Questo romanzo è uno spaccato sull’odierno
mondo scolastico, dove studenti, genitori e docenti si confrontano tra di loro.
L’intera società è sotto analisi, una società sempre più segnata dal trionfo
dell’avere sull’essere, quindi sempre più degradata e violenta,
sempre più inautentica, dove superata mostra di essere la stessa lotta ideologica
contro il materialismo posta in essere dalla passata generazione: i dogmi
sessantottini, per intenderci, naufragati nel manierismo qualunquistico e
inadeguati a soddisfare le frustrazioni e le esigenze di purezza delle nuove
leve. La famiglia e la scuola, impegnate con ruoli diversi e convergenti sul
fronte dell’educazione, sono al centro delle attenzioni di Francesco Paolo
Tanzj in questo suo Tre vite, un destino: avvincente romanzo di
orizzonti socio-psicologici, la cui nota dominante è la crisi di ogni idealità,
con il conseguente degrado antropologico nell’attuale vivere civile.
<In questo avamposto di guerra totale> (che
è la scuola) - riflette il Prof. Alberto Ferri, protagonista centrale,
vicepreside e insegnante di filosofia - <si gioca la partita più importante.
Quella della costruzione degli uomini e delle donne del domani>. <A che
serve - prosegue - la filosofia, la scuola, l’educazione? E’ una lotta impari
perché il nemico è ovunque. Nella cattiva maestra televisione, nei miti
rampanti dei soldi facili, nelle vetrine alla moda, negli stipendi dei calciatori,
nei giochi politici senza più il filtro delle ideologie, nell’abbrutimento del
nulla quotidiano, nell’assuefazione alla banalità, nel rifiuto di pensare,
nell’assopirsi dei sentimenti. E noi che stiamo qui, a crederci ancora!>. Ebbene,
hanno ragioni da vendere i giovani a rifiutare gli astratti proclami ideologici.
L’ideale non esiste, affermano, ed è odioso innalzare bandiere, perché occorre
vedere che uomini ci sono sotto le bandiere. Gli ideali vanno messi in pratica,
ma purtroppo nessuno lo fa, per cui tutto fa schifo, concludono.
Fare, anziché predicare. Ripartire da
zero, ovvero da se stessi e dalla propria concreta sfera d’azione. E’ questa la
svolta realistica e poco filosofica che il giovane Giulio, coadiuvato da Susy,
la sua ragazza, pretenderebbe vedere incarnata negli adulti e spasmodicamente
cerca per se stesso nelle sue ribellioni, nelle sue fughe disperate dalla
realtà e dalla vita. Per il Professor Ferri, invece, la filosofia è vita e la
scuola deve preparare alla vita. Non tanto nel senso riduttivo che deve servire
ai giovani per trovare un impiego. Certo, anche in quel senso, ma c’è un senso
più alto: quello di <resistere al cattivo spirito del tempo>,
proponendo <un’educazione continua al vivere civile>. <Abbiamo un bel
chiamarci educatori>, riflette il Professore, <ma a cosa educhiamo? a
dare ai nostri alunni una cultura riciclata e di seconda mano che poi loro
spenderanno nel mondo del lavoro con l’unico scopo di guadagnarsi uno
stipendio? o a fornire loro gli strumenti per costruirsi una propria visione
del mondo?>.
Il fatto è che se costruisci la tua visione
del mondo sui modelli altrui, non sarai mai veramente te stesso e resterai per sempre
disorientato nel corso della vita. Non bastano tutte le filosofie del mondo per
aiutarti a risolvere i problemi che si presentano a te, in carne ed ossa, nel
tuo tran tran quotidiano. La vita è la tua vita e nessuno può prenderla
sulle sue spalle. Il maestro non può importi le sue regole, può soltanto essere
un fratello maggiore, un prezioso compagno di viaggio, al patto di stare al tuo
fianco rispettando la tua solitudine e dandoti il calore di una fraterna
partecipazione. Offrendoti in più, oltre alla sua personale esperienza, la
ricchezza dello scibile umano. Educare (da ex-ducare) significa
appunto tirar fuori da dentro, e non inculcarli da fuori, i valori dello
spirito umano. Scuola, dunque, come confronto e dialogo, come interscambio e ricerca
incessante dei comuni e personali, universali e singolari valori umani. Ed è
l’arte della maieutica, l’arte del far partorire, la cosiddetta arte della
levatrice o della mammana di cui parlava Socrate.
