva pascolare il proprio asinello su un prato. In città tutti erano presi dai festeggiamenti per l’insediamento sul trono di un nuovo re. Il pastore, a cui non interessava prendere parte all’avvenimento, era assorto nei suoi pensieri e si beava della propria situazione: era contento di vivere in campagna; libero da legami di orari, poteva scandire la sua vita senza clessidre o meridiane, alzarsi col sole, coricarsi con le stelle, mangiare quando il suo stomaco brontolava, vestirsi secondo le stagioni e non secondo le persone con cui incontrarsi. Era proprio una vita beata. Ma un certo timore lo assalì, quando al suo orecchio giunsero echi di voci di banditi con intenzioni tutt’altro che  pacifiche: voleva mettersi in salvo con l’asinello, cercava di spingerlo a fuggire con lui nel bosco ma il ciuchino, flemmatico, gli rispose: “Dimmi, padrone mio, temi che chi dovesse catturarmi possa caricarmi di più ceste di quante ora tu me ne imponga?” “No, più di due ceste non puoi portare”, rispose il pastore. “Dunque cosa può importarmi chi dovrò servire”, ribatté l’asinello, “se sono destinato a portare sempre le mie due ceste!” Morale della favola: chiunque detenga il potere politico, le persone comuni continuano a vivere la propria vita nello svolgimento del loro dovere quotidiano. Il mondo va avanti per la buona volontà dei singoli e non grazie a chi siede nei palazzi del potere. Ad ogni latitudine ed in ogni epoca il potere politico è sempre stato percepito (o si è sempre esplicato) come avulso dalla vita del popolo. Il più esplicito esempio è condensato nella frase semplice e schietta “Francia o Spagna basta che se magna”, cioè a governare il popolo ci siano i Francesi o gli Spagnoli, quello che conta è che si riesca a mettere insieme il pranzo con la cena. Più elevata la visione del contadino cinese che diceva: “Quando il sole s’alza, lavoro. Quando il sole tramonta, riposo. Scavo il pozzo per bere. Vango il campo per mangiare. Che ha a che fare con me l’imperatore?” Un piccolo affresco della quotidianità nell’ottica dell’autogoverno.
Deuteronomio 17, 15-16: Costituirai sopra di te il re che il Signore tuo Dio avrà scelto; costituirai  re sopra di te uno preso tra i tuoi fratelli, non potrai costituire sopra di te uno straniero, uno che non è tuo fratello. Egli però non dovrà avere un gran numero di cavalli e non farà tornare il popolo in Egitto allo scopo di aumentare la sua cavalleria … .
Sapienza 1, 1: Amate la giustizia, voi che governate la terra, abbiate verso il Signore retti sentimenti e cercatelo con cuore semplice.
Sapienza 6, 1-4: Ascoltate, dunque o re, e fate attenzione! Imparate, o governanti delle regioni della terra! Udite, voi che dominate le moltitudini e siete orgogliosi per il gran numero di popoli: dal Signore vi è stato dato il dominio e il potere dall’Altissimo, il quale esaminerà le vostre opere e scruterà i vostri pensieri.
Sapienza 28, 15: Leone ruggente e orso affamato, tale è l’empio che domina su un popolo povero.
Siracide 10, 8: L’impero passa da una nazione all’altra con l’inganno, l’ambizione, la cupidigia.
Siracide 10, 19: C’è una specie che merita onore? Gli uomini. C’è una specie che merita onore? Quanti temono il Signore.
Marco 12, 12-17: Gli mandarono alcuni farisei ed erodiani per coglierlo in fallo nel discorso. E venuti, quegli gli dissero: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e non ti curi di nessuno; infatti non guardi in faccia agli uomini, ma secondo verità insegni la via di Dio. E’ lecito o no dare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare o no?” Ma Egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse: “Perché i tentate? Portatemi un denaro perché io lo veda”: Ed essi glielo portarono. Allora disse loro: “Di chi è questa immagine e l’iscrizione?” Gli risposero: “Di cesare”. Gesù disse loro: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. E rimasero ammirati di lui.

IL VECCHIO LEONE, IL CINGHIALE, IL TORO E L’ASINO
(Anche le pulci hanno la tosse)
(Le ore, i minuti feriscono, l’ultimo secondo uccide)

C’era una volta un leone carico di anni e, perciò, scarico di forze che se ne stava sdraiato sotto un albero: dal re della foresta che era stato in gioventù, era diventato il bersaglio della stolta canzonatura rivoltagli da quegli animali che un tempo lo temevano. Approfittando della debolezza del leone che, con le forze, aveva perso anche l’antico rispetto, un cinghiale, dimostrando una memoria da elefante (è proverbiale la capacità di ricordare posseduta da questo pachiderma), gli si avvicinò e, con le acuminate zanne, inferse un colpo al povero leone per vendicarsi di una vecchia offesa. Un toro, che aveva assistito alla scena, trafisse con le sue corna, che non erano puro ornamento, su un fianco il leone infiacchito. Un asino, resosi conto che il malcapitato non reagiva, gli sferrò un calcio sulla fronte. Il leone, con il poco fiato che gli rimaneva in corpo, sussurrò: “Ho sopportato, pur se non era giusto, che animali forti come il cinghiale e il toro mi assalissero colpendomi; ma tollerando il calcio con cui tu, animale da nulla, mi hai colpito, mi sembra di morire due volte”. Morale della favola: la vittoria è onesta solo se il combattimento è ad armi pari.
Siracide 19,25: (Il malvagio) se non ti nuoce per mancanza di forza, alla prima occasione ti farà del male.

