lunedì 31 gennaio 2022

CARMEN MOSCARIELLO: "L'INTIMITA' NELL'ARTE"

Carmen Moscariello,
collaboratrice di Lèucade

L’intimità nell’arte

Beatrice Hastings, la storia di una passione dolorosa.

Di

Carmen Moscariello

I suoi cappelli  erano  enormi con piume colorate, i guanti fino al gomito, come molti suoi abiti dipinti su stoffa  da Modigliani con fiori sgargianti, grande  la sua intelligenza come  la sua follia. Non  era certo il tipo che passava inosservata. Donna corteggiata da tutti i pittori di Parigi, lo stesso Picasso l’aveva in gran conto. Le piacevano anche le donne e il suo letto era una piazza molto ospitale per amanti molteplici. Inglese, bella a suo modo.

 Ho avuto la fortuna di ammirare l’estro prezioso del Maestro in alcuni   dipinti che le dedicò, esposti   al Mudec di Milano  in un luminoso settembre del 2018.

Un giorno la Lady  sedeva da solo in un bar a Montparnasse, era tra la primavera e l’estate del 1914, si incontrarono per caso, i due si osservarono non poco, si annusarono, si disprezzarono. Di questo primo incontro ci parla dettagliatamente Beatrice, ci descrive Modigliani aggomitolato su se stesso, con barba lunga, vestito di stracci che a prima mattina era già ubriaco, che aveva occhi feroci e ingordi. Lei non era da meno, amava l’alcool,  la vita e con essa tutte le  trasgressione, era a Parigi come corrispondente del giornale New Age, una bohémiens di valore come tante altre donne di quel tempo che affollavano i bistrot e gli studi dei pittori della Nouvelle Ville. I due erano “Unici” si amarono subito. Erano gelosi l’uno dell’altro, si possedevano e non permettevano ad intrusi di entrare nei loro rapporti. Ma né l’uno, né l’altro erano animali da portare al guinzaglio. Se dobbiamo credere alle testimonianze dei loro amici si offendevano in pubblico, con lei Modigliani usò più volte violenza, né lei gli risparmiava offese e aggressioni.  Eppure da questo rapporto sul quale nessuno scommetteva, “questa non è una donna da sposare” sentenziava l’amico di entrambi, il  pittore Jacob, nacque un amore intenso, sicuramente fu una tempesta dalla quale non chiesero, né trovarono riparo. Lei lo  attirava come una gorgone. Per certi aspetti era un amore distruttivo, ma anche energizzante per il genio di Modì, tanto è vero che all’inizio del rapporto il Pittore smise di bere e durante la loro “intesa”  diede vita a centinaia di ritratti e ad altre grandi opere. Qual era la calamita che li attraeva e li portava ad amarsi per intere giornate?  Entrambi si piacevano fino alle estreme conseguenze, entrambi si disprezzavano e si accusavano reciprocamente di cose nefande. Lei posava per Modigliani per molte ore del giorno e della notte e se una donna così inquieta si prestava alla potenza del genio, in quel caso, senza fiatare, ciò era dovuto non solo al rispetto per  l’arte creativa di Maudit, all’armonia  e all’enigma, ma  anche ad un’ attrazione fatale nella quale, come in una ragnatela, rimasero prigioniere molte donne.  Modigliani prima di ogni cosa era attratto dalla bellezza di quella donna “virago”, così la definivano alcuni contemporanei e poi perché era colta intrigante, nei suoi ambienti era tenuta in gran conto e dettava regole e sentenze sulla grandezza o nullità dell’uno o dell’altro pittore, era  affermata giornalista, i bistrot se la contendevano e a lei piaceva apparire e provocare il suo amante insinuandosi ed esibendosi in balli sfrenati con molti altri uomini, cosa che faceva infuriare Dodo che  senza timori le urlava in pubblico “puttana”.

Non abbiamo sue precise testimonianze sull’arte di Modigliani, tra loro c’era una sfida terribile su quale dei due geni dovesse prevalere. Eppure questa presenza così originale e forte creò nell’artista grandi svolte, molti quadri bellissimi nacquero da questo rapporto. Modigliani si sentì molto coinvolto da quel vulcano esplosivo il cui fuoco attraversava gli abissi ed esplodeva ogni giorno mattina e notte. La notte per i due era l’incanto, senza romanticismi, in essa si inebriavano anche con l’aiuto di droghe. L’Innamorato poco dopo che la conobbe lasciò la sua gelida stamberga e si trasferì nella bellissima casa di Beatrice. Due Anime grandi e dannate sotto lo stesso tetto. I compagni di viaggio del Livornese  riportano le ingiurie che senza ritegno si lanciavano sotto il cielo di Parigi e nei bistrot dove si ubriacavano e si riparavano dal freddo. A tutto questo dobbiamo aggiungere la Sua grande svolta, abbandonò la scultura e dedicò tutto se stresso alla ricerca dell’Anima dei suoi personaggi. L’Anima dipinta da Modigliani rimane  un enigma grande quanto la Sfinge, ancor più,  se questa la si guarda a pochi metri  ti fissa e ti racconta i millenni che hanno dilaniato l’uomo, che l’hanno fatto innamorare, che gli hanno permesso di inseguire il divino. Modigliani seppe nutrirsi del divino che è nell’anima di uomini  e donne  protagonisti dei suoi ritratti. La sua arte rimane un valore umano e nel contempo sacro, inestimabile. Il Livornese- Parigino e Beatrice ne sono un esempio , insieme alle terribili contraddizioni e lacerazioni delle loro esistenze, c’è il sacro che è purezza, creatività, storia, preghiera. Se noi dovessimo descrivere Beatrice Hastings come una virago commetteremmo un errore madornale.

