Anna Vincitorio, collaboratrice di Lèucade |
Pierre
Seghers
Le
temps des merveilles – opera poetica – 1938-1978
Edizioni
Seghers
RICERCA
Mi
sono domandato
chi di
me era l’altro
Se era
proprio quello
che
cercava invano se stesso
Che
scavava i muri nudi
al posto
dell’ombra
che
gridava all’eco
per
rendere il suo grido
Ho
cercato, ho battuto
il
terreno più oscuro
Erano
per me soltanto
questi
aridi fiori…
Pierre
Seghers nasce a Parigi il 5 gennaio 1906 e muore a Créteil il 4 novembre 1987.
La sua
infanzia e la giovinezza nella Alta Provenza a Carpentras “dalle rosse colline,
la terra più dolce di tutti i paesi dove ho appreso a leggere, nuotare, amare”.
Infanzia sotto il sole di Provenza che lo segnerà profondamente. I suoi studi
nel collegio di Carpentras come “fuochi d’artificio nella notte”, gli
rivelarono Hugo, Racine, Musset. Il giovane Pierre era il più assiduo della
biblioteca Inquimbertine. Nasciamo con il desiderio di conoscenza e l’amore per la parola. Parola, col suo
mistero, che uno spirito sensibile avverte e insegue per l’intera vita.
La
parola ha potenza e può guidare e trascinare verso lontani orizzonti.
Seghers
in un primo tempo è stato avventizio presso uno studio di notaio, poi si è occupato di ristoranti e alberghi.
Viaggiava molto. Quando si stabilì a Parigi in Piazza Dauphine fu avvolto da
quel “coin de verdure enfoncé dans Paris, triangulaire, provinciale, et
silencieuse…”. Parigi lo entusiasmava, lo inghiottiva prendendolo
interamente. Finalmente vita e poesia. Il giovane Seghers acquistava libri dai bouquinistes
dei quais della Senna. Poi, il servizio militare, il ritorno a Carpentras dove
si sposa nel 1928 con Anne Vernier. Viaggia incessantemente per il suo lavoro
vendendo materiale per bar e Hotels. Nei suoi continui spostamenti, compagna la
lettura. L’anonimato delle sale di attesa era colmato dai versi di Mallarmé,
Laforgue, Whitman, Verlaine e poi Rilke. Il suo cammino si addentra nella
poesia sempre più a fondo smarrendosi come in un labirinto interiore che lo
prende e lo assorbe con i suoi affascinanti segreti. “Ero sdoppiato, la mia
sola zona di calma, di riflessione, il mio pozzo segreto era la poesia”.
Intorno al 1930 conosce a Baux de Provence il tipografo ed editore Louis Jou.
Respirare per la prima volta l’odore dei libri, il suono sotto le dita dei
fogli di carta. L’incontro con la poesia di Omar Khaiam: “una notte
indimenticabile dove la poesia, la vita e Dio erano unità”. Nel 1937 la sua
prima raccolta Buona Speranza. Non trova un editore e decide nel 1938 di
creare una casa editrice. Scoppia la guerra. Lui è soldato di 2ª classe
mobilitato alla caserma Vallongue di Nîmes. La scoperta che nella stessa
caserma 25 anni prima c’era Guillaume Apollinaire, lo segna. È destino; non può
che occuparsi di poesia e precisamente di una rivista di “poeti soldati”. Poètes
casqués.
Molti
scrittori si abbonano per incoraggiarlo. Tra di loro: Max Jacob, Jules Romains,
Gaston Gallimard. La rivista rende omaggio a poeti come Péguy, Alain Fournier,
Apollinaire… Le pubblicazioni sono sottoposte alla censura. Centinaia di libri
di autori ebrei vengono distrutti durante l’occupazione tedesca. La situazione
è deleteria ma l’impegno di Seghers è forte e determinato a far passare con
l’uso della parola poetica l’invito categorico alla Resistenza.
