venerdì 13 gennaio 2012

Lucia Bruno, su Nazario Pardini, Alla volta di Leucade, Mauro Baroni Editore, 1999. Pp 126. Su Hyria, dicembre 2000


" ... poi tornare nuovi"

<<La bellezza ed il livello della poesia di Nazario Pardini sono tali che – parlandone – vuoi per emozione, vuoi per entusiasmo, si rischia di apparire retorici poiché non è improprio pensare ad Euterpe piuttosto che ad Erato né lo è volare fino a Mercurio, alla sua  tartaruga, alla sua lira… tanto più se, a fine lettura, suggestionati da un titolo come Alla volta di Leucade.  
Quindi frenati gli impulsi e al di là del fascinoso percorso per leggende, un fatto è certo: questo Poeta, di limpida intuizione e nutrito dalla formazione culturale (docente in lettere e Laurea in Lingua e Letteratura Francese, nonché in Storia e Filosofia) su  cui le origini toscane molto hanno inventato, questo Poeta – si diceva – può a buon diritto riconoscersi in alcuni dei canoni specifici che Schopenhauer ci ha lasciato. Pardini risulta, subito, uomo d’armonia, uno che ha addirittura il dono di significare il suo sentire “… a quel modo ch’ei detta dentro”. Il linguaggio è infatti puro, così come animo e cultura gli dettano: l’essere si protende e si dilata scandendosi in raffinatezze.
I subbugli interiori, i timori, le nostalgie, la natura, i luoghi, i ritorni sono iperguardati da un’iride che riceve immagini trasfigurate, il reale diviene “reale pardiniano”. E, se merito del vero poeta è quello di non segnare confini attorno al “suo” evento, ebbene Egli ha questo merito. Basta “saper leggere” (come indica Vettori chiudendo la sua sapiente prefazione) per entrare nell’incantamento, fortemente attratti da quel dire aulico che mai fallisce  per significanza e delicatezza: tutto su una scia interiore che è ricerca placante.
Le mille ed una scheggia della sua sensibilità, Pardini le esterna grazie a vene d’amore: per la Natura (dove Settembre impera in sempre rinnovata metafora del nostro – diremmo – Grande Tramonto) e per le cose semplici (dove ogni articolare assurge a dignità di sentimento); ed, ancora, per poeti greci ed antichi miti (che sembrano richiamo a migliore poesia). Schegge, con cui il poeta crea unità d’abbraccio verso ciò che – nel bene e nel male – è, comunque, “superbo dono”: la vita.>>

Lucia Bruno da “Hyria” dicembre 2000 

giovedì 12 gennaio 2012

Silvana Serafin, PENSIERI NOMADI. La poesia di Maria Luisa Daniele Toffanin, STUDIO LT2, Venezia 2011. Pp. 226. Euro 16


Silvana Serafin, PENSIERI NOMADI. La poesia di Maria Luisa Daniele Toffanin, STUDIO LT2, Venezia 2011. Pp 226. Euro 16

A cura di Nazario Pardini


Così il pensiero più ritorto
in petrosi nodi, cela dentro
misteri-fantasie d’acqua
sorgive all’anima per parole nuove
petali-profumo  di poesia.


