giovedì 30 gennaio 2025

Giovanna de Luca :" Falce di Luna, Perduta, Se, Tenerezza "

 

Falce di luna

 

Falce di luna

-lampeggia il colpo

tra l’erba recisa.

Rimane vuoto il campo,

senza parole l’anima.



Perduta

 

Dove ritrovarmi,

se mi sono perduta?


L'illusione mi salva

come la nebbia

che sale leggera.

L'attraversa lo sguardo

che s'illude.

La nebbia cala

torna reale ogni contorno.

E non ho più parole.


 

Se

 

Se la mia poesia fosse per te

lo sparire di nuvole dal cielo

il fiorire dell’alba all’orizzonte

ed un respiro lungo di sollievo

- se fosse una parola ritrovata

un ponte che ti porta più lontano

dove ogni dubbio cada e ti abbandoni

- se la mia poesia ti fosse suono

come canto di allodola al mattino

allora sì, potrei dirmi felice.

 


Tenerezza

 

È questa tenerezza

che non muore

al vederti passare,

alla tua voce,

allo sguardo che sfioro.

 

Come vivere altrove

in altro mondo,

dove niente impedisca

il mio sentire,

né il viverlo,

né il dirlo.

 

 

"Tre vite, un destino" romanzo di Francesco Paolo Tanzj (Grausedizioni 2024) di Franco Campegiani


Questo romanzo è uno spaccato sull’odierno mondo scolastico, dove studenti, genitori e docenti si confrontano tra di loro. L’intera società è sotto analisi, una società sempre più segnata dal trionfo dell’avere sull’essere, quindi sempre più degradata e violenta, sempre più inautentica, dove superata mostra di essere la stessa lotta ideologica contro il materialismo posta in essere dalla passata generazione: i dogmi sessantottini, per intenderci, naufragati nel manierismo qualunquistico e inadeguati a soddisfare le frustrazioni e le esigenze di purezza delle nuove leve. La famiglia e la scuola, impegnate con ruoli diversi e convergenti sul fronte dell’educazione, sono al centro delle attenzioni di Francesco Paolo Tanzj in questo suo Tre vite, un destino: avvincente romanzo di orizzonti socio-psicologici, la cui nota dominante è la crisi di ogni idealità, con il conseguente degrado antropologico nell’attuale vivere civile.

<In questo avamposto di guerra totale> (che è la scuola) - riflette il Prof. Alberto Ferri, protagonista centrale, vicepreside e insegnante di filosofia - <si gioca la partita più importante. Quella della costruzione degli uomini e delle donne del domani>. <A che serve - prosegue - la filosofia, la scuola, l’educazione? E’ una lotta impari perché il nemico è ovunque. Nella cattiva maestra televisione, nei miti rampanti dei soldi facili, nelle vetrine alla moda, negli stipendi dei calciatori, nei giochi politici senza più il filtro delle ideologie, nell’abbrutimento del nulla quotidiano, nell’assuefazione alla banalità, nel rifiuto di pensare, nell’assopirsi dei sentimenti. E noi che stiamo qui, a crederci ancora!>. Ebbene, hanno ragioni da vendere i giovani a rifiutare gli astratti proclami ideologici. L’ideale non esiste, affermano, ed è odioso innalzare bandiere, perché occorre vedere che uomini ci sono sotto le bandiere. Gli ideali vanno messi in pratica, ma purtroppo nessuno lo fa, per cui tutto fa schifo, concludono.  

Fare, anziché predicare. Ripartire da zero, ovvero da se stessi e dalla propria concreta sfera d’azione. E’ questa la svolta realistica e poco filosofica che il giovane Giulio, coadiuvato da Susy, la sua ragazza, pretenderebbe vedere incarnata negli adulti e spasmodicamente cerca per se stesso nelle sue ribellioni, nelle sue fughe disperate dalla realtà e dalla vita. Per il Professor Ferri, invece, la filosofia è vita e la scuola deve preparare alla vita. Non tanto nel senso riduttivo che deve servire ai giovani per trovare un impiego. Certo, anche in quel senso, ma c’è un senso più alto: quello di <resistere al cattivo spirito del tempo>, proponendo <un’educazione continua al vivere civile>. <Abbiamo un bel chiamarci educatori>, riflette il Professore, <ma a cosa educhiamo? a dare ai nostri alunni una cultura riciclata e di seconda mano che poi loro spenderanno nel mondo del lavoro con l’unico scopo di guadagnarsi uno stipendio? o a fornire loro gli strumenti per costruirsi una propria visione del mondo?>.