IL GALLO E LA PERLA
(Tutto è relativo)

C’era una volta un galletto che se ne andava zampettando nel pollaio alla ricerca di qualche saporito vermetto da becchettare. Becchetta di qua, becchetta di là, alla fine si imbatté in una preziosa perla. Se per comune convinzione avere un cervello di gallina equivale a valer ben poco dal punto di vista del comprendonio, il nostro galletto non era l’eccezione che conferma la regola, giacché, rivolto alla perla, parlò così: “Per quale motivo tu, che sei così preziosa, te ne stai in un luogo tanto inadatto a te? Se qualcuno ti avesse visto in questo pollaio, per la brama del guadagno che avrebbe potuto ricavare dal tuo valore, ti avrebbe una buona volta riportata al tuo antico splendore; ma siccome ti ho trovata io e per me il nutrimento è tutto, il fatto che ti abbia trovata io, dicevo, non giova né a te, che rimarrai nella polvere del pollaio, né a me che non posso mangiarti”. Morale della favola: la perla è utile solo a chi può ricavare profitto dal suo valore: attenzione, però, la perla raffigura i preziosi consigli che Esopo e Fedro ci hanno tramandato attraverso le loro favole.  
Proverbi 3, 15: Essa (la sapienza) è più preziosa delle perle e niente di ciò che puoi desiderare la eguaglia.
Proverbi 23,9: Non parlare alle orecchie di uno stolto, perché egli disprezzerebbe i tuoi saggi discorsi parlare allo stolto è come parlare a chi dorme; alla fine direbbe: “Di che si tratta?
Siracide 22,8: Ragiona con un insonnolito chi ragiona con lo stolto; alla fine egli dirà “Che cosa c’è?”.
Matteo 7,6: Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi.
Matteo 13, 45: Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.
IL CANE FEDELE
(Cave canem. Attento al cane)

C’era una volta un ladro che, avvolto dalle tenebre della notte, gettò una mezza pagnotta fragrante ad un cane che faceva la guardia davanti alla casa del suo padrone. L’intento del ladro era quello di farselo amico, come si suol dire, per un tozzo di pane. Ma il cane, che la sapeva lunga, gli disse: “Oh grullo, che pensi di tapparmi la bocca con un po’ di pane, così che io non possa abbaiare e mettere il mio padrone sull’avviso? Ti sbagli di grosso e poi perché tu che “togli” per mestiere, - si fa per dire se quello di ladro si può definire mestiere -,  a me vuoi “dare”? Questa tua improvvisa generosità mi impone di vigilare per impedirti di ricavare un vantaggio da una mia negligenza”. Morale della favola: non lasciamoci incantare da un gesto di generosità compiuto da chi solitamente è tutt’altro che altruista; muta la sua indole solo per il proprio tornaconto.
Proverbi 23, 6-7: Non mangiare il pane di un uomo malvagio e non bramare i suoi cibi prelibati, perché, da buon calcolatore quale egli è, ti dirà: “Mangia e bevi” ma il suo cuore non è con te.
Proverbi 24,15: Non insidiare, o malvagio, l’abitazione del giusto, non saccheggiare il luogo dove si riposa.
Proverbi 27, 18: … chi veglia sul suo padrone sarà onorato.
Proverbi 29, 24: E’ complice del ladro e odia se stesso chi sente la maledizione e non denunzia nulla.

LA VECCHIETTA E L’ANFORA
(Quanto è bella giovinezza che si fugge tuttavia)

C’era una volta una vecchina che faceva quattro passi lungo una stradina di campagna, solo quattro e non uno di più perché era proprio faticoso alla sua età; mezzo nascosta tra le piante, scorse una capiente anfora per il vino: il desiderio di assaporare il buon nettare dell’uva le fece superare il mal di schiena che l’affliggeva, si chinò fin alla imboccatura dell’anfora e con sommi dispiacere e delusione notò che sul suo fondo c’era solo un po’ di posa da cui proveniva e si spargeva all’intorno un grato odore. La vecchietta, che se ne intendeva perché in gioventù aveva abitato a Gaeta, riconobbe immediatamente il vino falerno che si produce in quella zona del basso Lazio e, continuando ad aspirare quella delizia, esclamò: “   O soave profumo! Se è così inebriante e gradevole questa misera posa lasciata dal vino, cosa deve essere stato di eccelso l’intero contenuto?” E con la sua lenta andatura, si diresse verso casa. Morale della favola:   quando si perde qualcosa e ne riaffiorano ricordo e nostalgia, il sentimento che scaturisce è piacevole, al contempo, però, nasconde il dolore per quanto si è perduto. Rivivere un tratto della propria vita è bello e triste al tempo stesso.
Isaia 24, 9: Non si beve più il vino tra i canti …
Luca 22,18: “ … da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio”.
Giovanni 2, 1-11: Ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: “Non hanno più vino”. E Gesù rispose: “Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora”. La madre dice ai servi: “Fate quello che vi dirà”. Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili. E Gesù disse loro: “Riempite d’acqua le giare” e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: “Ora attingete e portatene al maestro di tavola”. Ed essi gliene portarono. E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua), chiamò lo sposo e gli disse: “Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono”. Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in Lui.
IL CANE, IL FIUME ED UN PEZZO DI CARNE
(La luna nel pozzo)