Cara Maria Luisa,

ho ricevuto la tua opera con grande gradimento. Opera organica, zeppa di firme eccellenti, bella e curata nella veste grafica, nell’impaginatura, nell’attenzione al particolare, veramente importante come edizione a fine di studi universitari. Tutto ciò ci dice del livello a cui è assurta la tua produzione (lo merita). Al gradimento sincero che mi deriva dal palpare il tuo morbido testo e soprattutto dalla lettura attenta e meditata delle sue pagine, va aggiunto un mio personale e non indifferente orgoglio nel constatare che tante mie riflessioni sul tuo percorso siano state confermate dai critici delle esegesi. E penso proprio che gran parte di quello che è stato scritto, lo si trovi nelle pagine che con grande passione ho stilato sulle tue estensioni etico-estetiche, sulle tue “romanze” liriche di grande intensità umana ed artistica: l’io e la natura; il verbo e la sua iperbole; le configurazioni finalizzate ad un distacco da un terreno riduttivo, per uno slancio che vada oltre la parola; la fusione, rara nella poesia contemporanea, fra il termine e la coscienza di esistere; e la coscienza dei limiti umani come cruccio e stimolo all’avventura, alla scoperta di un mondo il cui epicentro è l’essere umani.
         Ma quello che più mi ha convinto è la tua nuova fatica letteraria che tu inserisci come appendice, e che io avrei collocato come momento più importante ed incipiente del testo.
Qui l’autrice Toffanin si conferma rinnovandosi, o si rinnova confermandosi. Da traghetto a traghetto per non morire. E’ qui l’anima di tutta la produzione dell’artista. Spaziare, osservare, appuntare, segnare, immaginare e correre, fuggire, dopo il nutrimento di esperienze visive e emotive; fuggire alla ricerca di quelle verità che diano all’artista una convalida della sua esistenza, della sua arte, del suo mondo fragilmente immenso nella caducità umana. Creare, dire di sé, essere viva per non morire. Ed è qui che la natura si immola all’anima per reinventarsi nuova, pregna delle emozioni esistenziali della poetessa. E la natura è disposta a collaborare, è amica, è confidente, e l’autrice la sfiora, la tocca, l’annusa, la inventa per ridarla al foglio impreziosita di una sensibilità e di una commozione universalmente ed oggettivamente valide. Le metafore, le figure stilistiche, le combinazioni metrico-foniche si susseguono con ritmo incalzante tanto che: “E l’anima occlusa nell’oblò / disancorata dall’evento / si sperde si cerca in quel liquido falò / rinata visione del vivere metafora.”. E da NELLO SPAZIO-TEMPO DEL MARE E DELL’ISOLA a INCONTRI, da QUESITI DI MARE a CONTATTI DI ORA IN ORA IN VOLI E CANTI VESPERALI è tutto un volo crescente, un volo che l’autrice intraprende, partendo dalla concretezza della tormentata bellezza terrena, per elevarsi, cosciente della fragilità delle vita, allo stadio dell’arte pura, al pensiero dell’arte come categoria principale dello spirito, dove, e solo dove l’umano stesso può tradire il fatto di essere umani: “Ma tu, mia minuta crisalide / dei miei voli più vergini / tu non arresa al tempo ansante d’acqua / a lusinghe del continente / tu qui nella tua cala ambra-turchese / eletta a interiore rifugio / tu quasi indifesa / sui sedimenti della tua storia / scivoli tra alghe-memorie / cuscino a verde riposo / nutrimento all’anima / a creare mutando nuova tua forma / sempre fedele al tuo bozzolo.”. La parola fa di tutto slargandosi, ampliandosi, raggruppandosi, frantumandosi per ritrovare la sua unità sintagmatica e aderire così alle necessità di un’anima in cerca di un valido aiuto per assurgere alla sua più completa plenitudine.
         Il poeta direbbe: “Nel cuore della terra, negli urli dei suoi profumi, nei canti dei suoi colori, nelle tristezze dei suoi abbandoni il poeta trova sempre la via dell’ascensione”. 

P.S.
 Alla pagina 101 il critico, Graziella Corsinovi, riporta: “A proposito del rapporto dell’autrice con la natura, il prefatore Nazario Pardini, parla di panismo; il panismo implica la dispersione dell’io nella natura…” .  Ma io parlo non di panismo, ma di panismo esistenziale che è completamente diverso dal semplice panismo. Quest’ultimo implica, sì, la dispersione dell’io nella natura, ma nella mia accezione significa, come ben chiaro nel prosieguo della presentazione, impossessarsene per farla corpo di stati d’animo. Ridare al foglio “oggettivazioni” nutrite di esperienze vitali e memoriali. E quindi non dispersione dell’io. Ma azione di un io che si fa attore primo nell’acquisire, rielaborare e tradurre dati naturali in trasfigurazioni emotivo-esistenziali.         


12/01/2012                                                                           Nazario Pardini                                                                     