C’è subito da chiedersi da dove sono nati i quattordici capolavori che raffigurano la Hastings, i suoi nudi particolari  pieni di fascino, di dolcezza,  e perché no, di amore? In contrapposizione all’armonia e alle forme del corpo, i primi piani del viso di Beatrice si affacciano aguzzi sulla tela, arroganti, ingordi di vita e follia. E’  con lei che “l’Ebreo Modigliani” porta a maturazione la sua tecnica del disegno e la mescolanza dei colori. Nei libri   quasi  mai si dice  che molte donne hanno contribuito non poco a creare l’arte di Modigliani, non il Modigliani artista egli era nato già Dio, con la tubercolosi aveva ricevuto il fascino  dell’occulto del mistero, la capacità di perlustrare l’Anima. La stessa Beatrice era una potente medium e  molta storia sacra dell’ebraismo ci mette in contatto con il più profondo, la cabala ebraica altro non è che meditazione, mezzo per  sprofondare negli abissi dell’animo  e scrutarli nel  tentativo di inseguire il mistero. Modigliani dedica molti lavori a questo tema, è bene ricordare “Ritratto di una donna coinvolta in una seduta spiritica”, “L’ebrea”, “Il suonatore di Violino”, “La donna con cappello”, queste opere raccontano la passione dell’Artista per lo spiritismo, la magia, l’occultismo, passioni che furono anche della Hastings. Concordo con quanto afferma la figlia Jeanette nelle sue memorie sul Padre dove sottolinea, soprattutto per quanto riguarda la Hastings, che le donne coinvolte nella vita del Padre  non sempre erano prostitute,  nel suo libro difende proprio la Hastings sottolineando le doti di grande giornalista e di donna colta. Contesta i racconti degli amici pittori, sostenendo che  ci sia molta esagerazione. C’ è da aggiungere che Beatrice  era  una brava pianista,  poetessa, critica d’arte, musicista, cantante  amica di Picasso, di Matisse, di Max Jacob. La Lady , come se non bastasse, era una donna  ricca e affascinante. Nonostante tutte queste doti la sua vita  fu tormentata. Il rapporto con Modigliani si chiuse malamente, dopo due anni di scontri e riappacificazioni, lei non volle più saperne di lui. Nel 1917, In casa della pittrice russa Wassilieff ,una sera durante una festa in cui Picasso e gli altri stavano festeggiando il ritorno alla vita del Pittore Geoges Braque,  che durante la guerra con Apollinaire aveva avuto il cranio fracassato, successe il fin di mondo. Alla  festa  era stata invitata anche Beatrice Hastings che in poco tempo si era subito trovato un giovanissimo e nuovo amante, uno scultore italiano  Alfredo Pina. Alla stessa festa, senza essere stato invitato, si presentò anche Modigliani, ubriaco , con occhi feroci, sussurrava all’orecchio di Beatrice, sfidando lo sguardo del suo antagonista,  i versi di Dante e parole d’amore, provocando in modo plateale lo scultore che dal suo revolver fece partire un colpo contro Modigliani, minacciandolo  di ucciderlo. Dopo una rissa terribile, con la forza Modigliani  fu messo alla porta. Non incontrò mai più la Hastings anche perché dopo qualche mese  si innamorò  follemente della dolce fanciulla-pittrice Jeanne  Hébuterne che l’artista chiamava con tenerezza Noce di Cocco. Nella mostra  a Livorno al Museo della Città  (esposizione dal 7 novembre2019  al 17 febbraio 2020) per ricordare  il centenario della morte di Modigliani, per la prima volta ho visto insieme le opere di Modigliani e quelle della Hébuterne, le era stato dedicato un piccolo spazio,  posizionato infelicemente ad angolo, tanto che se non si era esperti, i capolavori sarebbero passati inosservati. Ebbene in  quello spazio esiguo c’era anche il bellissimo ritratto che lei aveva  dedicato a Modì).

