venerdì 20 dicembre 2019

F. ROMBOLI LEGGE: "I DINTORNI DELLA VITA" DI NAZARIO P.




          Al cospetto della Morte, per amore della Vita

Anche il lettore frettoloso è in grado di constatare la centralità del tema della natura nell’opera poetica di Nazario Pardini, ormai davvero ricca di testi.
Le raccolte più recenti confermano, all’interno di una ricerca artistico-letteraria contraddistinta da forti elementi di continuità ideale e formale-stilistica, tale rilievo primario, non certo limitabile alla semplice frequenza quantitativa bensì qualitativamente prezioso nella sua dimensione privilegiata di espressione oggettivata degli stati interiori, àmbito della manifestazione concreta e coinvolgente delle differenti situazioni etico-sentimentali, nonché momento dell’esplicitazione commossa e meditata di una coerente concezione della realtà.
Questa nel discorso lirico pardiniano appare, fin dagli esordî, percorsa da un’intima dinamica energetica, da un élan espansivo, teso a prorompere e dilagare, insofferente di argini, ostacoli, limiti di sorta. Tale idea si obiettiva, ad esempio, nella potente rappresentazione della piena di un fiume: “Piove a dirotto stamani, ed il Serchio/ gonfia il suo letto; è già nelle golene,/ tra gli alberi che invocano l’aiuto/ frusciando malinconici richiami/ col loro ciuffo sopra alla corrente;/ niente risparmia l’acqua inferocita,/ tutto porta con sé, alla deriva./ Qui dall’argine l’occhio si spaventa/ a mirare la potenza che sprigiona:/ le barche sradicate dai pontili/ corrono in grembo al grosso defluire,/ e ciottoli, tronchi, tavole, e ferraglie/ si rincorrono in gara verso il mare”, La piena del Serchio.
Dinanzi al moto imperioso della vitalità naturale il primo atteggiamento dell’autore consiste nell’abbandono positivo, in un acuto desiderio di immedesimazione, in un bisogno di fusione panica e disindividualizzante: “Odori di salmastro e d’acqua smossa,/ di erbe trascinate contro voglia,/ mi invadono narici. E mi confondo/ con tutto quel fracasso naturale:/ divento un ramoscello in mezzo al mare” (ivi, corsivi miei, come sempre in seguito).
Ho citato da I dintorni della solitudine (2019), la silloge che avvia un percorso ideativo proseguito con I dintorni dell’amore ricordando Catullo e I dintorni della vita, libri pubblicati in questo stesso anno, a comporre un’interessante trilogia.
Nella prima raccolta emerge altresì il ripiegamento riflessivo, il distanziamento meditativo, magari coadiuvati dal recupero memoriale, dalla riappropriazione intellettuale delle esperienze del vivere, potenziate così nella loro rilevanza etica e affettiva: “Ed il ricordo/ l’ho in saccoccia cogli altri. A questo punto/ penso proprio di tenerli vicino/ ad un cammino ormai giunto alla fine (…) Ogni tanto/ me ne riprendo uno come quando/ si gioca con i petali sui prati./ E’ come ripescare un angolino/ della vita. E’ come riviverla/ col supporto fecondo dei ricordi./ Allungarla?  Chissà…”, Via à vis con la sorte.
E’ questo l’altro tratto caratteristico dell’elaborazione estetica di Pardini, coessenziale nell’ordine strutturale-compositivo del suo lavoro d’arte, come in varie occasioni mi è occorso di sottolineare: tale disposizione mentale implica l’aspirazione a un punto di vista personale, all’acquisizione di una posizione critica che, concentrando l’attenzione sui “dintorni” di determinate, capitali situazioni spirituali, ne focalizza gli aspetti problematici, ne sonda la profondità sentimentale-morale.