domenica 8 gennaio 2012

In ricordo di Vittorio Vettori in occasione del Premio Tanzi 2005


In ricordo di Vittorio Vettori in occasione del Premio Tanzi 2005

Nazario Pardini componente di commissione



.A goccia a goccia per le vie del

dolore, l’uomo diventa saggio

attraverso la terribile grazia di

Dio.                 Eschilo



Si è spento Vittorio Vettori  il dieci febbraio scorso, 2004 . Questo il mio telegramma: Le condoglianze più sentite per un amico che lascerà un vuoto incolmabile. La prima volta che lo incontrai fu ad un Premio Letterario in cui ero membro di giuria: al Santa Maria in Castello, città di Vecchiano. Vinse con una poesia inedita. Era l’anno 1994. Mi disse: “Ma che professore! Dammi del tu, poeta!” Aveva questa facilità, da buon toscano, nel rapportarsi con gli altri. E la parola. Sì, proprio la parola era il suo forte. Scelta, filtrata, accalorata, immediata e gettata d’impeto sulla platea come può fare un grande attore nel pieno della sua forza recitativa e interpretativa. Amava scrivere Vittorio. Su tutto e con tutti i mezzi. Grande dantista, fine ed attento critico, eccellente poeta, filologo nel trattare il verbo. Per lui la poesia doveva scorrere nelle vene con fluidità come caldo scorre il sangue fino al cuore. Non accettava in certi poeti il dire prosastico, il versificare in prosa. “La poesia è poesia e basta! e non chiedere altro. La si deve sentire, non ha bisogna di essere spiegata”. La ricchezza del lessico, permeata da un flusso d’immensità cristiana, rendeva il suo stile pregno di valori umani e sovrumani. Ciò senza togliere niente al carattere esistenziale di un dubbio che dilata l’anima al senso dell’essere e dell’esistere. Dice Giorgio Luti di lui: “...la tensione verso lo spazio metafisico non è la sola chiave di lettura di questi versi che per molti aspetti chiedono una diretta implicazione nella concretezza dei giorni, o quantomeno l’accettazione di una continua dialettica tra “cielo” e “terra”, tra il “paradiso” della speranza e l’ “inferno” della contingenza. Tra questi due termini estremi si snoda, con una misura di controllata classicità e con una sperimentata sapienza ritmica, il discorso poetico di Vettori secondo un disegno organico che affida alla presenza del mito classico un ruolo determinante”. E Luti si riferisce soprattutto ai testi del libro dal titolo Ultrasera di cui riporto alcuni versi. “Unito con Dio e nell’essenza / munito di Dio. Non più io / se in me da sempre c’è Dio / che dice il silenzio. Presenza / dolcissima eppure tremenda / quando l’io che fui si discioglie / nel vento del Nulla e alle foglie / cadute assomiglia”. (Allunghi sua ombra la sera). “La tua immagine vera m’era accanto / l’altro giorno alla Verna quando a un tratto / il grande Paul Claudel che tu m’hai fatto / comprendere più e meglio di quel tanto / che si può col cervello e non col cuore, / mi si fece presente dal profondo / di un assiduo pensare accline al mondo, / simile a lampo acceso nel buiore, / mentre mi domandavo quale Musa / salverà l’uomo dalla sua rovina. / “Quale Musa?”, mi disse, “E tu indovina, / ripensando a quel luogo di una chiusa / mia canzone ove dico esattamente / “La Muse qui est la Grâce”: quella sola / che scende fra di noi e poi rivola / nella beata luce trascendente...”. (L’altro giorno alla Verna). “Mi dici che ti dolgono le ossa. / Dunque il bel corpo germogliato vivo / dal seme mio gettato nella dolce / terra carnale dell’amata sposa / si regge su quest’ossa che ti dolgono. / ... / Eppure prego / quell’altro Padre che ad entrambi è padre / di soccorrerti sempre, figlia: e prego / l’angelo che ti veglia di scortarti / col suo lume segreto fino al giorno / della seconda nascita futura.” (Momento paterno). Poesia robusta, di struttura classicheggiante, metri che denotano una spontaneità, frutto di una grande impalcatura culturale; era quello che Vettori amava, quello a cui si sentiva più vicino: l’impiego di un endecasillabo rivisitato, lavorato in corrispondenze e punti fermi a metà del verso, creando finezze metriche quali i ripetuti enjenbements per frangere l’ordine versificatorio; e non scendo nel particolare delle figure, su cui troppo sarebbe da dire. Sapeva schiodare dalle piccole e dalle grandi questioni la stessa cifra poetica, riflesso di una grande penna. Per anni ho lavorato con lui e Luti nel Premio Tanzi di S. Mauro a Signa discutendo sul valore di certi scritti: per ore ci siamo confrontati su quelli che sono gli schemi e i contenuti della poesia. Per lui era sempre chiaro il discorso: poesia concreta, fatta di impegno forte e sorretta da uno spessore stilistico meditato e calcolato pur nella sua spontaneità. Da lui ho imparato a penetrare nei reconditi del linguaggio, e soprattutto ho derivato quella grande carica di umanità senza cui