Il Livornese- Parigino morì quattro anni dopo di tubercolosi. Non migliore fu il destino di Beatrice che iniziò una relazione con il giovanissimo e bellissimo poeta  Raymond Radiguet, autore de “Il diavolo in corpo”(1921), famosa la sua raccolta di poesie  Les joues en feu ,  dopo che anche questa storia si concluse malamente, ritornò in Inghilterra. Saffo fu a lungo la  sua compagna, per poi suicidarsi con il gas nella sua casa. Aveva venduto per sopravvivere i molti disegni  e alcune opere d’arte che Modigliani aveva abbandonato nella sua casa parigina. Sprecò le sue ricchezze per pubblicare un giornale antisemita che fu l’ultima sua follia.  Nel 1949 si esaurisce la storia di una donna che aveva studiato a Oxford, che aveva conosciuto la stima e condiviso spazi di vita e di arte con Marc Chagall, Matisse, Juan Griss, Chaim Soutine, Picasso George Braque, il poeta-pittore

 Concteau, che era stata   impegnata in lotte civili come quella per il femminismo, intensamente protagonista contro  la  pena di morte,  contribuendo  non poco alla riforma del sistema penale inglese e europeo. Eppure oggi viene ricordata solo perché fu per lo spazio di due anni la donna di Modigliani, eternata dai quattordici capolavori, ritratti e nudi che il Maestro le aveva dedicato.

Carmen Moscariello

CINZIA BALDAZZI: "PAROLE IN SCENA" DI ALESSANDRO RISTORI

                                                                     Alessandro Ristori

Cinzia Baldazzi legge “Parole in scena” di Alessandro Ristori 

Undici monologhi per la scena e per la lettura

 

Alessandro Ristori

Parole in scena

Roma, Aracne, 2019

pp. 198, € 16,00


   Il caposcuola dello strutturalismo italiano, Angelo Marchese, scrive: 

Il teatro nasce dalla rappresentazione sacrale e rituale, in un particolare spazio circoscritto adibito a culto. In un primo momento la rappresentazione, itinerante, non si svolge in un luogo fisso; ma già a Creta si nota l’istituzione di uno spazio specifico per lo spettacolo, con l’implicita divisione tra attori e pubblico. In Grecia il teatro è “visione”, “spettacolo”».

   In realtà, nei monologhi di Alessandro Ristori la «divisione tra attori e pubblico» non emerge poi così marcata, benché a suo modo predomini una specifica, accattivante aura di mise en scène. Ma non nell’accezione classica sostenuta dal linguista Marcello Aurigemma, cioè di in un θέατρον (thèatron) concepito non per la lettura bensì con immagini vive incaricate di un agire ininterrotto: «Gli scritti teatrali sono testi letterari particolari in quanto destinati ad essere integrati con l’arte mimica degli attori e con la scenografia».

   Nel volume del nostro autore il sistema tecnico-artistico appare di natura singolare. In un simile intervallo referenziale-estetico il lavoro teatrale di Ristori, raccolto per ora negli undici monologhi di Parole in scena, concretizza l’approdo recente di una creatività finora concentrata essenzialmente sulla poesia: a partire da Quel che resta dopo l’arcobaleno (2008) fino a Nel colore del silenzio (2016), Oltre il cuore (2017), Gocce di vita (2018), Sinergie in dissolvenza (2021).

   Nel definire «drammaturgia lirica» i propri brani teatrali, Ristori chiarisce la «diversificazione delle modalità di scrittura», lasciando intravedere nel libro il solco indelebile del dilatarsi dell’area semantica tipica - avrebbe esemplificato Ferdinand de Saussure - della parole. In un’eloquente messa in opera dell’insegnamento del padre della linguistica mondiale, Alessandro Ristori propone un “distinguo” tra i due cliché letterari collocati nei rispettivi macrocosmi, assegnando differente articolazione e peso non omogeneo alla coppia di indizi necessari all’atto comunicativo: la selezione e la combinazione. «Nella poesia difatti la singola parola è immaginata, poi pensata, poi trascritta e successivamente contestualizzata», precisa il nostro scrittore, mentre nel μονόλογος (monòlogos) «non ne basta una sola, ricercata, armoniosa, di per sé esplicativa, come accade nella poesia, ma ne occorrono molte». Occorre pertanto stabilire una diversità rilevante, direi sui generis, adeguata a snodare un mosaico allitterativo, giochi fonici, echi, parallelismi e via di seguito.

   Il legame tra l’approccio monologico e il verso è stato praticato e indagato di frequente nell’èra moderna, dalla fase in cui - all’interno dell’evoluzione dell’arte drammatica avviata nel corso del ‘900 - il monologo diserta l’unione di forma-contenuto del testo (soprattutto la tragedia) del quale costituiva un a parte. Acquista indipendenza di progressione, guadagna prestigio di testo scritto, letto, recitato, senza doversi sottomettere allo svolgimento di uno schema preordinato, ad esempio quello di un canovaccio teatrale che ne costituisce il “prima” e il “dopo”.

   Circa i rapporti intrattenuti con la ποίησις (pòiesis), così come degli ostacoli sperimentati dal “neonato” genere nell’orbita dell’industria editoriale e dello spettacolo, resta testimonianza un angolo esclusivo del repertorio di Cesare Zavattini. Attratto dal fascino delle muse Μελπομένη (Melpomène) e Θάλεια (Thàleia), elaborò nel 1959 il monologo Come nasce un soggetto cinematografico, dove esponeva il tormento di coscienza di uno scrittore di cinema di fronte a un produttore privo di scrupoli. Incompiuto, invece, rimarrà Fare una poesia alla vigilia della guerra, che avrebbe dovuto rappresentare il conflitto delle responsabilità morali e civili dell’intellettuale. Edito nel ‘68, il monologo fu proposto a Giorgio Strehler perché lo interpretasse. Infine, a livello di progetto ricordiamo L’uomo ‘67, mentre Monologo in briciole e il celebre Non libro più disco saranno realizzati pochi anni dopo.