C’era una volta un cane che se ne andava a zonzo lungo le rive di un fiume, scodinzolando beato, con un gran bel pezzo di saporita carne tra i denti. Le acque del fiume erano di una tale limpidezza e senza increspature che sembravano uno specchio. Il nostro cagnolino, che evidentemente non brillava per acume, si avvicinò alla sponda del fiume e vide la sua immagine riflessa, ma da quel tontolino che era pensò di non essere lui ma di trovarsi di fronte ad un altro cane e … soprattutto ad un altro pezzo di carne! Rimuginò tra sé e sé sul modo in cui avrebbe potuto portare a casa non una bensì due porzioni di cibo, rubando all’altro (ma quale?) cane la sua. Attento cagnolino, l’avidità fa brutti scherzi!  Aprì la bocca per averla libera e poter impossessarsi del secondo (ma quale?) pezzo di carne: pensava di avventarsi sul suo simile e strappargli la sua preda. Ma naturalmente quella che già aveva in bocca cadde in acqua e così perse sia quella che già teneva ben stretta tra i denti sia quella che, per essere solo un riflesso della sua, non esisteva materialmente. Morale della favola: non desiderare i beni altrui. Accontentarsi di quanto la propria bocca può contenere è un buon rimedio contro  l’accaparramento di beni di prima necessità da parte di chi non pensa a chi invece muore di fame.
Esodo 20, 1 e 17: Dio allora pronunciò tutte queste parole: Non desiderare la casa del tuo prossimo, la moglie, il suo servo, la sua serva, il suo bue, il suo asino, e tutto quello che appartiene al tuo prossimo.
Seconda lettera di Giovanni 1, 8: Fate attenzione a voi stessi, perché  non abbiate a perdere quello che avete conseguito, ma possiate ricevere una ricompensa piena.
                             LA VOLPE E LA MASCHERA
                                (Vizi privati, pubbliche virtù)

C’era una volta una volpe che se ne andava per pollai a far razzia di galline: le sue zampette inciamparono in una maschera, di quelle che gli attori indossano a teatro sulla scena. Ripresasi dalla sorpresa di trovare un oggetto tanto insolito in mezzo alla campagna, la volpe esclamò: “Peccato che tanta bellezza sia senza cervello. Devo raccontare quanto mi è capitato oggi ai miei volpacchiotti perché devono imparare che quanti sono stati baciati dalla fortuna, come questa maschera che è tanto bella e riceve applausi, dovrebbero usare sempre il buon senso e non lasciarsi accecare dagli onori e dalla gloria”. Morale della favola: ostentare meriti senza vera virtù equivale ad essere solo una facciata senza nulla dietro.
Matteo 23, 27: Guai a voi, scribi (*) e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati; essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume.
_____________________________________________
(*) Scribi, scrivani incaricati della trascrizione della Legge di cui divennero interpreti e gelosi custodi.

IL LUPO E LA GRU
(Il lupo perde il pelo ma non il vizio)

C’era una volta un lupo cattivo che non faceva altro che sgranocchiare teneri agnellini. Per mangiarne il più possibile, non perdeva tempo a togliere gli ossi ed ingoiava avidamente le bestiole tutte intere. Già era faticoso eliminare la morbida lana, non poteva certo perdere altro tempo a disossare! E così un giorno gli capitò che un osso gli si conficcò in gola (tutto sommato ben gli sta! Se l’è cercata lui); il dolore si faceva via via più insopportabile e cominciò a lamentarsi forte, promettendo a chi fosse riuscito a liberarlo una congrua ricompensa. Tutti gli animali del bosco passavano oltre, non avendo fiducia nel lupo cattivo. Più il tempo passava e più i lamenti del lupo, che rischiava di soffocare, aumentavano. Una gru si lasciò intenerire dalle richieste di aiuto del malcapitato, accompagnate da copiose lacrime. Convinta dalle parole dello spergiuro, contando sulla lunghezza del suo collo, la gru, incurante del pericolo che correva, infilò la testa nelle fauci del lupo e ne estrasse l’osso. E per il lupo fu la salvezza. In cambio di tale operazione, la gru chiese la ricompensa promessa, ed ottenne dal lupo solo la seguente risposta: “Ingrata sei, nonostante tu abbia potuto ritirare incolume la testa dalla mia gola, vuoi pure la ricompensa?” Morale della favola: chi desidera la ricompensa per un’opera buona prestata a favore dei malvagi sbaglia due volte, prima perché aiuta esseri indegni, seconda perché pretende di allontanarsi senza subire danno. E’ illusione pretendere gratitudine dai malvagi.
Proverbi 17, 13: Chi rende male per bene non vedrà mai allontanarsi la disgrazia dalla sua casa.
Siracide 5, 15: Non sbagliare nelle grandi cose come nelle piccole, e non mutarti da amico in nemico.
Siracide 6, 8: C’è chi è amico quando gli conviene, ma non resiste nel giorno della tua disgrazia.
Marco 10, 19: Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre.
Luca 3, 13: Ed Egli disse loro: “Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato”.
Luca 19, 8-9: Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: “Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto”. Gesù gli rispose: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo; Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”.
Giovanni 8, 44-45: voi che avete per padre il diavolo … (che) è stato omicida fin dal principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché dico la verità.
ESOPO E I MALVAGI
(L’esempio trascina)

C’era una volta un tale che era stato morso da un cane dall’indole aggressiva. A quel tempo era opinione diffusa che per far rimarginare le ferite e guarire fosse necessario offrire al cane un pezzo di pane imbevuto del sangue della persona aggredita. Inutile sottolineare che si trattava di sciocca superstizione. Esopo, che non era come i suoi contemporanei uno stolto credulone, non faceva altro che ripetere: “Per carità, non perpetuate questa usanza di offrire pane e sangue al cane assalitore, altrimenti tutti i cani, con lo scopo di avere cibo, ci mangeranno vivi, perché essi capiranno che il pane è il premio per il loro comportamento e lo interpreteranno come contraccambio per una azione di cui non afferrano la gravità”. Morale della favola: il successo dei malvagi ne attira di più. Contrastiamo il male per poter far capire a chi è di indole cattiva che non può sempre averla vinta.
Matteo 5, 16: Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli.
VAGOLANDO ANDRO’ …
(poesia di MRDL)

         Vivo il mondo, ma non sarà per sempre.
         Allora, l'universo la mia casa.
         Evanescente essenza dell'io che sono,
         vagolando andrò di stella in stella,
         mai dimentica delle tue erte, o mondo.
         Per Suo dono omai saprò
         di sentieri spianati, di vera pace,
         del giorno in cui, per tutti,
         latte e miele scorreranno
         a sanare la calpestata dignità,
         e fame, e distruzioni, e oltraggi all'Uomo,
         solo un'orrenda macchia già sanata.
         Avvolta nella Luce,
         una prece eleverò per te:
         "O mondo, rinnovellato eden,
         dei tuoi tristi errori, memento,
         del buio nel terrore, memento,
         delle lacrime versate, memento,
         perché tutto sia
         giustizia, luce, consolazione.
               Eterne.
         