Il fatto è che se costruisci la tua visione del mondo sui modelli altrui, non sarai mai veramente te stesso e resterai per sempre disorientato nel corso della vita. Non bastano tutte le filosofie del mondo per aiutarti a risolvere i problemi che si presentano a te, in carne ed ossa, nel tuo tran tran quotidiano. La vita è la tua vita e nessuno può prenderla sulle sue spalle. Il maestro non può importi le sue regole, può soltanto essere un fratello maggiore, un prezioso compagno di viaggio, al patto di stare al tuo fianco rispettando la tua solitudine e dandoti il calore di una fraterna partecipazione. Offrendoti in più, oltre alla sua personale esperienza, la ricchezza dello scibile umano. Educare (da ex-ducare) significa appunto tirar fuori da dentro, e non inculcarli da fuori, i valori dello spirito umano. Scuola, dunque, come confronto e dialogo, come interscambio e ricerca incessante dei comuni e personali, universali e singolari valori umani. Ed è l’arte della maieutica, l’arte del far partorire, la cosiddetta arte della levatrice o della mammana di cui parlava Socrate.

Un programma rivoluzionario, teso a ristabilire il primato di ciò che è autentico, ovvero la maestà dell’Essere in un’epoca come la nostra caratterizzata dal trionfo dell’Apparire. Parliamo tuttavia di un Essere che non se ne sta nascosto nell’iperuranio, ma che scende nel mondo degli uomini portando l’iperuranio con sé. Un Essere che si proietta nel mare tempestoso della vita su di una fragilissima zattera, rischiando continuamente di naufragare, ma che sempre e comunque riesce a condurre il vascello verso porti sicuri e calmi. Un Essere che ama gettarsi nel mondo, come direbbero gli esistenzialisti, non certo per smarrirvisi, bensì per portarvi la Coscienza piena e limpida di sé. Una Coscienza che non teme la contraddizione. Anzi, la pretende. Quanta ricchezza c’è nella contraddizione! Non sempre due più due fa quattro. Per tutti arriva il giorno in cui le certezze saltano. Quel giorno, se ti vuoi salvare, devi credere che due più due fa centomila, o forse più. Poi tornerai a pensare che fa quattro, ma in quel momento non è così.

Dov’è la verità, allora? Qualcuno dice che la verità non esiste, ma non è così. La verità esiste, l’Essere esiste, solo che nessuno può racchiuderlo in un dogma, in una formula, perché il suo vero nome è Contraddizione. Gabriella, la mamma di Giulio, è disorientata, disperata. La sua famiglia è distrutta, il marito Paolo ed il figlio sono irrecuperabili e lei ha smarrito la bussola, le sue certezze sono crollate. Cerca aiuto nel Professore perché, gli dice: <Lei riesce a trasmettermi un po’ di fiducia, capisco che è uno che crede in quello che fa>. Il Professore risponde: <Vede, signora, anch’io non ho ricette sicure. Non faccio altro che sperimentare. Però credendoci>. Credendoci, questa è la parola chiave. Credere fa la differenza. Ma credere in cosa? non nella Befana, sebbene la Befana avrebbe qualcosa da insegnare a tutti noi. Credere nell’incertezza, nella ricerca, nella sperimentazione: <Guardo i miei alunni, dice il Professore, cerco di capirli, e poi piano piano - mentre espongo loro le poche cose che so - mi sforzo di farli uscire dal guscio… dalla loro indifferenza, spesso dal loro cinismo>.

Fede e dubbio in un solo respiro. Perché ci vuole una grande fede per poter dubitare, e ci vuole un dubbio fortissimo per poter crescere nella fede. Ovviamente non parliamo di fideismo, di fede in un ipse dixit, ma di fede in se stessi, fede che è anche dubbio e macerazione. <Non sopporto quelli che sono troppo sicuri di sé, riflette il Professore, gli ipocriti che annunciano teorie e non le mettono mai in pratica>. E il giovane Giulio, che non vorrebbe ascoltarne le prediche, la sciocca pretesa di avere una risposta per tutto, di capire il suo stato d’animo, ne resta in qualche modo sorpreso: <Quello che più mi colpisce, riflette, è quando lui dice quelle cose sulla solitudine e sul fatto che non esistono certezze e che la vita è dubbio e ricerca e che tutto quello che dobbiamo fare in realtà è di restare coerenti e non stancarci mai di volere purezza e utopia. E’ inutile chiederci a che serve: serve a noi stessi e questo è tutto>.

Se non è fede questa! ma è una fede paradossalmente fondata sulle sabbie mobili del dubbio, una certezza fondata sul crollo di ogni certezza. Ivi compresa la certezza dell’incertezza, che può diventare anch’essa un dogma incrollabile, come dimostrano tante filosofie attuali. Un terremoto implacabile, dunque: la filosofia del Professore sta qui. Credere e continuare a credere laddove tutto traballa. Solo così, riflette, si può tentare di <salvare se stessi e pochi altri dall’incertezza e dal senso di vuoto di un’esistenza ripetitiva e sfiduciata>. Ed è la via della Coscienza, che in fondo non è altro che la via della Crisi. Ha detto Einstein: “La crisi è la miglior cosa che possa accadere a persone e interi Paesi perché è proprio la crisi a portare il progresso. La creatività nasce dall’ansia, come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che nasce l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie... L’unica crisi minacciosa è la tragedia di non voler lottare per superarla”.