   Le brevi pièce di Ristori posseggono un loro innato input a essere trasmesse “in viva voce” davanti al pubblico, ma conservano un’efficacia anche se lette “in solitaria”. Il semiologo Cesare Segre ha individuato la matrice ideativa insita nella lettura di un copione teatrale:

La possibilità di rileggere consente una comprensione più approfondita: la reiterazione delle letture - normale per il critico - produce una totale assimilazione del messaggio. Vengono così superati anche i vuoti di attenzione, le distrazioni durante la fruizione, ecc. E sono possibili verifiche su altre fonti d’informazione, dello stesso mittente o di altri, così da ricostruire, almeno in parte, l’“enciclopedia” (cioè l’assieme di conoscenze) e le implicazioni del messaggio.

   In Parole in scena, ad esempio, i monologhi sulle crisi belliche, sui migranti, sui problemi dell’integrazione, trovano il contesto e il parametro di un eventuale “verifica” dalle notizie, i dibattiti e gli studi su tali fenomeni veicolati da stampa, televisione, rete. Ti prego… mio Signore, dedicato ai bambini vittime delle guerre in Medio Oriente, è indirizzato al Padreterno; ne La mia bambola è protagonista la bimba somala Amal, con la sua avventura di rifugiata e l’esperienza di piccola straniera in Italia: il racconto è scandito dall’appello: «Mamma dove sei?».

   Come ha sintetizzato lo studioso Antonio Scavone, durante i secoli il monologo, incastonato nello spazio semiologico del drama, ha assunto a mano a mano importanza crescente nella trama complessiva con caratteristiche di nodo cruciale, di cardine, di cerniera nella rappresentazione. Al contempo, ha contribuito a spezzarne il nucleo alterandone il continuum, fermando per un attimo la storia al pari di un fotogramma estrapolato dall’ordine del montaggio. In entrambi i casi, esso procede rapidamente nel divenire strumento non subordinato, anzi struttura o sotto-struttura a se stante: ancor prima di svincolarlo dai confini di un copione, i drammaturghi incrementano le prerogative per una sua definitiva autosufficienza.

   Una tappa decisiva in un simile percorso è l’internal monologue novecentesco, fautore di una tecnica locutiva coincidente con un colloquio introspettivo (suggerirebbe Sigmund Freud) che il personaggio compie tra sé e sé (discorso diretto); può nondimeno prendere forma un dialogo nel quale l’Io letterario manifesta una duplice valenza (le due anime di Gollum ne Il Signore degli Anelli di J. R. R. Tolkien).

   Il cammino dell’internal discourse verso una emancipazione di “genere” avrà un esito riconosciuto: diventa oggetto di una performance indipendente, di durata ridotta in confronto a una classica pièce, magari con l’ausilio di intermezzi musicali e di una scenografia minimale. L’uscita di Parole in scena, presentato in eventi e abbinato a reading, è stata infatti accompagnata dall’allestimento, curato dallo stesso Alessandro Ristori, di spettacoli basati su una scelta di testi del libro. D’altro canto, la fruizione di un monologo “dal vivo” ha il pregio di essere controllata dall’attore, fornendo un qui e ora per così dire “già interpretato” nel suo incrocio di voce, musica, gestualità, prossemica. Un iter analogo ha appunto intrapreso Ristori con il suo libro negli ultimi anni, attraverso la recitazione in teatri, caffè, librerie oltre che in one man show composti da vari brani.

   Esemplare la vicenda di Vite intrecciate, σκηνή (skenè) figurata delle esistenze di due uomini: Dario, dirigente d’azienda, e Piero, cinquantenne licenziato, rimasto disoccupato. Piero soccorre per la strada un giovane emigrato còlto da malore e coinvolge il riluttante Dario il quale è lì di passaggio. Sino ad allora, il plot ha previsto un’alternanza monologante delle voci. In occasione dell’incontro, la narrazione devìa verso il modello di un δρματος (dràmatos) a tutti gli effetti, con domande-risposte, battibecchi, comandi, incoraggiamenti, fino all’istante dell’aristotelico riconoscimento definito da Alessandro Ristori «un momento di intuizione, un’improvvisa rivelazione spirituale, una “Epiphany”, fatta propria da James Joyce nel famoso Dubliners». Infine, avanza e si conclude in maniera ancora differente, ovvero accogliendo il racconto in terza persona (anticipato qua e là da alcune “didascalie” informative). Un paio di anni orsono l’autore, nel realizzare una riduzione di Vite intrecciate, è ricorso a un apparato drammatico seppur essenziale, “a due voci”, riservandosi la parte di Piero e modificando il cast nell’assegnare a un’attrice il ruolo di antagonista.