L’ASINO E IL LEONE A CACCIA
(Chi sa non trema)

C’era una volta un leone che, chi sa con quali fini, volle un giorno,come compagno di caccia, un asinello. Vinto un certo iniziale timore, l’asinello si convinse ad allearsi col leone che lo coprì di fogliame, imponendogli di gettare nel panico tutte le fiere dei dintorni con la sua roca voce ragliante. L’asinello era nuovo alla savana e quindi anche il suo verso vi era sconosciuto. Lo scopo del leone era quello di approfittare dello scompiglio creato dal raglio dell’asino tra gli animali che, non potendo sapere cosa fosse e da dove provenisse, potessero essere sue facili prede, nel tentativo di fuggire. Ad un cenno del leone, l’asino si mise a ragliare sorprendendo le bestie. Ci fu un fuggi fuggi generale, tutti cercavano di raggiungere le note vie di fuga, ma il leone con un balzo ne acchiappò tantissime. Stanco della strage compiuta e della fame placata, il leone ordinò lo stop ai ragli. L’asino, insolentemente, dice: “Come ti sembra il lavoro svolto dalla mia voce?” “Notevole” risponde il leone “tanto che se non ti avessi conosciuto sarei scappato pure io tutto impaurito”. Morale della favola: chi è senza meriti, ma vanta a parole la sua gloria, riesce ad ingannare solo chi non lo conosce. Per chi lo conosce diventa oggetto di derisione.
Proverbi 30, 30: Il leone, che è il re degli animali, non indietreggia davanti a nessuno.

                  LA PECORA, IL CANE E IL LUPO
                               (Il tempo è galantuomo)

C’era una volta un cane che era noto a tutti per essere un falso accusatore: questa volta pretendeva da una pecora la restituzione di un pezzo di carne che diceva di averle prestato. A che scopo poi doveva averle prestato della carne, quando la pecora è notoriamente erbivora? Fece venire come testimone un lupo, che ci mise il carico: infatti testimoniò che la pecora era in debito non di un solo pezzo di carne, bensì di dieci! La pecora, messa con le spalle al muro dal falso testimone, fu costretta a restituire quanto non doveva. Trascorsero alcuni giorni, la pecora brucava spostandosi da una zona di prato ad un’altra e non pensava più alla cattiveria del cane e alla falsità del lupo. Quando lo vide che giaceva lungo in una fossa, le venne spontaneo pensare: “Questa è la giusta ricompensa per la tua falsa testimonianza. Abitualmente i mentitori pagano per il male che compiono”. Morale della favola: quando ci si presta ad una mala azione, la punizione è ben meritata. 
Esodo 20, 1 e 16: Dio allora pronunciò tutte queste parole: Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
Proverbi 6, 16: Sei cose odia il Signore, anzi sette ne detesta: occhi alteri, lingua bugiarda, mani che versano sangue innocente, cuore che ordisce trame malvagie, piedi che corrono in fretta verso il male, falso testimone che sparge menzogne e chi provoca discordie in mezzo ai fratelli.
Matteo 26, 59-66: I sommi sacerdoti e tutto il sinedrio (*)  cercavano qualche falsa testimonianza contro Gesù, per condannarlo a morte; ma non riuscirono a trovarne alcuna, pur essendosi fatti avanti molti falsi testimoni. In fine se ne presentarono due che affermarono: “Costui ha dichiarato: Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni”. Alzatosi il sommo sacerdote gli disse: “Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano contro di te?”. Ma Gesù taceva. Allora il sommo sacerdote gli disse: “Ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo, il figlio di Dio”: “Tu l’hai detto, gli rispose Gesù, anzi vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio, e venire sulle nubi del cielo”. Allora il sommo sacerdote si stracciò le vesti dicendo: “Ha bestemmiato! Perché abbiamo ancora bisogno di testimoni? Ecco, ora avete udito la bestemmia; che ve ne pare?”  
Luca 23, 39-43: Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!”.  Ma l’altro lo rimproverava: “Neanche tu hai timore di Dio benché condannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, Egli invece non ha fatto nulla di male”: E aggiunse: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Gli rispose: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”.
(*) Sinedrio, supremo consiglio, una sorta di senato della Giudea.
IL CERVO ALLA FONTE
(L’apparenza inganna)
(Non è bello quel ch’è bello; è bello quel che piace)