In realtà non c’era bisogno che lo dicesse Einstein, sappiamo tutti che è così. E tuttavia nel superamento della Crisi si annida un pericolo mortale: quello del dogma e della certezza, che trasforma in pregiudizio qualsiasi conquista culturale. Per cui non ci si deve mai adagiare, ed una volta superata la crisi, occorre saper tornare coraggiosamente nella condizione originaria, in quell’angoscioso e creativo stato edenico che sta sempre in bilico tra il Bene ed il Male. In quell’equilibrio dell’ordine naturale cui in fondo allude proprio Gabriella sul finire del libro: <Vorrei giungere un giorno alla capacità di non pensare affatto. Di lasciarmi andare alla vita, così come capita. Coglierne il succo, come fanno le api, e smetterla una volta per tutte di masturbarmi il cervello e i sentimenti>.

Eugenia Serafini, "Piccola utopia: frammenti per un ideale" , Frosinone 1995. Prefazione di Luigi Fontanella

 IL GIORNO DELLA MEMORIA.

Ut dignum sit mori. 
A Piero Terracina e a tutti I deportati questa mia poesia. 
Dignità 
è  un cielo azzurro 
dove rotolano aneliti e sogni.

Dignità 
è una scatola vuota
la gola secca
i polmoni inchio-
dati dal tanfo
della tua stirpe
che muore.

Dove siete
radici della mia
anima
storia della mia
terra
futuro del mio
popolo?

ACHTUNG
A 5506, BARACCA 7, 
CAMPO C
...
ACHTUNG ACHTUNG!

Chi tessera'
sui miei ricordi 
spettronudo della mia memoria 
un velo denso
di caligine bianca
un canto lieve 
come di ninnananna 
sulla nostra anima
oltraggiata. 

UT DIGNUM
sit mori

Maria Lenti legge :" La costanza del cielo " di Gian Piero Stefanoni; Roma, Il ramo e la foglia 2024


 

  

«Hai in te le rovine / di una beatitudine inversa, / di una riversa ebetudine / nello strappo dell’angelo / consumato nel pasto, / nella dicitura del legno / senza più l’albero - il grido, / alla terra che non vuole, / del petto che il cielo non aspetta, / nell’ombra che infibula la carne, / nel mondo che la copula non vede.»,  ULTIMA ROMA, p. 21.

Da una Roma caput mundi Gian Piero Stefanoni fa risalire in versi limpidi e chiari la ricchezza di un pensiero “impensierito” sull’oggi (e sul sempre?) di noi viventi,  solitudine e distacco quasi senza remissione, interferenze negative calate dal contesto politico, malinconie proprie dell’esistenza.

Ma è pensiero che offre un cuneo portante, quello su come non farci sommergere dal nero e quale possa essere il nostro apporto, nostro e del singolo:  «Non uscire dal letto senza pegni, / non andartene nudo. // Ogni giorno oltre le porte / il freddo, la paura, l’idolo - la sera / che ritorna nel nostro muto cognome, / al nostro muto scemare. //  Non uscire dal letto senza volto.»,  VOLTI, p. 22.

Quasi una preghiera, si direbbe, o un monito, un ammonimento rivolto a sé stesso come parte di una umanità ferita e sconcertata, ormai quasi ridotta a non più vedersi o immaginarsi viva, eppure viva di spiragli di speranza se ci si stringe in amore, se la sensibilità spinge amore, se è amore di insiemità.

Sguardo e animo consapevoli, così come il poeta scrive nella Dichiarazione di poetica, ad apertura della raccolta: «Soli non ci salviamo. E se la verità dell’uomo è nella condivisione, la natura e la forza di ogni vera poesia è dare dignità e racconto a questo vincolo fatto del medesimo respiro e del medesimo tormento.»

La costanza del cielo è l’ultimo libro di un autore che fin dal suo esordio ha avuto a cuore e ha trasfuso nella sua poetica la possibile salvezza di noi umani ab aeterno avvolti da reti, reti che, nel tenerci fermi, ci fanno tuttavia intravvedere il fuori dei rombi metallici: un ostacolo c’è ma pure può essere ravvisabile la sua rimozione.

Ed è la solidarietà, è la vicinanza, sono – arrivando a La costanza del cielo – l’impegno e l’amore, nella doppia valenza dell’amore per sé (impegno) e per il mio simile. Un amore, in qualche modo, da recuperare nelle profondità delle nostre fibre, forse per cristianità assorbita e non dimenticata, forse per una umanità presente da sempre se pur coperta dalle intemperanze del vivere (in quanto tale) e dell’esistenza (in quanto agita da altri). («Ma il mondo a sé rivolto non muta,

/ non dà pace, tutto occultando, / tutto spegnendo / nell’ispirazione sorda, / nel desiderio scevro. // Il cielo / non è uno spazio, la rosa / una facile voce nell’ipotesi divina.», DORSALI, p. 54).

Dalla prima raccolta In suo corpo vivo (1999) a Il dolore della casa (2020) a Di novembre (2022) si snodano lievi le poesie di Gian Piero Stefanoni con un filo di continuità, mai pressante, nel senso che mi sembra di avere individuato. Lo stesso filo che in Lunamajella (2019) appare saldamente introiettato avendo il poeta trovato in un luogo reale e simbolico,  non suo da sempre ma fatto suo, il proprio sé dentro un paesaggio terrestre e umano sotto un cielo di offerte non mendaci.