scrivere si fa sostanzialmente routine formale. Forse Vittorio si sarebbe meritato qualcosa di più. Non so da cosa sia dipeso, il fatto sta che la grande portata e del personaggio e della quantità e qualità dei suoi scritti (oltre centoventi le pubblicazioni) lo avrebbero dovuto collocare su un piedistallo ben più elevato  nel panorama letterario nazionale. Quello a cui lui forse nemmeno ambiva. Fra i vari scritti, sue sono le prefazioni a due miei testi: Alla volta di Leucade e Si aggirava nei boschi una fanciulla. Quando decisi di presentargli le bozze della mia Leucade l’andai a trovare nel suo studio di via Delle Ruote 31 a Firenze. Uno studio zeppo di libri, di fogli che traboccavano da ogni parte. Nemmeno ci si girava. Mi fece sedere, si parlò del più e del meno e mi disse: “Intanto diamo un’occhiata veloce”. Sbirciò le pagine in qua e in là, leggicchiò e “Mi piace la forma compatta, misurata, frutto di studio e di pensamento. Ma soprattutto l’attualizzazione di certi argomenti, quali la poesia di poeti arcaici e il mito, quasi una sfida a certa poesia contemporanea”. Io credo che una parte di questa prefazione, in cui parla di sè, della figlia Cristina e soprattutto di un certo pensiero sul rapporto tra pisanità e impero (idea ripresa dal testo di Rudolf Borchardt Solitudine di un Impero, qui citato) contribuisca ad arricchire la conoscenza del personaggio. “ ...Su Pisa, sulla sua multipla poesia e verità di Pisae Pisarum esistono innumerevoli referenze e testimonianze non solo classiche e antiche ma anche moderne e contemporanee. Ma nessuna, credo, né tra le prime né tra le seconde, ha quel valore ultimativo e supremo di “giorno del giudizio” che dobbiam riconoscere al grande libro pisano di Rudolf Borchardt Solitudine di un Impero. Borchardt è stato uno scrittore novecentesco europeo di lingua germanica, goethianamente legato al suo popolo e nello stesso tempo innamorato non meno di Goethe dell’Italia, da lui considerata e rivisitata soprattutto nello specchio imperiale di Pisa, dove le suggestioni drammatiche della scultura di Giovanni Pisano trovano eco e riscontro nella “mirabile visione” di Dante. Si aggiunga il peculiare talento narrativo dello scrittore tedesco, autore tra l’altro di uno straordinario romanzo uscito in anni recenti anche in Italia presso le Edizioni Adelphi e intitolato L’ospite indegno: e si potrà meglio capire come e perché Solitudine di un Impero abbia l’andamento romanzesco di un archetipo labirinto, con tanto di filo d’Arianna internamente innestato nell’aria di una dimensione enigmatica, equivalente praticamente alla reversibilità del bellissimo titolo che potrebbe pertanto essere pronunciato e risolto come “Impero di una solitudine”. Solitudine di un Impero e impero di una solitudine: tale è la realtà bipolare in cui, ho trascorso quasi trent’anni della mia vita (esattamente ventotto, dal 1949 al 1977), abitando prima in Lungarno Mediceo e poi in via Consoli del Mare non lontano da Piazza dei Cavalieri, dove adesso abitano mia figlia Cristina e i miei nipoti Sergio e Lucio impegnati, non diversamente dalla loro mamma e dal loro babbo Massimo Bontempelli, sul duplice fronte del pensiero e della scrittura. ...l’afflato rurale della poesia del Pardini travalica ogni limite di provincia, ricollegandosi in qualche modo, nel segno catartico di quella solitudine che ha in sé la forza catartica della comunione, all’ideologia metafisica dell’Impero. Che, se vogliamo usare il termine “ideologia” nel senso più nobile e puro della parola, è propriamente ideologia pisana per eccellenza, in quanto fa coincidere la perfezione del Cerchio, inteso come curvatura assoluta (oh, la curvatura dolcissima dei Lungarni) nella cui gratificante armonia tutte le differenze si conciliano e si compensano, con la necessità normativa del Centro, rappresentato in Pisa sia dalle spoglie di Arrigo VII custodite in Duomo, che dell’incredibile equidistanza della città tra le altre civiche realtà e tradizioni di Lucca, Livorno e Viareggio, sia dal primato educativo della Normale che dalla primogenitura euro-romantica incarnata “a ripa d’Arno” da Byron e da Leopardi non meno che da Shelley nel suo prossimo rogo tirrenico...”. L’ultimo scritto su una mia silloge non ce l’ha fatta a finirlo Vittorio. Doveva essere una prefazione all’inedito dal titolo Dal lago al fiume. Forse  pensare che abbia portato in cielo una parte di me, contribuisce senz’altro a rafforzare quel legame che in terra, anche se forte, non riesci mai a percepire completamente.           

* Citazione riportata da Vettori come introduzione a una sua poesia dal titolo Momento postumo dalla silloge Ultrasera.                                                                                                                

Nazario Pardini
Settembre 2005