   L’autonomia acquisita dal monologo nel ‘900 stabilisce le premesse di un altro importante mutamento: si producono, cioè, i requisiti effettivi per sganciarsi dall’obbligo dell’ascolto e si gettano le basi per la lettura. A quest’ultima esperienza, accrescitiva della sovranità del lettore, concorre l’avvento di un’editoria - sia “di nicchia”, sia legata alla grande distribuzione - pronta a dare spazio a nomi famosi o sconosciuti. La svolta autentica è stata del resto dovuta al già citato inner speech nei romanzi di James Joyce, Virginia Woolf, Robert Musil, Marcel Proust, movimento condotto alla sintesi estrema dallo scrittore di Dublino e spesso nominato stream of consciousness. Spiega ancora Scavone:

 

Stavolta è un “parlare a se stessi” depositato nella forma scritta, destinato a essere letto e non più ascoltato, a stabilire quell’ideale identità o complicità che solo la lettura - una lettura certamente impegnativa e a volte errabonda - stabilisce tra chi ha scritto e chi apprezza appunto leggendo.

 

   Di nuovo secondo l’opinione di Angelo Marchese, abbiamo «una forma di autoanalisi del personaggio, nella cui vita interiore siamo direttamente introdotti senza alcun intervento di spiegazione o di commento da parte dell’autore». Quanto Marchese spiega rispetto all’«emergenza dell’inconscio», al «giustapporsi di pensieri intimi e irrelati», sposta il ragionamento nell’orbita del Bewusst indagato da Charles Mauron: secondo lo psicocritico francese, infatti, in qualsiasi metafora il “conscio” freudiano rimane il gestore delle tracce reperite nell’Inconscio:

 

Dal momento in cui ammettiamo che in ogni personalità esiste un inconscio, quello dello scrittore deve essere considerato come una “fonte” assai probabile dell’opera. Fonte esterna, in certo senso: poiché per l’Io cosciente, il quale fornisce la veste verbale all’epoca letteraria, l’Inconscio implicitamente notturno è “un altro”: alienus; ma anche fonte interiore segretamente congiunta alla coscienza da un perpetuo flusso e riflusso di scambi.

 

   Così, le metafore ossessive di Vite intrecciate di Ristori offrono un unicum del complesso di Parole in scena in virtù della loro sviluppata pluri-discorsività e dell’incalzante successione di prospettive tematiche. Le chiavi semantiche elaborate da Mauron guidano in qualche modo la nostra esegesi e vengono da noi impiegate per approdare al mito personale del nostro autore.

   Nello standard canonico del monologo, infatti, a differenza del dialogo, non c’è avvicendamento di parlanti rispetto all’unica voce in campo dichiarata. È però evidente una dicotomia fondamentale - parallela alla psicocritica mauroniana ed enfatizzata da Cesare Segre - tra l’Emittente (il responsabile della scrittura, oppure l’interprete, il raconteur, quindi un attore o l’autore) e il Soggetto Mimetico (l’essere umano figurato nel monologo, il locutor all’interno del testo). Si articola dunque un discorso attribuito a un “Io” del tutto eterogeneo al promotore del messaggio: un “Io” con cui l’Emittente (nelle vesti di writer-teller-actor) prova a identificarsi, ossia il protagonista, anche se non onnisciente.

   L’efficacia, la riuscita delle composizioni poetico-illustrative di stampo monologico si misurano quindi anche nel non lasciar distinguere, nei loro tratti peculiari, le corrispondenze sintattiche tra il personaggio e chi lo interpreta. Una simile procedura stilistica, prosegue Segre, ha le fondamenta in una sorta di «mediazione mimetica, che permette all’emittente di fingersi un altro, di parlare con la voce di un altro (se poi con parziale adesione, è da vedere caso per caso)», ovviamente nell’ondeggiamento del vero-falso attinente la fiction letteraria. In sostanza, il creatore del monologo, nell’identità prescelta, vuole svelare al ricevente - il pubblico, gli ascoltatori - messaggi destinati per loro intrinseca natura a rimanere celati visto che sono stati pronunciati da una persona nell’abisso della solitudine, nella disperazione di un soliloquio.

   Si evoca in tal modo un paradigma semiologico relativo a molti principi comunicativi (il repertorio teatrale in primis): tuttavia, lo statuto semantico del monologo gestisce la classe di un insieme semiotico assai singolare, in quanto, sempre a parere di Cesare Segre:

 

Con questo procedimento si scopre una parte della finzione, facendo slittare la comunicazione testuale dal livello mimetico al livello emittente-destinatario, ma lasciando che la “fuga di notizie” venga operata da un attore.

 

   A “garanzia” del successo del contatto avviato, in particolare di radice letteraria, non dovremo dimenticare l’apporto funzionale dell’interpretante, elemento determinante per il buon funzionamento dell’atto comunicativo secondo la valutazione di Charles Sanders Peirce nel tardo ‘800.

   In Parole in scena, l’assunzione di un personaggio, l’appello all’icona di un “altro da sé”, avviene in due distinte modalità.

   L’identificazione dell’Io narrante con soggetti umani concerne la maggior parte dei componimenti.