C’era una volta un cervo vanitosetto che scorrazzava felice tra i picchi montuosi. Ad un certo punto la sete lo spinse ad avvicinarsi ad una fonte per bere, però la sete poteva aspettare: infatti si soffermò per prima cosa ad osservare la sua immagine riflessa nelle chiare acque della fonte. La sua vanità lo spinse a trascurare la sete per lodare le sue  meravigliose corna a più palchi e a biasimare l’eccessiva magrezza delle quattro zampe.  Mentre tra sé e sé rifletteva con questa altalena di considerazioni: “Che corna stupende, però peccato per le mie zampe tanto esili tutt’altro che gradevoli a rimirarsi”, fu riportato alla realtà dal vocio dei cacciatori che battevano la zona. Atterrito, si diede ad una fuga precipitosa per i campi verso il bosco; correndo sulle sue agili zampe riuscì a sfuggire ai cani. Si nascose nel bosco e quando ebbe la certezza che il pericolo fosse ormai scampato provò a muoversi. Ma qualcosa lo tratteneva, il corpo poteva muoversi, ma la testa, per quanti sforzi facesse era imprigionata … le corna, le sue meravigliose corna a più palchi si erano impigliate tra i rami. I cani annusavano l’aria e non ci misero molto a scovare il cervo impossibilitato a scappare. E non poté far altro che ammettere: “Oh me infelice, troppo tardi capisco quanto mi siano state più utili le zampe che disprezzavo, delle corna che consideravo il mio vanto”. Morale della favola. Impariamo a dare il giusto peso e valore a ciò che abbiamo.
Qohelet 7, 13: Cerca di capire l’opera di Dio, perché nessuno può raddrizzare ciò che Egli ha fatto curvo. 
Sapienza 11,24: Infatti tu ami tutte le cose che esistono e niente detesti di ciò che hai fatto, perché se tu odiassi qualche cosa neppure l’avresti formata.
Siracide 11, 2: Non lodare un uomo per la sua bellezza e non condannarlo per la sua apparenza.
LA RANA E IL BUE
(Chi nasce tondo non può morire quadrato)

C’era una volta mamma rana con i suoi piccoli: prendevano il sole e acchiappavano insetti sullo stesso prato in cui ruminava un grosso bue. Mamma rana non si poteva capacitare di come potessero esistere animali tanto più grandi di lei e dei suoi ranocchietti; la sua meraviglia non si limitò alla normale constatazione, sfociando addirittura in invidia. Pensò bene (… bene lo riteneva lei) di gonfiarsi tanto da raggiungere la stazza del bue. Ad intervalli di qualche secondo da che aveva iniziato questa assurda operazione, domandava ai piccoli chi tra lei ed il bue fosse il più grande. Ma la inevitabile risposta era sempre: “Mamma, cra, cra, il bue”. Delusa, si gonfiò ancora di più e delusa, ottenne la solita risposta. “Mamma, cra, cra, il bue”. I ranocchietti fecero appena in tempo a fermarla perché voleva gonfiarsi ancora di più: la sua pelle cominciava già a cedere non riuscendo a contenere altra aria. Morale della favola: bisogna accontentarsi di come si è , del proprio stato. Ed inoltre, chi non ha mezzi adeguati, non può imitare i potenti.
Matteo 18, 1-4: I discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: “Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?” Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli”.

C’E’ UN TEMPO PER IL LAVORO E UNO PER LO SVAGO
(Ogni cosa a suo tempo)
(Apollo non tiene l’arco sempre teso)
(L’arco troppo teso si rompe)

C’era una volta, nella città di Atene, un tale che pensava solo al lavoro, arrivando addirittura a deridere i suoi concittadini che si prendevano delle pause festose. Un giorno vide Esopo che giocava insieme ad alcuni bambini usando come trastullo delle semplici noci. Pur malvolentieri, perché toglieva tempo al lavoro, si fermò ad osservare l’insolita scenetta, e ne rise non perché ne fosse divertito, ma perché compativa lo scrittore arrivando a  ritenerlo quasi folle. Esopo, da attento osservatore qual era, si accorse di essere divenuto, da fustigatore dei costumi altrui, fustigato e, senza profferire parola, prese un arco e lo pose in mezzo alla strada. L’ateniese, a quella vista, mutò opinione e da quasi folle che lo riteneva, lo definì del tutto folle, manifestandoglielo direttamente.   Esopo allora sbottò: “Ehi tu, che ti ritieni savio, spiegami il lato folle del mio comportamento”. Si forma un capannello di gente; il derisore non sa che pesci prendere, non sa dare una risposta convincente e alla fine ammette di non avere argomenti validi a sostegno del suo pensiero. Allora Esopo spiega: “Se un arco sta sempre teso, presto si spezzerà e non ti sarà più di alcuna utilità; ma se lo allenterai, poi quando dovrai tenderlo per scoccare le frecce, farà il suo lavoro egregiamente. Così per la nostra mente alla quale, di quando in quando, debbono essere concessi gli svaghi  perché possa tornare a rilassarsi, per affrontare in forma  nuovi impegni”. Morale della favola:  c’è un tempo per tutto. Anche i momenti di svago sono propedeutici ad una migliore resa nel lavoro.
Qohelet 3, 1: Ogni cosa ha il suo momento, ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.
Qohelet 3, 10-13: Ho osservato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini perché vi si impegnino. Egli ha fatto ogni cosa proporzionata al suo tempo ; ha posto nell’uomo anche una certa visione d’insieme , senza però che gli riesca di afferrare l’inizio e la fine dell’opera che Dio ha fatto. Così ho capito che per l’uomo non c’è alcun bene se non starsene allegro e godersi la vita. Ma che l’uomo mangi e beva e goda il frutto della sua fatica, anche questo è dono di Dio.
Marco 1, 14-21: Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: “Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini”. E subito, lasciate le reti, lo seguirono. Andando un poco oltre, vide sulla barca anche Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello mentre riassettavano le reti. Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedeo sulla barca con i garzoni, lo seguirono. Andarono a Cafarnao ed entrato proprio di sabato nella sinagoga, Gesù si mise ad insegnare.
Luca 7, 33-35: E’ venuto infatti Giovanni il Battista che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: Ha un demonio. E’ venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve, e voi dite: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. Ma alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli.
Giovanni 5, 1: Vi fu poi una festa per i Giudei e Gesù salì a Gerusalemme.
Giovanni 10, 22-23: Ricorreva in quei giorni a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era d’inverno. Gesù passeggiava nel tempio, sotto il portico di Salomone. 
LA CICALA E LA FORMICA (*)
(Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza)
(Cogli la rosa, o Ninfa, or ch’è il bel tempo)