Nella Lettera ad una amica mai conosciuta premessa ai componimenti riuniti ne I dintorni dell’amore lo scrittore si dichiara credente (“L’avrà (Pneuma) lo Spirito Santo questo potere di infondere tutta la sua forza sulla materia per evolverla in bene? Io ci credo. Sono un credente. E non mi pongo tanti interrogativi”), dopo aver esordito con un’immagine a lui congeniale secondo che si è in precedenza documentato: “E’ proprio vero, il fiume scorre, portandosi dietro ciottoli, acque chiare, torbide, detriti, piene, e bonacce. E tutto va a finire in un mare immenso, infinito. Avrà funzione catartica quel mare, che all’apparenza pare chiaro e brillante, poeticamente tanto vicino all’eterno? Potrà purificare tutto? La portata del fiume è pesante. Pesante quanto la nostra memoria”.
Rammento un verso di Charles Baudelaire, poeta molto caro al nostro autore : “Homme libre, toujours tu chériras la mer! ” (Uomo libero, ti sarà sempre caro il mare!, L’Homme et la mer, in Fleurs du mal, 14, v.1); se la seconda silloge risulta sostanzialmente monotematica, incentrata com’è sul motivo dell’amore, l’idea del mare – come ha evidenziato nella lucida prefazione Rossella Cerniglia – vale un’istanza idealizzante e unificante i varî momenti di un sentimento che unisce alla passionalità istintiva, edonistico-sensuale (“ Il profumo del corpo/ ed il tuo seno,/ rosa d’aspetto/ e marmo nel suo tatto,/ in me sopite voglie/ destano ancora/ e rotonde e compatte/ nelle mani/ stringo le forme tue”, Il profumo del corpo) l’ambizione di darsi misure superiori di immensità e di transtoricità: “ Son fuscello/ che si annulla nell’aria mattutina/ portato sull’onda dell’aria leggera/ del novembre. Forse rincaserà/ l’anima mia in fuga negli abissi./ Ritornerà in prigione nel suo corpo,/ riprenderà i suoi occhi per mirare/ l’immensità del mare,/ per pensare di nuovo che la vita/ è quel fuscello breve/ che dimena/ in un’immensità che ti rapina”, In un’immensità che ti rapina.
Il rientro dell’animo nella dimensione corporea e quindi il recupero di un’ottica storicizzante e relativizzante rendono comunque lo scrittore toscano – anche attraverso la stimolante mediazione dei testi di Catullo – consapevole della caducità della vita umana e quindi pure dell’amore: “Così passiamo Delia. Noi saremo/ polvere e cenere sotto quei fiori/ o sotto il gelo che l’indifferenza/ porterà sempre a mietere l’estate./ Fuge quaerere, Delia! Amiamo, amiamo/ e ancora amiamo. / Facciamo d’ogni tempo primavera”, Ode.
L’intonazione oraziana intride di malinconia lo spunto conativo e partecipativo tipicamente pardiniano e dispone il lettore a quella “conversazione con Thanatos” di cui constano i versi de I dintorni della vita.
Può sul momento sembrare curioso che un complesso di liriche intitolate alla “Vita” si richiami con insistenza e sistematicità alla “Morte”: nondimeno l’interesse critico-intellettuale ampiamente dimostrato riguardo alla seconda si risolve e contrario nell’apprezzamento e nella valorizzazione dei pregi della prima.
L’antitesi vita/morte pervade da sempre il pensiero e le forme dell’arte degli uomini, se gli antichi Greci riconobbero nel “pensiero della morte” (μελτη ϑανάτου) l’origine stessa della filosofia; e un poeta moderno fornito di una robusta cultura classica, Giovanni Pascoli, mise in risalto nell’epilogo di quello che è il più noto e forse meglio riuscito dei Poemi conviviali (1904), L’ultimo viaggio, l’effetto psicologicamente angoscioso ed eticamente devastante dell’assillo costante della morte: “- Non esser mai! Non esser mai! Più nulla/ ma meno morte che non esser più ! – ( XXIV, Calypso, vv.52-53, cioè: ‘è meglio non esser nati, che nascere e vivere una vita tormentata dalla continua preoccupazione della morte’).