Un cielo che si vorrebbe proteso ad una costante sua chiarezza. Ma...vivere la speranza o vivere l’attesa? Esce l’interrogativo da La costanza del cielo:nell’una o nell’altro dilemma sta l’agire, pur accidentato e in salita, di chi ogni mattina si alza e inizia a camminare il suo giorno.   

 

 

Maria Lenti

martedì 21 gennaio 2025

Massimo Chiacchiararelli legge :" L'Arcobaleno nelle pozzanghere " di Maria Rizzi

 

                                

L’ultima fatica letteraria di Maria Rizzi, “L’arcobeleno nelle pozzanghere” è un giallo che avvince fin dalle prime righe, perché dietro la penna e gli occhi dell’autrice che inquadrano a tutto tondo, scrutano, riflettono sulle varie situazioni e circostanze dei protagonisti e delle varie comparse, ci sono i giudizi, le staffilate, la morale giudicante, la radiografia sociologica sulla vita attuale dove il potere assoluto è rappresentato dal denaro che bisogna avere a qualsiasi costo, anche infrangendo in modo animalesco e orribile la legge. L’autrice scrive spesso per immagini che rendono vivi i personaggi, ben rappresentati psicologicamente, per rivelarne i sentimenti nella loro peculiare essenza, riuscendo spesso a penetrare a fondo negli abissi delle loro coscienze. Spesso attinge alla sua biografia (presumo) con la mediazione della finzione romanzesca. La prosa è semplice, tradizionale, anche se a volte eccede in clichè precostituiti, dosando, comunque, indizi e colpi di scena in modo magistrale.

Maria Rizzi si dimostra un’abile tessitrice di trame e ha la capacità di riuscire a mostrare al lettore solo ciò che vuole, in un gioco di immagini riflesse da specchi ingannevoli, tanto da   far apparire le immagini stesse diverse da quello che sembrano, ma, al tempo stesso, ti rapiscono in un coinvolgimento integrale, così da renderti partecipe a costruire, insieme alla squadra di polizia, il mosaico della verità e a rendere quasi impossibile il distacco dalla poderosa lettura. In pratica è come se dialogasse con il lettore, perché parla della realtà odierna del mondo che ci circonda, osservando, scandagliando e giudicando tutto ciò che capita sotto il suo sguardo attento e ricettivo, ma soprattutto libero e illuminante.

Un’altra forza narrativa sta nei suoi incipit fulminanti che pescano nei detti antichi, nei proverbi popolari, nelle metafore filosofiche del nostro inconscio e delle nostre fobie, risultando a volte colme di poetica liricità:

 «Il sesso e i soldi sono le scarpe che adoperiamo per camminare nella vita.» PAG. 11

Piangere insieme, per una coppia, è il respiro dell’uno che muore nella gola dell’altra. PAG.13

«L’adolescenza è un dono e una malattia esantematica, la si subisce mentre si sfiora la vita… in attesa di morderla. Solo crescendo si capisce che rappresentava un surrogato dell’eden». PAG. 26

Il sole sta calando lentamente, annientando l’azzurro del cielo per saturarlo di colori straordinari, all’oro fino al porpora, passando per la gamma dei rossi, dei rosa e dei verdi più delicati. Scurisce anche gli alberi, li manda a dormire. PAG. 27

«Il male non sa di essere il male finché qualcuno non gli strappa la maschera del bene». PAG.37

Purtroppo troppi individui temono la verità e la giustizia e scelgono di vestire l’indifferenza. PAG. 42

È terribile rendersi conto di come l’orrore possa avere il sopravvento sulla capacità di ragionare, dilagando simile a un gas velenoso fino a impossessarsi di ogni angolo dell’organismo. PAG. 57

«… trattenete a lungo ogni boccone, fatelo danzare sulla lingua, vedrete che sarà carezza per il palato, schiuderà la gola… diventerà poesia». PAG. 74

“…perdere alcune cose fa diventare più forti: le cattive abitudini, il grasso superfluo, le conoscenze inutili. Ma se perdiamo i sogni, che sono state le stampelle di sempre, diveniamo irriconoscibili, deboli, tristi”. PAG. 104

La povertà di certi Paesi è scandalosa. E lo scandalo diviene insopportabile quando si prende coscienza che le situazioni di miseria sono il risultato della libertà di individui e nazioni pervertite nei comportamenti di indifferenza e di esclusione. PAG. 112

“…quando tira il soffio del male assoluto le orecchie rimbombano e non ci si può fare niente, solo seguire la direzione del vento”. PAG. 128

“… forse la memoria è l’unico pozzo dal quale distillare linfa vitale per affrontare l’oggi e il futuro. PAG. 135

“…Se le parole possono essere chiavi, certi silenzi somigliano a dei grimaldelli. Spaccano i timpani, uccidono le resistenze.” PAG. 144