C’era una volta una splendida giornata, in cielo il sole brillava, sui rami gli uccellini cinguettavano gioiosi, sui prati i bambini, felici, giocavano liberamente, le cicale frinivano sonore; nessuno faticava in quella giornata ed in tutte le altre della stagione estiva, tranne una formica operosa che andava e veniva da un campo coltivato al formicaio. Ad ogni viaggio era un po’ di provvista in più che si andava a conservare per l’inverno: la formica doveva procedere per piani, gallerie, camere fino a raggiungere la dispensa, un vero labirinto. Ma la formichina, oltre ad essere dotata di una notevole forza fisica, dimostrava pure uno spiccato senso dell’orientamento e una notevole memoria: difatti il formicaio è una struttura complessa , come un palazzo con i suoi vari piani, però sotterraneo; al posto dell’ascensore ci sono le gallerie che mettono in comunicazione un piano con l’altro; poi tante camere da riempire con ogni ben di Dio. Era fine giugno e fu così fino a settembre inoltrato quando il sole cominciò ad essere coperto da qualche nuvoletta, gli uccellini avevano un po’ di raucedine per il fresco lino che iniziava a farsi sentire e i bambini erano tornati sui banchi di scuola. E la cicala? Cominciava a preoccuparsi e a dimagrire perché sui tronchi degli alberi iniziava a scarseggiare la linfa. La porta del formicaio era stata ben serrata dall’interno per lasciar fuori spifferi d’aria autunnale e gocce di pioggia. Le formiche banchettavano alla grande con tutto quello che avevano raccolto nei mesi di duro lavoro. La cicala non ci vedeva più dalla fame, si fece coraggio e, con le poche forze che le restavano, si mise a bussare alla porta del formicaio. Lì dentro,  erano tutte intente a masticare e a mala pena la formica più giovane riuscì ad udire un leggero toc toc al portone; vi si diresse, aprì e si trovò di fronte una cicala quasi trasparente, tanto era magra. “Per favore, fammi la carità di un chicco di grano”, pietì, promettendone la restituzione. “Perché te ne sei stata a cantare tutti i giorni dell’estate, senza preoccuparti di mettere da parte qualcosa per i giorni della cattiva stagione? Ora per quanto mi riguarda, non puoi far altro che metterti a ballare, così almeno pur continuando a patire la fame, non sentirai il freddo”, fu la risposta della formica. “Ma da giugno a settembre ti ho rallegrato il lavoro col mio canto!” “Avrei lavorato anche senza il sottofondo del tuo monotono frinire!” E le chiuse la porta in faccia, indossò la cuffietta da casa e riprese a sgranocchiare pregustando le ricche mangiate che avrebbe fatto al calduccio durante tutto l’inverno.  Morale della favola: l’essere previdenti (= provvedere in tempo alle necessità future) e la parsimonia (= moderazione nelle spese) sono virtù. Se però si accumula oltre il bisogno e si rifiuta l’aiuto a chi è in difficoltà diventa vizio. Bisogna però distinguere chi è povero senza propria colpa da chi lo è, perché - senza misura nel fare il passo più lungo della gamba - ha vissuto al di sopra delle sue possibilità.
(*) Nella redazione di Esopo il titolo è “La cicala e le formiche”
LA CICALA E LA FORMICA (nella redazione di Aviano)
Chiunque permette alla propria giovinezza di trascorrere nell’indolenza e non si preoccupa con previdenza ed in anticipo dei travagli della vita, logorato dalla vecchiezza, giacché è giunta l’età molesta, ahimè spesso sarà costretto a mendicare, invano, il soccorso altrui. Una formica aveva ammassato, per l’inverno, quanto con laboriosità aveva strappato ai campi ogni giorno sotto il sole, prima che arrivasse la brutta stagione, e nascose tutto negli stretti spazi del formicaio. Perciò quando la terra si coprì di bianche nevi e i campi si nascosero sotto una spessa crosta di ghiaccio, resa troppo pigra e non in grado, con il suo fisico, di tener testa a così grandi tempeste, fa ricorso ai chicchi inumiditi delle sue cellette. Una cicala dai molti colori, - che nella passata stagione aveva fatto sentire per i campi il suo lamentoso frinire - supplice, implora, pregandola, cibo, “dato che anche lei aveva trascorso i giorni estivi con i suoi canti mentre si battevano le messi”. Allora la formichina, ridendo (infatti è loro costume continuare la medesima vita), così rispose alla cicala: “Giacché anche procurarmi le provviste mi è costato un enorme lavoro, posso, nel colmo del freddo, trascorrere un lungo periodo di vacanza. A te, invece, rimangono ora gli ultimi giorni per ballare, visto che in precedenza hai trascorso la vita a cantare”.     
Proverbi 3, 28: Non dire al tuo prossimo: “Va, ripassa, te lo darò domani”, se tu hai ciò che ti chiede.
Proverbi 6, 6-11: Va’ dalla formica, poltrone, osserva le sue abitudini e diventa saggio. Essa non ha un capo, né un sorvegliante, né un padrone, eppur d’estate prepara il suo alimento e raduna il suo cibo durante la mietitura. Fino a quando, poltrone, riposerai? Quando ti alzerai dal tuo giaciglio? Un po’ dormire, un po’ sonnecchiare,  un po’ star con le mani in mano sul letto: così giunge a te la miseria come un vagabondo e la povertà come un mendicante.
Proverbi 21, 13: Chi chiude l’orecchio al grido del povero, quando a sua volta invocherà, non otterrà risposta.
Siracide 12, 1-5: Se fai il bene, sappi a chi lo fai, e avrai riconoscenza per la tua bontà. Se aiuti un uomo pio avrai la ricompensa, se non da lui, certo dall’Altissimo. Non avrà alcun bene chi si ostina nel male e non fa mai l’elemosina. Dà all’uomo pio e non preoccuparti del peccatore. Benefica l’umile e non dare all’empio; rifiutagli il pane, non dargli nulla, perché non ne approfitti a tuo danno; riceveresti il doppio in male per tutto il bene che gli hai fatto.
Siracide 29,20: Aiuta il tuo prossimo secondo le tue possibilità, ma bada a non essere rovinato.
Matteo 6, 1-4 “Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli. Quando, dunque, fai l’elemosina non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico. Hanno già ricevuto la loro ricompensa. Quando invece tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”.
Matteo 7, 12: Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti.
Luca 3, 10: Le folle lo interrogavano: “Che cosa dobbiamo fare?” Rispondeva: “Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto”.
Paolo, Seconda lettera ai Tessalonicesi 3, 10: Quando eravamo presso di voi, questo vi raccomandavamo: Chi non vuole lavorare, neppure mangi.
ALLA FORMICA
Poesia di Gianni Rodari (1920 – 1980)
Chiedo scusa alla favola antica
Se non mi piace l’avara formica.
Io sto dalla parte della cicala
Che il più bel canto non vende, regala.