Un programma rivoluzionario, teso a
ristabilire il primato di ciò che è autentico, ovvero la maestà dell’Essere
in un’epoca come la nostra caratterizzata dal trionfo dell’Apparire. Parliamo
tuttavia di un Essere che non se ne sta nascosto nell’iperuranio, ma che
scende nel mondo degli uomini portando l’iperuranio con sé. Un Essere
che si proietta nel mare tempestoso della vita su di una fragilissima zattera,
rischiando continuamente di naufragare, ma che sempre e comunque riesce a
condurre il vascello verso porti sicuri e calmi. Un Essere che ama gettarsi
nel mondo, come direbbero gli esistenzialisti, non certo per smarrirvisi, bensì
per portarvi la Coscienza piena e limpida di sé. Una Coscienza che non teme la
contraddizione. Anzi, la pretende. Quanta ricchezza c’è nella contraddizione! Non
sempre due più due fa quattro. Per tutti arriva il giorno in cui le certezze
saltano. Quel giorno, se ti vuoi salvare, devi credere che due più due fa
centomila, o forse più. Poi tornerai a pensare che fa quattro, ma in quel
momento non è così.
Dov’è la verità, allora? Qualcuno dice che la
verità non esiste, ma non è così. La verità esiste, l’Essere esiste, solo
che nessuno può racchiuderlo in un dogma, in una formula, perché il suo vero
nome è Contraddizione. Gabriella, la mamma di Giulio, è disorientata,
disperata. La sua famiglia è distrutta, il marito Paolo ed il figlio sono irrecuperabili
e lei ha smarrito la bussola, le sue certezze sono crollate. Cerca aiuto nel
Professore perché, gli dice: <Lei riesce a trasmettermi un po’ di fiducia, capisco
che è uno che crede in quello che fa>. Il Professore risponde: <Vede,
signora, anch’io non ho ricette sicure. Non faccio altro che sperimentare. Però
credendoci>. Credendoci, questa è la parola chiave. Credere
fa la differenza. Ma credere in cosa? non nella Befana, sebbene la
Befana avrebbe qualcosa da insegnare a tutti noi. Credere nell’incertezza,
nella ricerca, nella sperimentazione: <Guardo i miei alunni, dice il
Professore, cerco di capirli, e poi piano piano - mentre espongo loro le poche
cose che so - mi sforzo di farli uscire dal guscio… dalla loro indifferenza,
spesso dal loro cinismo>.
Fede e dubbio in un solo respiro. Perché ci
vuole una grande fede per poter dubitare, e ci vuole un dubbio fortissimo per poter
crescere nella fede. Ovviamente non parliamo di fideismo, di fede in un ipse
dixit, ma di fede in se stessi, fede che è anche dubbio e macerazione. <Non
sopporto quelli che sono troppo sicuri di sé, riflette il Professore, gli
ipocriti che annunciano teorie e non le mettono mai in pratica>. E il
giovane Giulio, che non vorrebbe ascoltarne le prediche, la sciocca pretesa di
avere una risposta per tutto, di capire il suo stato d’animo, ne resta in
qualche modo sorpreso: <Quello che più mi colpisce, riflette, è quando lui
dice quelle cose sulla solitudine e sul fatto che non esistono certezze e che
la vita è dubbio e ricerca e che tutto quello che dobbiamo fare in realtà è di restare
coerenti e non stancarci mai di volere purezza e utopia. E’ inutile chiederci
a che serve: serve a noi stessi e questo è tutto>.
Se non è fede questa! ma è una fede
paradossalmente fondata sulle sabbie mobili del dubbio, una certezza fondata
sul crollo di ogni certezza. Ivi compresa la certezza dell’incertezza, che può diventare
anch’essa un dogma incrollabile, come dimostrano tante filosofie attuali. Un
terremoto implacabile, dunque: la filosofia del Professore sta qui. Credere e
continuare a credere laddove tutto traballa. Solo così, riflette, si può
tentare di <salvare se stessi e pochi altri dall’incertezza e dal senso di
vuoto di un’esistenza ripetitiva e sfiduciata>. Ed è la via della Coscienza,
che in fondo non è altro che la via della Crisi. Ha detto Einstein: “La crisi è la miglior cosa che possa
accadere a persone e interi Paesi perché è proprio la crisi a portare il
progresso. La creatività nasce dall’ansia, come il giorno nasce dalla
notte oscura. È nella crisi che nasce l’inventiva, le scoperte e le grandi
strategie... L’unica crisi minacciosa è la tragedia di non voler lottare per
superarla”.
In realtà non
c’era bisogno che lo dicesse Einstein, sappiamo tutti che è così. E tuttavia nel
superamento della Crisi si annida un pericolo mortale: quello del dogma e della
certezza, che trasforma in pregiudizio qualsiasi conquista culturale. Per cui
non ci si deve mai adagiare, ed una volta superata la crisi, occorre saper
tornare coraggiosamente nella condizione originaria, in quell’angoscioso e
creativo stato edenico che sta sempre in bilico tra il Bene ed il Male. In quell’equilibrio dell’ordine
naturale cui in fondo allude proprio Gabriella sul finire del libro: <Vorrei
giungere un giorno alla capacità di non pensare affatto. Di lasciarmi andare
alla vita, così come capita. Coglierne il succo, come fanno le api, e smetterla
una volta per tutte di masturbarmi il cervello e i sentimenti>.
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