«Il vento della notte è un ladro. Ruba i respiri, le carezze, e li disperde lungo sentieri evanescenti». PAG. 149

«Sulla bilancia del tempo l’odio sta pesando troppo, ma per fortuna resiste l’amore» PAG. 151

«Forse crediamo di aver nostalgia di un luogo, mentre abbiamo nostalgia del tempo vissuto in quel posto quando eravamo bambini e adolescenti. Il tempo ci inganna sotto la maschera dello spazio; facendo il viaggio, e tornando nell’isola della memoria, ci accorgiamo dell’imbroglio». PAG.171

Crescere insieme significa rinunciare alla pretesa di capire tutto, e lasciarsi andare alla deriva lungo i vorticosi torrenti dell’irrazionalità.” PAG. 189

I territori della memoria li ho rivisitati, si sono addormentati. Tacciono dolcemente. Credo sia arrivato il momento di abitare il presente per dare senso a ogni domani.” PAG. 196

 

Ho citato solo alcuni di questi camei meditativi, gli altri li lascio alla scoperta dei lettori attenti che si immergeranno in questo piacevole “arcobaleno”.

 

 

                                                                                  Massimo Chiacchiararelli

Franco Donatini ci segnala........


 

giovedì 16 gennaio 2025

Patrizia Stefanelli :" Lettera di un soldato a una madre "

 Lettera di un soldato a una madre

(canto a due voci)

 

… amica mia, ti dico:

per le cose che un uomo possa, alfine,

raccontare, ci vogliono tanti anni

di una vita trascorsa d’occasioni

a spigolare i miti i fatti i giorni

 

(frammenti, solamente dei frammenti

di notizia: si pongono di lato

nel PC. Sopra il mouse, indolente

            un dito è pronto al click).

 

Amica mia, tra i pini

della Foresta Rossa rinsecchiti

ho scavato trincee a mani nude

ed erbe radioattive ho calpestato;

con le unghie ho seppellito nuove età

 

(chi sei tu che ti inscrivi alla mia fronte

sì come il crisma segna il crocifisso?).

 

Ricordi che correvo

fino a spezzarmi il fiato alla korobka”?

gli zaini ai pali e Andrej piazzato in porta?

 

(ti presto le parole e sono te

e l’amica, e non sono! Ora, che il tuo

ricordo è schianto di cortili e grida,

sono tua madre…).

 

Amica, non ho anni d’avvenire;

solo lo ieri. E morirà domani

 

(… sono tua madre, figlio).

 

 

 


Patrizia Stefanelli :" Apeiron "



                                                              Ápeiron

 

 Mi è capitato molte volte di ripensare a questa frase: "Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus", chiedendomi il suo senso. Letteralmente vuol dire: “La rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi”. Umberto Eco chiude così  il suo capolavoro di linguistica, Il nome della rosa. Tutto finisce nell’impermanenza della vita e dunque  come dire delle cose quando queste hanno perduto il senso dell’esistere e di esse non resta che il nome? Finisce il tempo mai esistito davvero, la convenzione che ci fa dire adesso un eterno divenire? Anche il ricordo è presente che cambia, mai uguale a se stesso, come  la storia, secondo il punto di vista. Tra la vita e il vissuto c’è la poesia, la parola che ci suona il corpo, che ci fa vibrare l’essere, che sorprende nello slancio a dare il nome a un frammento vissuto, fotogramma emotivo che dilata lo spazio interiore fino all’ultimo orizzonte e si attualizza nella nostra mente. «L’essere per me è l’essere della significanza»,  scriveva Lacan, e dunque con l’arte della parola ci illudiamo e proviamo a dare un significato alle nostre verità inconsce. Nel percorso che resta da fare, sul binario che tende  all’infinito inganno, urge togliere il superfluo, salvare il tempo concesso all’essenza. Non è facile tendere all’epifania di un verso, lasciarsi andare a quello che preme per inserirsi tra i silenzi in sosta.  Un prima e un poi non esistono nel concepimento di una visione totalizzante, nella dimensione intera dell’arte che permette realtà e illusione, ragione e follia, così come l’amore più grande può fare.  

La parola ci smuove portandoci a considerare il noi  oltre l’io mutevole, ego-sensibile ed ego-sostenibile, verso la logica dell’illogico e il mistero di una poesia che tenti di rendere comprensibile l’incomprensibile, in un percorso di piena libertà: linguaggio che non spieghi, che non descriva ma riveli ciò che il pensiero nasconde.


Patrizia Stefanelli



 

Franco Donatini ci segnala.........


 

lunedì 13 gennaio 2025

Maurizio Donte : trasposizioni in metrica italiana delle " Canso" di Arnaut Daniel de Riberac.

