Un’opera di pensiero rivoluzionaria, quella
che Mario Scetta presenta stasera. Pacata nella forma, ma rovente nei
contenuti, l’opera, tra l’altro vestita di aneddoti e di vita vissuta, ha il
pregio di non essere accademica, con quel tocco di realismo e di buon senso
pratico che la distanzia da ogni altisonante idealismo. Potrebbe venir voglia
di collocare questa visione del mondo in un’area filosofica di vaghe ascendenze
eclettiche - stoico-scettico-epicuree, per intenderci - incentrate sulla figura
del “saggio”, visto che di saggezza si parla nel libro, ma è molto più consono
collegarla alle culture popolari e native di ogni luogo e tempo, con particolare
riguardo alla vetusta civiltà contadina. Non a caso l’autore pone il proprio
pensiero sotto l’egida dell’Asino (si, proprio dell’Asino),
simbolo eloquente di elementarità (da non confondere con la banale
ovvietà o con l’ingenuità dei semplici). L’Asino è una guida preziosa a
cui spesso l’autore ricorre per avere lumi su problemi intricati e contorti.Pregiudizi, direte, o potreste dire:
l’elementarità è un pregiudizio, non esiste un ordine o una legge naturale. Ma
il fatto è che la Natura viene prima dei pregiudizi costruiti nel piano
culturale. E l’uomo, per quanto diverso dagli altri esseri, è pur sempre una
creatura del Creato. Così l’Asino, che è Natura, per l’uomo diviene simbolo di
Natura ritrovata. E si può comprendere quanto ciò sia provocatorio in una
cultura come quella attuale, dove tutto è artefatto, innaturale e la stessa
intelligenza è invitata a cedere il passo nei confronti di un’altra
intelligenza, definita artificiale. Devo dire di sentirmi a mio agio in
queste pagine e di questo sono grato all’autore. Sono pensieri che stanno nelle
mie corde, pur con qualche distinguo che non mancherò di evidenziare.
Non per volontà di polemica (ci mancherebbe altro!), ma per alimentare quel
dibattito che, ne son certo, all’autore piace suscitare. Libri come questo non
possono lasciare indifferenti, si è sollecitati a prendere posizione, non si
può restare neutrali. Faremmo un torto al libro e all’autore.
Ma andiamo per gradi. C’è un dilemma iniziale
da sciogliere. L’autore esordisce così: <Beati i semplici. Beati coloro che
hanno certezze. Per i primi è garantito il Regno dei Cieli, per i secondi,
quello terreno. E per coloro che vivono nel dubbio? Né cielo, né terra, al
massimo, la follia. Già, la follia generata dal dubbio, la follia dell’artista,
del sognatore, del saggio che rifiuta il mondo dei semplici e dei certi
e si rifugia nel suo mondo, dove regnano istinti, passioni, razionalità,
speranze, arte e, soprattutto, silenzi>. E l’Asino? dove collocare l’Asino
che sfugge sia alla categoria dei semplici, qui intesi come ingenui
(il che forse è eccessivo), sia a quella dei certi che si nutrono di
dogmatismi raffinati? L’Asino non crede in nulla, non è un credulone, ma
proprio per questo non può essere equiparato ai dubbiosi che finiscono per fare
del dubbio una fede. Accade infatti che l’incertezza diventi aprioristica,
trasformando se stessa in certezza, come in molti esiti della cultura attuale.
L’Asino non è né certo, né incerto,
perché non ha schemi mentali. Si limita a vivere il mistero della vita, per
questo è un saggio, come sostiene l’autore, sebbene occorra distinguere
tra la saggezza innata, elementare dell’Asino, come di ogni creatura
vivente, e la saggezza cosciente, riconquistata dall’essere umano. Tra elementarità
e saggezza corrono parallelismi che sarebbe interessante studiare.
Mi sovviene in proposito una nota intervista televisiva rilasciata da
Pasolini ad Enzo Biagi nel 1971, dove lo scrittore dichiarava che le persone da
lui maggiormente amate erano quelle che preferibilmente non avessero fatto più
della quarta elementare. Costoro, diceva, sono dotate di una grazia innata che
i successivi stadi culturali offuscano, salvo poi essere recuperata a livelli
altissimi di evoluzione culturale. La cultura media, diceva Pasolini, è
corruttrice, ma i superiori stadi culturali recuperano la grazia iniziale
rompendo le gabbie dei pregiudizi storici ed infrangendo ogni schematismo
mentale.