   … Corri! è un testo incentrato con passione sul rapporto figliale.

   La sorella silenziosa allinea, in un flusso utopico ininterrotto, tre storie con la Luna nella veste di protagonista o comprimaria. L’autore stesso, alla fine, si rivolge alla volta celeste promuovendola diretta “partner” del proprio discorso.

   I colori dell’attesa è imperniato sul tempo. Nelle righe iniziali cogliamo un indicatore efficace di quanto l’uomo desideri una sincera controparte incline ad ascoltarlo: «No, non sono pazzo… come qualcuno, a questo punto, potrebbe, giustamente, anche pensare». Del resto, non dimentichiamo quanto sosteneva Alda Merini: «Anche la follia merita applausi».

   Ne La luce e il suo buio trapelano i buchi neri dell’esistenza, riferiti da un individuo il quale si è dimostrato capace di superarli. Attorno a lui, sinora illuminato da un solo faro circondato dal buio, sembra si accendano qua e là luci intense, sorgenti luminose diffuse. In chiusura scopriamo la natura autentica del suo parlare: l’apparente eloquio “in solitaria” si rivela un monologo classico quando l’uomo cambia registro e raccomanda a un interlocutore: «Non aver paura della luce… Non aver paura del vento… Imparerai a guardarti indietro e quel buio ti farà sempre meno paura di ieri. Non è un caso che io, adesso, sia qui a raccontarlo». Nonostante le parole inquietanti, per fortuna le tenebre si dissolvono, in allusione all’inevitabile notte precedente l’alba, all’indistinto anteriore alla rinascita.

   Al sole, sul mio asciugamano verde esprime il punto più tragico dell’intero volume, ospitando la lunga riflessione di un impiegato caduto in rovina, ormai ridotto a vivere per la strada da clochard. Il tono esplicita forti accenti penosi, dove poi, però, prevale un tratto metalinguistico. Il termine è stato consacrato da Roman Jakobson:  

 

La logica moderna ha introdotto una distinzione tra due livelli di linguaggio: il “linguaggio-oggetto” che parla degli oggetti e il “metalinguaggio” che parla del linguaggio stesso […]. Come il Jourdain di Molière, che faceva della prosa senza saperlo, noi mettiamo in pratica il metalinguaggio senza renderci conto del carattere metalinguistico del nostro operare».

 

   Secondo Jakobson, uno dei fondatori del Formalismo Russo, si anima una funzione metalinguistica «ogni volta che il mittente e/o il destinatario devono verificare se essi utilizzano lo stesso codice». È quanto accade al protagonista del monologo di Ristori, il quale confessa come la sera si trovi a parlare alla luna, ponendo una serie di domande tuttavia eluse nella risposta: assistiamo così alla ricerca disperata di qualcuno con cui confidarsi, nel tentativo di auto-verificare se il proprio messaggio sia valido, transitabile, da condividere.

   Ma l’espediente forse migliore della raccolta di Ristori, congeniale per eccellenza alle caratteristiche della sua ποιητική τέχνη (poietiké tèkne) allargata alla prosa, risiede nell’intento di personificare non un soggetto umano bensì soggetti virtuali o stati mentali attraverso un processo di antropomorfizzazione. Ad esempio, in La libertà di essere un sogno, è quest’ultimo a intervenire: situato su un ipotetico palcoscenico, si presenta, saluta e instaura il piano referenziale, estetico-emotivo, da condividere con i destinatari.

   Con Dolore 104 il progetto di far governare il μονόλογος da una logica “a misura d’uomo”, lontano dal causare un azzardo o una possibile atmosfera precaria, diviene elemento di forza, di originalità. Alessandro Ristori conferisce uno status quasi di icona umana alla sofferenza. Il lettore assiste a minacce, insulti, turpiloqui indirizzati a terzi. Chi sono? Criminali? Signori della guerra? Dittatori? Creature spietate? Apprendiamo nell’epilogo, sapientemente preparato, che il narratore intende rivolgersi non a individui precisi, bensì al dolore in sé, a una sensazione di pena fisica o spirituale.

   Vorrei concludere questa disamina di Parole in scena ancora citando Antonio Scavone, a proposito del clima socio-culturale nel quale potrebbero trovarsi, in epoca attuale, gli autori di monologhi:

 

Resta da chiedersi com’è che si scrive oggi un monologo ma bisognerebbe chiederlo ai drammaturghi per sapere se scrivere un monologo risponda ad un’esigenza estetica primaria o se non costituisca, per la crisi degli allestimenti teatrali, una scelta superstite, un’opzione di sopravvivenza. È una questione spinosa che tutti, alla fine, tendono a nascondere o evitare, anche perché, per i drammaturghi, parlare di monologhi e poi scriverne è più prossimo ad una solitudine oggettiva che a quella metaforizzata sulla scena.

 

   Come sempre, se questa opinione sia fondata o meno, adesso tocca a voi, lettori di Parole in scena, verificarlo.