La tradizione teorico-culturale ha nel tempo concepito al proposito differenti strategie difensive. Per esempio un pensatore stoico come L.  Anneo  Seneca raccomandava di familiarizzarsi progressivamente con la prospettiva della fine individuale, rilevando il carattere liberatorio (“Qui mori didicit, servire dedidicit”, chi ha imparato a morire, ha smesso di essere schiavo”) del contenimento e della crescente limitazione degli impulsi che legano alla vita: se non è possibile sradicarli, si deve almeno ridurne l’efficacia vincolante (“Una est catena, quae non alligatos tenet, amor vitae, qui ut non est abiciendus, ita minuendus est”, Epistulae morales, III, 26,10);   si tratta di una posizione che Bino Sanminiatelli,  un raffinato prosatore della mia  terra di  Toscana, ha attualizzato e ridefinito  in termini esistenzialistici  nelle  splendide  pagine dei suoi Diarî : “Sentirsi vivere significa (generalmente e mondanamente) dimenticare la morte. Sentirsi vivere, invece, non è altro che sentirsi morire (…) A me non interessa tanto l’uomo nei suoi rapporti sociali quanto l’uomo di fronte alle cose della natura, all’amore, alla morte, all’esistere dell’universo”  (v. Quasi un uomo (1968),  giacché con la morte  “crolla nel nulla l’illusorio sodalizio creato da vivi. Ritroviamo la solitudine della nostra preesistenza” (v. Ultimo tempo. Diario (1967-1976) (1977).
Nazario Pardini non ignora di certo la presenza, dolorosa e disorientante della morte, la sua azione distruttiva e deprivante, come è ribadito in questi versi tramite la sequenza anaforica:  “Morte – Lo sai che prima o poi faremo i conti./ Verrò da te da anima negletta,/ ti toglierò gli affetti, le memorie,/ ti toglierò la vista, e quel che è peggio/ ti toglierò il pensiero./ Raccogli i tuoi bagagli, preparati alla fine,/ saluta la tua terra, i luoghi sacri/ dai quali hai preso tutto”, Dialogo con la morte.
Il poeta moderno però sul fondamento del proprio vitalismo naturistico si oppone ad essa, inveisce con durezza contro di lei: “Non hai alcun rimorso,/ morte nefanda, morte senza scrupoli,/ morte che veglia anche sopra i mari,/ per captare innocenti forse in preda/ di terrore e miseria? Tu che scorrazzi ovunque,/ sui colli, le città, sulle montagne,/ sui paesi nascosti alle intemperie;/ proprio tu, morte, presente in ogni dove…”, E quella imbarcazione?);   “Tu non hai passione,/ sei nata senza cuore, né potrai provare/ il bello di una storia. Solo morte;/ la tenebra, l’oscuro, i cimiteri,/ i loculi infecondi sono lì/ che attendono il tuo passo desolato (…) A te è negato ogni volo in cielo,/ dacché conosci solo l’ipogeo”, Se ti guardi dattorno;    “ Come faranno a vivere, lurida morte,/ morte lurida che indifferentemente/ ti accanisci da sempre sulla gente/ innocente e perbene (…) Per dirti quanto è vile il tuo trascorso./ Vivi senza rimorso?”, Senza rimorso.
La rima dell’ultima citazione – piuttosto isolata in un contesto lirico dominato dal verso libero – rinsalda l’aspro giudizio e un antagonismo irriducibile: “ C’è già nell’aria clima di sereno/ anche se il mare continua il travaglio; (…) Ma i dintorni riprendono il colore,/ aprendosi in segno di speranza./ Questa è la danza/ a ritmo di natura;/ danziamo la ballata delle gialle gramaglie;/ invidiosa sarai, morte,/ dinanzi ai nostri salti”, Mi sembra che il vento.