Si
devono mobilitare i poeti soldati: lottare uniti e guardare nella medesima
direzione. Attraverso la poesia servire la Patria. Sviluppare la Rivista Poesia
e con essa tener uniti tutti coloro che vogliono render viva la speranza. Una
lotta con la parola che penetra più di un fucile. I poeti inventeranno una
lingua di evasione ricorrendo alla rima, alle forme delle ballate del Medio
Evo: “alla parola di poesia, il censore si assopisce”. Questa è la Resistenza
dei poeti di Seghers. Con i poemi d’amore eludere la censura. L’esempio più
significativo: Libertà scritto da Paul Éluard nel luglio del 1941.
Durante l’occupazione è viva l’abilità di Seghers. Un po’ come tenere due ferri
al fuoco. Proseguire nel suo lavoro di editore e sottoporre alla censura
tedesca i libri di poesia riuscendo a far passare le opere più sovversive con
un falso visto di censura. Molte sue opere poetiche appaiono sotto falso nome:
Louis Maste, Paul Rutgers, nell’Honneur des Poètes, antologia diretta da Paul
Éluard. La letteratura francese è fortemente vitale e di una violenza inaudita,
durante i primi tre anni della guerra. È Pierre Seghers che ha permesso allo
spirito della Resistenza di soffiare su tutti i “Veli” della poesia.
Inoltre lui ha dato uguale importanza a tutti i poeti sia noti che ignoti della
letteratura contemporanea. Nel 1942 si forma una piccola comunità di musicisti
e poeti tra cui Georges E. Clancier, Louis Borne[1].
Importante una sua relazione tratta da Le temps des merveilles: “Se
la poesia non vi aiuta a vivere fate altra cosa”. Come definire Seghers: …
“Sento intorno a me la vita che muore già trascorsa/ Il mio sangue la leviga
ogni giorno/ Simile a un gioiello nell’alveo della sua conchiglia/ fluente come
il pensiero”… “Ciò che è stato non mi pesa. Invento, immagino/ Intreccio
la notte, il sole/ Rispondo e offro i campi, le api/ la speranza, il giorno che
immagino/ … Fingo di dimenticare l’inizio e la fine/ Non c’è niente di vero da
poter dire”.
Penso
che le sue parole vadano assorbite secondo la sensibilità del lettore.
Aleggia
un infinito mistero legato al poeta che anticipa ma teme allo stesso tempo ciò
che accadrà. Lui non può impedirlo; può però con la parola trasmettere messaggi
chiari come oscuri in tutta la loro potenza e crudezza.
24
agosto 1944 – Due visioni della liberazione di Parigi.
“Bei
fanciulli di pietra e di pioggia/ San Sébastien del la Cité: Crivellati ai muri
dell’altra estate/ per vivere la vostra verità/ voi non siete morti a terra/ Il
vostro sangue non si è affatto gelato/ sulle nostre bandiere si è mescolato/
con la cenere dei visi… voi infiorerete/ L’avvenire con il passato…/
Moltitudine di ragazzi sempre in piedi/ Per battersi, il 25 agosto…”
“Alla
punta delle lance del sole c’è sempre/ un occhio e una mosca/ una mosca di
fuoco che dardeggia sui cadaveri/ tra le ali d’una armata/… L’occhio la vede.
L’occhio dei morti ha strani approcci/ Già il corpo vibra come un pezzo di
carne dal macellaio/ Crepitano colpi di fuoco, ci sono sementi che esplodono/ E
sotto le dita degli uomini altre mosche con all’estremità/ punte di acciaio…/
Ho visto rotolare nel ruscello coloro che ci aiutavano con i fuochi/ …Le teste
completamente rosse, questa tintura era del sangue/ Nero nelle uniformi e sul
sentiero si effondeva…/ Sulle barelle, dalla testa ai piedi i soldati morti./
Nelle vetrine ci saranno reggiseni tricolori. Adesso la mosca del sole trascina
le zampe nel vischio”.