Alessandro Ristori, romano, poeta e scrittore, è da tempo impegnato nello studio del valore e dell’uso della parola. «Una continua ricerca in campo linguistico», spiega l’autore, «mi porta all’uso di forme di scrittura diverse tra loro (poesie, monologhi, racconti) ma che rappresentano sempre vestiti nuovi e ricercati per raccontarmi e raccontare da vicino il mondo che mi circonda, dalle emozioni agli ideali, dai comportamenti individuali a quelli collettivi, dalle storie dei vinti a quelle dei dimenticati». Ha esordito con il libro di poesia Quel che resta dopo l’arcobaleno (Il miolibro Editore, 2008). Successivamente ha pubblicato Nel colore del silenzio (Aracne Editore 2016) e alcune sue sillogi poetiche (Pagine Editore, 2017). Alla raccolta Oltre il cuore (Aracne Editore, 2017) sono seguite Gocce di Vita (Aracne Editore, 2018) e Parole in scena (Aracne Editore, 2019), uno tra i pochi libri editi di monologhi teatrali. Sta per essere presentato l’ultimo suo libro di poesie Sinergie in dissolvenza (Aracne Editore, 2021). Ha scritto lo spettacolo teatrale Le Isole dell’anima curandone anche la regia. È direttore del concorso letterario ”I colori delle parole” e membro di giuria di altri concorsi. Collabora con diverse associazioni culturali con le quali e per le quali organizza serate culturali e teatrali.

 

 

 

domenica 30 gennaio 2022

SEBASTIANO SCHIAVON: "CENTENARIO DALLA MORTE"


 

FRANCO DONATINI: "SOTTO IL SENSO DEL VIVERE"



DONATINI FRANCO

 Esiste il poeta? Quale il suo ruolo? Deve analizzare se stesso,  il suo esistere come essere fattivo in una società multipla?  Polivalente? E’ cambiato l’uomo, la sua funzione in un mondo triste e senza prospettive? Queste le domande che si pone Franco Donatini. In conclusione presuppongono un’analisi obiettiva del rapporto fra lui e tutto ciò che lo circonda. Senza escludere la natura, l’ambiente, e il mondo in cui vive. Finirà quando si chiude il sipario?  Allora il discorso si fa esistenziale, di splenetica valenza? A questo punto è difficile levarci le gambe, dacché sappiamo, nolenti o volenti, che la nostra posizione è fragile e momentanea; il discorso allora si fa sull’esserci, sulla sua presenza? Ma viene spontanea una domanda: il mondo che ci circonda, la società, l’ambiente non hanno importanza sulla crescita e formazione umana? Senz’altro e qui nelle nuove poesie Donatini affronta il problema: quello della malinconia, della insufficienza, della mancanza del ruolo. In conclusione fare poesie significa esternare il nostro pathos, la nostra interiorità malata, il nostro malessere continuo, in quanto coscienti della nostra precarietà? Ma  l’uomo esiste e in quanto essere attivo dovrebbe partecipare con la sua personalità a ché il mondo migliori; fare quello che è in suo potere per riuscirci. Più si fa a fondo della questione e più le cogitazioni mentali del nostro poeta, il quale si sente partecipe, ma anche sfiduciato, triste, melanconicamente inattivo, diventano molteplici; sarà forse che questo Covid in qualche modo ha contribuito a rendere l’uomo triste e assente? Penso di sì, in qualche misura  si è chiuso, ritirato nel suo abitacolo, in se stresso, allontanandosi dal ruolo che dovrebbe avere. Quello di un essere civile la cui realizzazione si compie quando prende parte, e si dà da fare, in quello che può, per cambiarle le cose, e renderle più adatte al nostro vivere. Una molteplicità di questioni che contribuiscono a rendere plurali, polimorfiche, e polisemiche queste poesie, dove sono molteplici le tematiche che le ispirano: l’esistenzialismo, il fatto di esistere, il sociale, l’ambiente…    Quanto allo stile del Nostro, è fluente, scorrevole, dove la parola occupa un posto essenziale con la sua etimologia e  il suo essere in una trama di grande energia epistemologica. Si deve dire anche che il poeta è alla ricerca di uno stile altro, in continua maturazione, un climax interessante e nuovo per pathos e logos. In effetti il poeta non si ferma in un porto dove pensa di avere raggiunto il maximum, ma va avanti, cresce, si moltiplica in invenzioni e creazioni. Verrebbe da dire, anche se scontato, chi si ferma è perduto. In un confronto tra le poesie date alla stampa per i caratteri di Miano Editore e queste ultime, a livello filologico e stilistico,   viene da scrivere che queste sono impostate su ritmi più prosatrici e meno lirici; segno di una ricerca che il poeta, come detto, sta attuando verso nuovi lidi costruttivi e interessanti. 