 S'im fos Amors de jòi donar tan larga

Arnaut Daniel de Riberac
-Canso Unissonan'- ABCDEFCF -DD
Se fosse Amore bravo a dar la gioia,
convinto come me d'averla in cuore,
i giorni miei vivrei serenamente.
Gioia mi dà l'attesa e poi sconforto,
ma in lei bellezza così in alto svetta,
che lieto son d'aver osato amarla,
perché son certo che con cuore e mente
insieme saprò un giorno conquistarla.
L'attesa così lunga non mi annoia,
perché la sosta mi concede amore
e la gioia che provo, dolcemente,
poi mi accompagnerà pure da morto.
Di scambiar oro in piombo non ho fretta,
lei, come l'oro, é facile stimarla,
e la servo così, tranquillamente,
sperando venga il tempo di baciarla.
E nell'attesa spero che non muoia
la spina dolorosa dell'amore;
non mi oppongo all'affanno della mente,
perché la sua bellezza dà conforto:
chiunque sa che tra le altre svetta,
che in lei saggezza regna; e nel guardarla
sai che mai dirà nulla falsamente
perché in lei nulla manca per amarla.
Se lei sì tanto vale nel dar gioia,
in quanti rami si divide il cuore?
Si posi su di me, completamente,
lo Spirito di Dio che dà conforto,
dicendomi che mai d'amare smetta.
Non conosco persone, che di amarla,
sian capaci così perfettamente;
piuttosto son capaci d'invidiarla.
Dannati siate voi se vi dà noia:
la lingua vi si bruci con dolore,
e il male vi divori interamente,
se ai vostri colpi amore sembra morto.
E chi si danna l'anima, rifletta:
gli amanti maledicono chi sparla.
Se dite che non vivo rettamente,
la bugia finirete per pagarla.
É candido l'amor che mi dà gioia
da lui non si liberi il mio cuore;
l'amore non é fragile per niente,
in lui rifugio trovo, come in porto.
Al sonno che disturba non do retta;
vorrei alzarmi solo per guardarla,
( é meglio star con voi sicuramente:
-se la vedessi cercherei d'amarla )-.
Sì, per amarti Arnaut ti aspetta, accorto,
così che a lui, l'amore vada in porto.

S'im fos Amors de jòi donar tan larga
Si'm fos Amors de jòi donar tan larga
Com ieu vas lieis d'aver fin còr e franc,
Ja per gran ben no'm calgra far embarc,
Qu'èr am tan aut que'l pes mi poj' e'm tomba ,
Ma quando m'albir com es de prètz al som
Mout me'n am mais car anc l'ausièi voler,
Qu'aras sai ieu que mos còrs e mos sens
Mi faràn far, lor grat, rica conquèsta.
Ma s'ieu fatz lonc esper, non m'embarga
Qu'en tan ric luòc me sui mes e m'estanc
Qu'ab sos bèls dichs mi tengra de jòi larg
E segrai tant qu'òm mi pòrt a la tomba,
Qu' ieu non sui ges cel que lais aur per plom;
E pòis en lieis no's tanh que ren esmer,
Tant li serai fins et obedïens
Tro de s'amor, si'lh platz, baisant m'envèsta.
Us bons respieitz mi revén e'm descarga
D'un doutz desir don mi dòlon li flanc,
Car en patz prenc l'afan e'l sofr' e'l par
Pòis de beutat son las autras en comba,
Que la gençor par qu 'aja pres un tom
Plus bas de lieis, qui la ve, et es ver:
Que tuch bon aip, prètz e sabers e sens
Rènhon ab lieis, qu'uns non es mens ni'n rèsta.
E pòis tant val, no'us cugetz que s'esparga
Mos ferms volers ni que's forc i que's branc
Car non serai sieus ni mieus si me'n parc,
Per cel Senhor que's mostrèt en colomba,
Que'l mond non a òme de negun nom
Tant desirès gran benanans' aver
Com fatz ieu lieis, e tenc a noncalens
Los enojós cui dams d'Amor es fèsta.
Na Mielhs-de-Ben, ja ni'm siatz avarga,
Qu'en vòstr' amor me trobaretz tot blanc,
Qu'ieu non ai còr ni poder que'm descarc
Del ferm voler que non es de retomba ;
Que quand m'esvelh ni clau los uòlhs de som
A vos m'autrei, quand lèu ni vau jaser ;
E no'us cugetz que's merme mos talens,
Non farà ges, qu'ara'l sent en la tèsta.
Fals lausengièr, fuòcs las lengas vos arga
E que perdatz ambs los uolhs de mal cranc,
Que per vos son estrach cavalh e marc:
Amor toletz, qu'ab pauc del tot non tomba ;
Confonda'us Dieus que ja non sapchatz com,
Que'us fatz als druts maldire e viltener ;
Malastres es que'us ten, desconoissens,
Que pejor ètz, qui plus vos amonèsta.
Arnautz a faits e farà longs atens,
Qu'atendent fai pros òm rica conquèsta.

venerdì 10 gennaio 2025

Maria Luisa Toffanin :"Per L’ Anno Nuovo"


 

Ti soffio un bacio, un altro

prendili al volo con la punta delle dita

stringili al cuore come sai fare tu.

Fiorirà brillerà quel bacio in una stella

un’altra ancora ad ogni bacio

come da te ribaciato.