La correlazione antinomica si risolve pertanto in un elogio della vita (“ Non scriverò di certo della tua/ falce nemica, né del tuo volto/ macilento e avvilito, stamattina./ Non avrai il privilegio di occupare/ la testata di questo poemetto/ che racconta la vita, le memorie./ Scriverò, al contrario, della gioia/ che zampilla dattorno per i prati/ indifferenti al tuo potere maligno (…) delle ardite primavere che sempre/ impavide ritornano a tradirti/ coi tessuti cromatici vibranti/ all’asolo di marzo. Tradimento!/ Mi piace tutto quello che si oppone/ all’impertinenza della tua presenza,/morte ”, Non scriverò di certo, morte), della sua forza tonificante, dei suoi valori (l’amore, la poesia) capaci di vincere la morte: “ A dicembre quel ramo ebbe la gioia/ di vederli cresciuti, forti e rossi,/ cachi rotondi come il sole a sera;/ ma poi cedette. L’ho rivisto quest’oggi/ secco tra i rami, inanimato a terra./ Un simbolo d’amore e di preghiera,/ che ti ha fregato, morte,/ annullando la lama della sorte”, Un ramo secco a terra;    “E la parola/ fedele obbedirà/ alle risacche pronte/ a essere risolte in tatuaggi:/ ‘ Vola oltre la morte/ e amami ancóra come io ti ho amata/ e non lasciar che il mondo ti contamini/ togliendoti dall’anima quel succo/ nato per trasformarsi in poesia…’”,  Infangare Calliope.
Interrogandosi assiduamente intorno ai misfatti della morte (“ E poi dove sei andata? A chi è toccato? (…) Tu non lo sai ?/ La conosci la storia di mio padre?/ oppure l’hai falciato come tanti,/ senza chiederti niente”, E tu, quando morì mio padre? )  l’autore non si nasconde le responsabilità degli uomini nello spargimento del sangue, nella diffusione del lutto e può altresì concedere che Thanatos aiuti paradossalmente la vita liberando le creature dal dolore (“Forse a questo punto hai fatto bene,/ sono d’accordo con te questa volta./ Soffriva da tant’anni; il male lo rodeva./ Gli leniva il dolore la morfina./ Era un urlo perenne (…) Forse ha trovato pace; io non so/ cosa succede dopo, ma senz’altro/ ha smesso di patire. Oggi ti approvo.”, Oggi ti approvo, morte),  ma la sua opzione convinta a favore della vita non è mai posta in dubbio.
Stante il contrasto di fondo di cui si è detto è consequenziale il fatto che nei componimenti de I dintorni della vita assuma una  funzione strutturante la figura dell’antitesi e specificamente quella costituita dalla compresenza conflittuale di buio e luce: “Ma il tempo non ci fu:/ venne per te una sera non sperata/ anche se amavi tingerla/ coi buoi della Maremma./ Venne oscura per te che amavi il giorno”, Lettera al fratello scomparso;    “Racconteremo con le loro storie/ i luoghi dove io conobbi amore,/ per contraddire con la loro forza/ il nero vuoto della tua esistenza./ O primavera!/ Torna fulgente sopra i verdi prati…”, Non scriverò di certo, morte, cit.
Il poeta, che altrove, si è notato, ha affermato di essere credente, confida poi nella sconfitta finale della Morte, nel trionfo della Vita, in un tripudio di luce: “Si aprirono i cieli,/ la luce incoronò valli ed abissi,/ e tutto fu chiarore (…) Dovunque fu un abbraccio/ di fratelli, madri, padri;/ sugli avelli dei tanti cimiteri/ nacquero fiori; danzarono le anime/ rinate a nuova vita (…) Fu gioia. Fu luce attorno, accecante,/ nelle case, sul mare, e per le vie (…) Vinse l’amore, e nella notte/ si accese la lampada divina,/ grande, enormemente forte,/ più che d’agosto la calura estiva./ Più che di giorno la gloria del Signore”, Si aprirono i cieli.  

Floriano  Romboli




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