Nazario Pardini

 

DAL TESTO

Sotto il senso del vivere

Franco Donatini

Indice

 

Il nido

Inverno

Incontrarsi per caso

Ricordi

Dolce amara compagna

Kabul

Fuori

Scivola il tempo

Gente

Chi sono io

Il nido

 

E la sera cala

umida di tiepida rugiada

sul nido che protegge

i nostri corpi

Un soffio di vento malizioso

s’insinua

e un brivido scorre sulla pelle

 

E dal groviglio ribelle

di mimose

la luna sfugge

timida possiede

il cielo e bagna

di candide carezze

di lievi sospiri il prato verde

 

E la notte scende

sul pallido orizzonte di colline

scuri profili

disegna e inquieta

animi stanchi

piccole luci accedono

di amari ricordi un cimitero

 

Ma il nido si apre

e accoglie

smarriti sensi fiumi di parole

desideri sopiti il buio svela

apre cancelli chiusi

e scioglie i petali carnosi

del trepido bocciolo d’una rosa

 

Inverno

 

E io che amo l'inverno

il silenzio dei paesaggi

e i suoni ovattati delle città

i giorni brevi avari di luce

il letargo dei campi

e i canti negati degli uccelli

 

Amo l'assenza

dei tripudi cromatici

i muti sospiri

dell’aria senza vento

lo sgomento degli alberi

con le braccia levate al cielo

 

Amo la natura 

che tiene in ostaggio il riposo

che accende i fuochi

il tepore nei corpi

i desideri indicibili

i sogni destinati a morire a primavera

 

Incontrarsi per caso

 

Incontrarsi per caso

Quante volte lui l’ha ignorata

quante volte lei non ha fatto niente

si è limitata a sognare

a consegnare alla mente trepide notti

di passioni e attese senza speranza

destinate a restare sogni

Soli come al ritorno da un viaggio

da una meta non prevista

un viaggio per strade come gomitoli

che tornano sempre su sé stessi

un viaggio di tutti i giorni

senza paura né coraggio

Si sfiorano non come Ulisse

che pure sfiora la sua terra senza toccarla

ma gioca con le sue passioni e una meta ce l’ha

quella che ha sempre sognato e vuole

che resti un sogno

Non si conoscono

come comete partite da galassie lontane

senza sapere di esistere

Il corpo di lei segue il cammino della Luna

l’uomo non ne ha alcuno o ne ha molti

tutti uguali portano a una stessa meta

 

Incontrarsi per caso

Solo quella volta le altre non contano

migliaia di appuntamenti buttati al vento

non costruiti non previsti non cercati

come quella volta uguale e diversa dalle altre

Ci pensa il tempo a comporre gli eventi

a rompere i muri dell’indifferenza

e a costruirne di nuovi

Non c’è una logica o un fine

c’è solo il mistero dell’accadere

la ripetizione di istanti sempre diversi

di sentieri dispersi e non più ritrovati

di momenti mancati

di individui isolati

Anche quella volta non conta

eppure avevano sperato sognato

ma non c’è mai un inizio o una fine

un prima o un dopo la clessidra si ribalta

e segna sempre la stessa durata

Anche quella volta non conta

è solo una meta scontata                

da gettare senza odio né rabbia

come il mare in silenzio cancella

il cammino scritto su un foglio di sabbia

 

Ricordi

 

Ho gettato via i ricordi

pesanti come pietre nella mia bisaccia

tonfi nel mare vortici brevi

e poi più niente

È leggero il mio corpo e anche l’anima

sganciati finalmente dal passato

da flebili filamenti temporali

ormai dissolti

Tutto tornato al punto di partenza

Le pietre nel fondo marino

ove erano cadute espulse

dal vulcanico ribollire della terra

I segni di gesso cancellati sulla mia lavagna

tornata vuota come il nero degli abissi

il nero profondo dell’assenza

Tutto tornato al punto di partenza 

 

Ho gettato via i ricordi

frammenti d’esistenza

ferite sanguinanti dolori sopiti

pagine scritte di amori finiti

Vuoto il labirinto mentale niente trattiene

il corpo che sale

Ma l’anima resta giù nella caverna

incatenata cerca un punto

da dove ripartire

dalle ombre fluttuanti dai simulacri di pietra

dalla luce accecante che viene da fuori

Mancano gli occhi per vedere e capire

mancano gli arti per toccare e sentire    

la caverna è una nuova prigione

chiedo a Platone

restò con te l’anima nel momento del trapasso?

 

Dolce amara compagna

 

Hospes comesque

da Memorie di Adriano

di Marguerite Yourcenar

 

Che cosa resterà di questi giorni

dei nostri turbamenti di emozioni

che son solo momenti d’un percorso

certo già segnato

 

Dolce amara presenza hai scortato

silenziosa e indifferente l’esistenza

compagna triste ma non invadente

assente e rispettosa dei miei anni

 

Distante hai seguito i miei affanni

avara hai smorzato gioie

e nel lenire i miei dolori

hai sciolto amori e odi ormai sopiti

 

Come il sole calante dietro i monti

rallenterò il mio passo

per fermare il tempo solo un momento

di questa vita avida di luce

 

Resteranno i miei versi

forse il ricordo di chi mi ha incontrato

ma nel silenzio profondo che m’avvolge

paiono i brevi attimi eterni

 

E mentre la sera si avvicina il cielo

pian piano si scolora

l’anima fugge e una nuova stella

s’aggiunge schiva alla volta oscura

 

Compagna sappi

che ti sono grato per avermi sempre

rammentato che c’è un confine al cielo

che con il corpo non si può varcare