 

E avremo un cielo nuovo

trapunto di luci novelle

un cielo di sogni tutto nostro

di desideri per l’anno nuovo

sogni desideri senza fine

che hanno culla fra gli astri-sidera

culla dei desideri.

 

E quell’eterea materia vibrante di palpiti

sia sorgente zampillante di attese

accese come lucciole fra le mani

nelle sere di maggio.

 

S’illuminerà allora di vitale slancio

il nostro ardore sopito fra le tenebre

si cercherà insieme la cometa

per seguire i Magi araldi

di mille curiosità e desideri

da  tramutare in adorazione della Vita.

 

                                                      31 dicembre 2022

 

 

 

 

 

 

lunedì 6 gennaio 2025

Franco Campegiani legge:" La filosofia dell’Asino " di Mario Scetta (“Riflessioni, emozioni, ricordi”, Nuova Impronta Editrice, 2024)


 Un’opera di pensiero rivoluzionaria, quella che Mario Scetta presenta stasera. Pacata nella forma, ma rovente nei contenuti, l’opera, tra l’altro vestita di aneddoti e di vita vissuta, ha il pregio di non essere accademica, con quel tocco di realismo e di buon senso pratico che la distanzia da ogni altisonante idealismo. Potrebbe venir voglia di collocare questa visione del mondo in un’area filosofica di vaghe ascendenze eclettiche - stoico-scettico-epicuree, per intenderci - incentrate sulla figura del “saggio”, visto che di saggezza si parla nel libro, ma è molto più consono collegarla alle culture popolari e native di ogni luogo e tempo, con particolare riguardo alla vetusta civiltà contadina. Non a caso l’autore pone il proprio pensiero sotto l’egida dell’Asino (si, proprio dell’Asino), simbolo eloquente di elementarità (da non confondere con la banale ovvietà o con l’ingenuità dei semplici). L’Asino è una guida preziosa a cui spesso l’autore ricorre per avere lumi su problemi intricati e contorti.Pregiudizi, direte, o potreste dire: l’elementarità è un pregiudizio, non esiste un ordine o una legge naturale. Ma il fatto è che la Natura viene prima dei pregiudizi costruiti nel piano culturale. E l’uomo, per quanto diverso dagli altri esseri, è pur sempre una creatura del Creato. Così l’Asino, che è Natura, per l’uomo diviene simbolo di Natura ritrovata. E si può comprendere quanto ciò sia provocatorio in una cultura come quella attuale, dove tutto è artefatto, innaturale e la stessa intelligenza è invitata a cedere il passo nei confronti di un’altra intelligenza, definita artificiale. Devo dire di sentirmi a mio agio in queste pagine e di questo sono grato all’autore. Sono pensieri che stanno nelle mie corde, pur con qualche distinguo che non mancherò di evidenziare. Non per volontà di polemica (ci mancherebbe altro!), ma per alimentare quel dibattito che, ne son certo, all’autore piace suscitare. Libri come questo non possono lasciare indifferenti, si è sollecitati a prendere posizione, non si può restare neutrali. Faremmo un torto al libro e all’autore.

Ma andiamo per gradi. C’è un dilemma iniziale da sciogliere. L’autore esordisce così: <Beati i semplici. Beati coloro che hanno certezze. Per i primi è garantito il Regno dei Cieli, per i secondi, quello terreno. E per coloro che vivono nel dubbio? Né cielo, né terra, al massimo, la follia. Già, la follia generata dal dubbio, la follia dell’artista, del sognatore, del saggio che rifiuta il mondo dei semplici e dei certi e si rifugia nel suo mon­do, dove regnano istinti, passioni, razionalità, speranze, arte e, soprattutto, silenzi>. E l’Asino? dove collocare l’Asino che sfugge sia alla categoria dei semplici, qui intesi come ingenui (il che forse è eccessivo), sia a quella dei certi che si nutrono di dogmatismi raffinati? L’Asino non crede in nulla, non è un credulone, ma proprio per questo non può essere equiparato ai dubbiosi che finiscono per fare del dubbio una fede. Accade infatti che l’incertezza diventi aprioristica, trasformando se stessa in certezza, come in molti esiti della cultura attuale.

L’Asino non è né certo, né incerto, perché non ha schemi mentali. Si limita a vivere il mistero della vita, per questo è un saggio, come sostiene l’autore, sebbene occorra distinguere tra la saggezza innata, elementare dell’Asino, come di ogni creatura vivente, e la saggezza cosciente, riconquistata dall’essere umano. Tra elementarità e saggezza corrono parallelismi che sarebbe interessante studiare. Mi sovviene in proposito una nota intervista televisiva rilasciata da Pasolini ad Enzo Biagi nel 1971, dove lo scrittore dichiarava che le persone da lui maggiormente amate erano quelle che preferibilmente non avessero fatto più della quarta elementare. Costoro, diceva, sono dotate di una grazia innata che i successivi stadi culturali offuscano, salvo poi essere recuperata a livelli altissimi di evoluzione culturale. La cultura media, diceva Pasolini, è corruttrice, ma i superiori stadi culturali recuperano la grazia iniziale rompendo le gabbie dei pregiudizi storici ed infrangendo ogni schematismo mentale.