Il poeta vuole sottolineare come il lavoro dello scrittore, che scrive per la gioia dei suoi lettori, somigli a quello della cicala che canta per tutti.
LA CICALA E LA FORMICA
Rielaborazione di MRDL de “La cigale et la fourmi”
di Jean De La Fontaine (1621 – 1695)
                                             
“Canta che ti passa” di chi è motto?
Di Magicicada signorotto! (1)
Pur se la fame, quella no, non passa
quando verno è qui, ohité lassa
e fredda e vuota è la tua tana,
poi, se soffia forte tramontana …
Non vedi in giro due vermetti!
E sul piatto, cosa metti?
Qui gira molto male,
via superbia, tanto vale
affrontar la mia vicina,
la solerte formichina.
“Dammi ascolto, te ne imploro,
non ti chiedo un’oncia d’oro,
sol un chicco di qualcosa,
tu ne devi avere a iosa.
Non mi reggo proprio retta,
non chiederei se non costretta.
Renderò quanto mi presti,
con l’aggiunta di interessi.
E’ tutto vero, non è fola.
Non ti fidi? Son di parola”.
“Scortesia, non la conosco.
Cosa hai fatto tutto agosto?”
“Ho cantato, è mio costume”.
“Vai a cercare nel pattume.
Vi ho gettato, or non è molto,
un chicchetto mal raccolto.
Ed inoltre io ti consiglia:
vai a ballare una quadriglia”.

_______________________________

(1)          Magicicada septemdecim è il nome scientifico di un genere di cicala, così chiamata perché la sua intera metamorfosi dura diciassette anni. E’ il maschio delle cicale a produrre il monotono frinire  (che fa tanto estate).

LA CICALA RACCONTATA DALL’ENTOMOLOGO
(=studioso degli insetti. Entomon in greco significa “segmento” e, per estensione, “insetto” perché gli insetti hanno il corpo diviso in tre segmenti: testa, torace addome. Il segmento è ciascun tratto di un intero).
E’ opinione diffusa che la sola occupazione della cicala sia quella di frinire nelle giornate estive dalle prime luci del giorno al tramonto: è vero solo in parte, perché è il maschio ad emettere il suo monotono stridio che nasce dalla vibrazione di due organi a forma di timballo che è uno strumento a percussione (sul tipo del timpano o del tamburo), situati sul dorso, tra le ali. Friniscono, ossia cantano, girando sul tronco su cui si trovano per seguire il sole. Mentre timpani e tamburi producono il suono per percussione esterna, il timballo delle cicale suona per trazione interna, cioè il calore e la luce del sole – per questo motivo girano sul tronco – stimolano il muscolo che distende e contrae le due membrane vibranti. Testa ed addome fungono da cassa di risonanza. Le membrane sono come la pelle del tamburo. Il sole è di importanza vitale nell’esistenza delle cicale che temono l’inverno, ecco spiegato perché non si curino di far provviste: non resistono ai primi freddi, inoltre non possono mangiare cibi in grani ma si nutrono conficcando il rostro, che è una specie di robusta cannuccia,  nei tronchi e succhiandone la linfa che zampilla, attirando anche altri insetti che se ne possono nutrire. Il corpo delle cicale misura  circa cinque centimetri, è di colore grigio/rossiccio e nero. Le elitre, ossia i rivestimenti delle ali, sono trasparenti. Vivono quattro anni sottoterra allo stadio di larva, anche se, come già detto, la Magicicada septemdecim impiega ben diciassette anni (septemdecim in latino significa diciassette) a compiere l’intera metamorfosi. La vita allo stadio di insetto dura solo due mesi. Le madri a metà luglio depongono le uova che si schiuderanno ad ottobre/novembre. Le larve si seppelliscono nel terreno, rimanendovi per quattro anni, nutrendosi della linfa delle radici.  Quindi non biasimiamole troppo se per i due mesi in cui possono godere del sole e della luce, dimenticando il buio umido che hanno conosciuto durante i quattro anni del loro stadio di larva, sembrano vivere una sorta di imprevidente carpe diem (= cogli il giorno, invito a godere dei beni che la vita offre giorno per giorno.  E’ locuzione latina, portata al sommo grado nella formulazione  assunta in italiano “cogli l’attimo”).
LO SPORTIVO NON SPORTIVO
(Combattere ad armi pari)

C’era una volta un tale che aveva assistito ad una gara sportiva: il vincitore si pavoneggiava impettito con fare superbo. Allora lo spettatore gli chiese: “A giudicare dal tuo atteggiamento, dato che mostri tanta vanità, hai battuto un avversario più forte di te”. E l’atleta sciocco rispose: “Non c’era nessuno che mi potesse superare, difatti la mia gagliardia è di molto maggiore a quella di tutti gli altri concorrenti”.  “E allora, quale onore hai meritato, o stolto, se tu con le tue forze di gran lunga maggiori hai superato concorrenti inferiori a te nelle loro doti fisiche? Avresti guadagnato le lodi di tutti se tu fossi riuscito a prevalere su avversari più forti di te”. Morale della favola: meritano biasimo coloro che per un motivo da nulla facilmente si gonfiano.
Proverbi 24, 5: Vale più un uomo saggio che uno forte, un uomo di scienza che uno valido solo di muscoli.
Giovanni 5, 44: E come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?
Giovanni 6, 15: Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo.
Seconda lettera di Paolo a Timoteo  4, 7-8: Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa. Ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno, e non solo a me, ma anche a tutti quelli che attendono con amore la sua manifestazione.