E non è un dietrofront, ma un avanzamento
coscienziale. La saggezza dell’uomo sopraggiunge nel momento in cui egli accetta
quello stesso mistero della vita che, nella loro elementarità, le altre
creature vivono direttamente. <Che senso ha nascere per
morire?> chiede l’autore all’Asino. La risposta è disarmante: <Il
tormento è solo dell’uomo che disperde i suoi pensieri nell’ignoto,
nell’infinito. Per l’albero, l’uccello, la stella, la vita è quella che si vive
attimo per attimo, senza l’idea del futuro, senza il tormento della fine. Solo
il sapiens è condannato al tormento del dubbio e del domani>. Infatti,
dico io, soltanto l’uomo riesce ad impazzire, proprio lui che possiede
il Ben dell’Intelletto, la Ragione; ma che ha anche la possibilità di entrare
nella sua saggezza quando riesce ad accettare serenamente, come l’Asino, la
realtà del nascere e del morire. <Quasi come la restituzione di un
prestito>, sostiene l’autore, ricordando la lezione di Lavoisier, nulla
si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.
<L’Asino, scrive l’autore, raramente si
ribella, certamente non si pone interrogativi, vive per vivere>. Tutta la
Natura vive per vivere, senza preoccuparsi del passato e del futuro. Vive in
una sorta di eterno presente, abbracciando senza battere ciglio le mutazioni
del tempo, la fuga inesorabile del divenire. Sta qui la sua saggezza, quella
saggezza che l’uomo può riscoprire al culmine di un lungo e personale processo
evolutivo, tornando a far girare i propri meccanismi psichici secondo
ingranaggi naturali e universali. L’uomo è il bastian contrario del Creato, il sapiens
insipiente destinato a pagare con l’involuzione la propria evoluzione
coscienziale. Ed è terribile ciò che nel frattempo riesce a fare con la propria
aggressività, con la propria presunzione distruttiva. E’ lui, <il violento,
il carnefice, il boia>, scrive l’autore. Homo homini lupus, ed è una
grave offesa per il lupo, commenta, perché <il lupo non violenta e uccide
l’altro lupo>.
<Era il giorno di sabato Santo, racconta
l’autore. E pensavo alla strage degli innocenti. Migliaia e migliaia di
capretti e agnelli sottratti alle madri e, magari, sgozzati dinanzi ai loro
occhi. Già, l’agnello che toglie i peccati del mondo ma anche l’appetito dei
peccatori. Una barbarie che mi intristisce sempre più con l’incedere della mia
vecchiaia>.
Poi racconta l’episodio della prostituta
accolta nella sua auto non per approfittare delle sue grazie, ma per farla
riparare dalla pioggia battente. Dopo averle fatto omaggio, senza nulla a
pretendere, di una cifra ben superiore all’onorario, ed essersi anche
vergognato per quell’elemosina, l’autore confessa: <Mi sono sentito un
miserabile, un complice, per tanta indifferenza, per tanto cinismo, per tanta
cattiveria>. Ma non seguono condanne per il genere umano, anzi commiserazione.
Nessuno, lui dice, ha il diritto di porsi <come guida presuntuosa e
sprezzante>. Il saggio <deve offrirsi con umiltà e modestia, diventare
esempio e soprattutto scuola>.
Ma oramai, come suol dirsi, i buoi sono
scappati dalla stalla, ed <è inutile, scrive, sperare in cambiamenti di
rotta, quando la rotta è stata smarrita>. Forse, aggiunge: <Avremmo
bisogno, per ripartire, di una spinta, di un aiuto. Avremmo bisogno di qualcosa
che faccia perdere all’umanità la sua sicurezza, la sua arroganza. Forse
interverrà la Natura, comunque andrà, credo che l’umanità dovrà pagare un
prezzo altissimo>. E le religioni di certo non aiutano perché, dichiara
l’autore, esse <si fondano sull’irrazionale, sulla fede in un intervento
estrinseco risolutore, mentre i tentativi razionali di affrontare problematiche
esistenziali trovano pochi accoliti>. Qui però lasciatemi dire una cosa.
L’uomo ha indubbiamente in se stesso le risorse per potersi ravvedere, ma non
sono a mio avviso quelle vanitose e violente della dea Ragione, bensì quelle
dell’Umiltà e della Coscienza collegate alle armonie del Creato. Quelle di una
sua Saggezza arcana che esula dalla sfera razionale e irrazionale.
Ed eccoci tornati alla filosofia dell’Asino,
di quella mite creatura del mondo naturale su cui l’autore riflette e di cui si
sente fratello, fino a dire: <Non rassomiglio all’Asino, ma in fondo non
sono tanto diverso da lui. E di questo sono felice>. Ci sarebbe altro, molto
altro da dire, ma ho parlato tanto, forse troppo, pur avendo soltanto sfiorato
la ricchezza di pensiero nel libro contenuta. Sarebbe bello approfondire il
discorso, ma ci vorrebbe un seminario di studi (dico sul serio). Il mio tempo a
disposizione è scaduto.
Franco Campegiani