E non è un dietrofront, ma un avanzamento coscienziale. La saggezza dell’uomo sopraggiunge nel momento in cui egli accetta quello stesso mistero della vita che, nella loro elementarità, le altre creature vivono direttamente. <Che senso ha nascere per morire?> chiede l’autore all’Asino. La risposta è disarmante: <Il tormento è solo dell’uomo che disperde i suoi pensieri nell’ignoto, nell’infinito. Per l’albero, l’uccello, la stella, la vita è quella che si vive attimo per attimo, senza l’idea del futuro, senza il tormento della fine. Solo il sapiens è condannato al tormento del dubbio e del domani>. Infatti, dico io, soltanto l’uomo riesce ad impazzire, proprio lui che possiede il Ben dell’Intelletto, la Ragione; ma che ha anche la possibilità di entrare nella sua saggezza quando riesce ad accettare serenamente, come l’Asino, la realtà del nascere e del morire. <Quasi come la restituzione di un prestito>, sostiene l’autore, ricordando la lezione di Lavoisier, nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.

<L’Asino, scrive l’autore, raramente si ribella, certamente non si pone interrogativi, vive per vivere>. Tutta la Natura vive per vivere, senza preoccuparsi del passato e del futuro. Vive in una sorta di eterno presente, abbracciando senza battere ciglio le mutazioni del tempo, la fuga inesorabile del divenire. Sta qui la sua saggezza, quella saggezza che l’uomo può riscoprire al culmine di un lungo e personale processo evolutivo, tornando a far girare i propri meccanismi psichici secondo ingranaggi naturali e universali. L’uomo è il bastian contrario del Creato, il sapiens insipiente destinato a pagare con l’involuzione la propria evoluzione coscienziale. Ed è terribile ciò che nel frattempo riesce a fare con la propria aggressività, con la propria presunzione distruttiva. E’ lui, <il violento, il carnefice, il boia>, scrive l’autore. Homo homini lupus, ed è una grave offesa per il lupo, commenta, perché <il lupo non violenta e uccide l’altro lupo>.

<Era il giorno di sabato Santo, racconta l’autore. E pensavo alla strage degli innocenti. Migliaia e migliaia di capretti e agnelli sottratti alle madri e, magari, sgozzati dinanzi ai loro occhi. Già, l’agnello che toglie i peccati del mondo ma anche l’appetito dei peccatori. Una barbarie che mi intristisce sempre più con l’incedere della mia vecchiaia>. Poi racconta l’episodio della prostituta accolta nella sua auto non per approfittare delle sue grazie, ma per farla riparare dalla pioggia battente. Dopo averle fatto omaggio, senza nulla a pretendere, di una cifra ben superiore all’onorario, ed essersi anche vergognato per quell’elemosina, l’autore confessa: <Mi sono sentito un miserabile, un complice, per tanta indifferenza, per tan­to cinismo, per tanta cattiveria>. Ma non seguono condanne per il genere umano, anzi commiserazione. Nessuno, lui dice, ha il diritto di porsi <come guida presuntuosa e sprezzante>. Il saggio <deve offrirsi con umiltà e modestia, diventare esempio e soprattutto scuola>.

Ma oramai, come suol dirsi, i buoi sono scappati dalla stalla, ed <è inutile, scrive, sperare in cambiamenti di rotta, quando la rotta è stata smarrita>. Forse, aggiunge: <Avremmo bisogno, per ripartire, di una spinta, di un aiuto. Avremmo bisogno di qualcosa che faccia perdere all’umanità la sua sicurezza, la sua arroganza. Forse interverrà la Natura, comunque andrà, credo che l’umanità dovrà pagare un prezzo altissimo>. E le religioni di certo non aiutano perché, dichiara l’autore, esse <si fondano sull’irrazionale, sulla fede in un intervento estrinseco risolutore, mentre i tentativi razionali di affrontare problematiche esistenziali trovano pochi accoliti>. Qui però lasciatemi dire una cosa. L’uomo ha indubbiamente in se stesso le risorse per potersi ravvedere, ma non sono a mio avviso quelle vanitose e violente della dea Ragione, bensì quelle dell’Umiltà e della Coscienza collegate alle armonie del Creato. Quelle di una sua Saggezza arcana che esula dalla sfera razionale e irrazionale.

Ed eccoci tornati alla filosofia dell’Asino, di quella mite creatura del mondo naturale su cui l’autore riflette e di cui si sente fratello, fino a dire: <Non rassomiglio all’Asino, ma in fondo non sono tanto diverso da lui. E di questo sono felice>. Ci sarebbe altro, molto altro da dire, ma ho parlato tanto, forse troppo, pur avendo soltanto sfiorato la ricchezza di pensiero nel libro contenuta. Sarebbe bello approfondire il discorso, ma ci vorrebbe un seminario di studi (dico sul serio). Il mio tempo a disposizione è scaduto.

 

 

 

                                                                      Franco Campegiani