I DUE AMICI E L’ORSO
(Chi trova un amico trova un tesoro)

C’era una volta un bosco tanto fitto di alberi in cui due amici se ne andavano tranquilli in cerca di funghi. La passeggiata si presentava  bene, l’aria era buona, i funghi tanti e la compagnia piacevole. A rompere questo incanto, ecco arrivare un orso affamato. L’amico più agile si arrampicò veloce su un albero cercando di nascondersi tra i rami. L’altro, per via di un piede non in perfetta forma non poteva correre né tantomeno arrampicarsi su un albero. Era rassegnato a costituire il pasto dell’orso. Giocando l’ultima carta, gli parve di ricordare che gli orsi non si accaniscono contro corpi senza vita. Ed allora si sdraiò in terra fingendosi morto. Respirava piano, piano per non far muovere il torace. L’orso si avvicinò, lo toccò con le zampe ungulate su tutto il corpo, insistendo sul viso e le orecchie ma nulla, il … morto non si muoveva. L’amico al sicuro sull’albero osservava tutto. Alla fine l’orso decise di andarsene a pancia vuota. E così entrambi gli amici uscirono indenni dal bosco, ma non per lo spirito di amicizia, assente nel più agile, ma solo per l’astuzia del più debole: il primo si è salvato per la sua agilità fisica, l’altro per la sua agilità mentale. Morale della favola: Non è sufficiente che due persone condividano una passeggiata nel bosco per dire che tra loro ci sia amicizia.
Proverbi 27, 10: Non abbandonare il tuo amico …
Siracide 37, 1: Ogni amico dice: “Anch’io ti sono amico!” Ma c’è chi è amico solo di nome.
Giovanni 15, 13: Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.

Il fratellino carino e la sorellina bruttina
(Mazz’ e panelle fann’e figl bell, panelle senza mazz’ fann’e figl pazz)
C’era una volta uno specchio che faceva bella mostra di sé nella camera da letto dei genitori di un bambino e di una bambina. Lo specchio, quando era ancora nella bottega dell’artigiano che lo stava forgiando da una semplice lastra di metallo lucidissima (solo in tempi più recenti la tecnica per ricavare specchi si è modificata: una faccia di una lastra di vetro viene coperta da un amalgama di argento o stagno ricoperto di vernice in modo che possa riflettere le immagini), si domandava chi avrebbe ammirato il proprio volto riverberato sulla sua superficie. Ed ecco che, una volta arrivato in quella che sarebbe stata la sua casa, si rese conto con disappunto di essere motivo di discussione e motteggio tra i due bambini: il maschietto si vanta del suo bel aspetto, la femminuccia si cruccia della sua figura tutt’altro che avvenente e degli scherni del fratello che, con poco tatto, le rivolge lazzi che la offendono. Non sopportando più la pesante invettiva di motti e non potendo prendersela con la realtà della sua mancanza di bellezza, va dal padre ad accusare il fratello di aver preso un oggetto prettamente femminile. Il papà li stringe entrambi in un affettuoso abbraccio, senza preferenze per la bellezza esteriore, e dice: “Voglio che usiate lo specchio tutti i giorni, tu per non guastare la tua bellezza con i difetti della cattiveria e tu perché vinca con la bontà dei costumi questo tuo aspetto”.  Morale della favola: “Per poter educare bisogna amare”, ha detto Karol Wojtyla, San Giovanni Paolo II. Ed il papà della favola sapeva amare e, quindi, educare:  la bellezza, priva della bontà d’animo, è una vuota apparenza. E, al contrario, un carattere dolce e paziente, fa dimenticare un visetto poco armonioso.
Proverbi 23, 13-14: Non ricusare al giovane la correzione; anche se lo colpisci con il bastone non morirà; anzi, colpendolo con il bastone, lo libererai dagli inferi.
Proverbi 27, 5: Meglio un rimprovero aperto che un amore nascosto.
Proverbi, 31, 30: Un inganno è l’avvenenza, un soffio la bellezza!
Siracide 7, 23-24: Hai figli? Pensa alla loro educazione e piegali alla sottomissione fin da bambini. Hai figlie? Veglia sul loro corpo , e con loro non mostrarti troppo indulgente.
Siracide 11, 2: Non lodare un uomo per la sua bellezza e non condannarlo per la sua apparenza.
Siracide 23, 15: L’uomo abituato ai discorsi oltraggiosi in tutta la sua vita non potrà correggersi.
Siracide 25, 12: Qualsiasi ferita, ma non la ferita del cuore; qualsiasi cattiveria, ma non la cattiveria di una donna.
Siracide 25, 16: La cattiveria deforma l’aspetto di una donna e oscura il suo volto come quello di un’orsa.
Siracide 26, 15: La donna pudica ha bellezza su bellezza, non si può valutare il pregio di una donna riservata.
Siracide 27, 15: La lite dei superbi finisce nello spargimento di sangue; sono penose a udirsi le ingiurie che si scambiano.
Siracide 30, 1: Chi ama il proprio figlio usa spesso la sferza, per gioire di lui quando è grande.







Nessun commento:

Posta un commento