Nella
prima poesia la tenerezza e lo strazio dei fanciulli crivellati ai muri e il sangue
che cola dalle bandiere. Visi di cenere. Tutta l’angoscia per vite perdute al
loro aprirsi, ma anche una speranza perché questi fanciulli sono i fiori in
boccio per una vittoria e una vita futura che vincerà sulla morte. Nella
seconda poesia c’è crudezza e una visione surrealista: una mosca di fuoco che
dardeggia. Siamo come circondati da visioni orride e queste mosche, simboliche,
incombenti, che hanno all’estremità punte di acciaio. Il nemico è visto nella
sua miseria ma uccide. La mosca verrà schiacciata ma solo dopo il sacrificio
dei soldati morti per la libertà. Ironia finale, i reggiseni tricolori nelle
vetrine.
La
poesia di Seghers non è facile da assimilare. I contenuti trascendono le immagini.
Per comprenderlo bisogna sentirsi patrioti e partecipi di una ricerca che
viaggia nel tempo.
“Stagioni
in un volto dove scorre la vita nella sua follia?/ Stagioni in un viso… Nell’inverno
dovrà donare al vento la sua cappa consunta…/” E come non pensare al
passato?… “tempo trascorso nelle nuvole/ di amici morti o come se lo
fossero…”. E ancora: “A che giova essere/ dovunque tu possa andare/
voler rivedere ogni foglia morta appassire?…”. La morte nell’uomo, ma non
meno triste di quella della foglia nell’autunno che simboleggia l’imminenza
della fine. Può aiutare la preghiera: “Noi che viviamo con parole profonde/
che mutano di colore/ dal nero al rosso,/ dal verde al viola/ … Noi maghi con
le nostre palle di cristallo/ …ci volgiamo al cielo ma in questa vita che
fugge, quale certezza?/ Lasciateci essere, lasciateci essere il segno più puro”.
Devo
dire che alcune immagini surreali di Seghers mi affascinano come ad esempio in Epifania,
l’inizio: “Quadrighe di cavalli/ protesi verso il sole/ sotto la nera
matassa/ del sonno verso il sonno…”. A mio modesto avviso la poesia va
ascoltata e, percepirne il suono, è più importante della sua piena
comprensione. Siamo di fronte a un ignoto che ci trascina in una veglia senza
fine. Però il poeta trasmette anche speranza attraverso i doni della terra: “Quando
noi rivedremo il grano battuto/ dalle mani dell’uomo/ quando vedremo brillare
le tagliole nel sole/ quando i tre cavalli del futuro/ si proietteranno
sull’area tersa/ allora noi accenderemo dei fuochi/ di collina in collina/
fuochi in ricordo del pane impastato/ di notte dei nostri fratelli/…” Cosa
però resta del nostro sentire? “Coloro che contano i loro giorni ogni
giorno/ sulle loro dita/ Sono questi che prediligono il silenzio”. Rimane
regina la parola quando è ben usata. E la parola del poeta, nella sua
autenticità, accompagna e può anche fugare la paura. Seghers continua ad essere
molto attivo; anche dopo la fine della guerra scrive e pubblica canzoni.
Nel
1955 con Gérard Philippe registra delle poesie di Paul Éluard e dice: “La
canzone, io credo, è più naturalmente densa. È una attività dell’uomo più
direttamente sensuale dove la parola, il canto, il movimento sono intimamente
legati…” Unica linfa unisce poesia e canzone nel medesimo afflato. Tra i
cantanti si ricordano Charles Aznavour, Guy Béart, Mouloudji e la canzone Voyou
et la voyelle cantata da Juliette Greco. La vita di Seghers è un cammino
ininterrotto verso varie mete: pittori, fotografi, editori, poeti, cantanti. In
questo cammino la sua cordiale apertura e modestia. Ho avuto con lui una
corrispondenza cordiale negli anni ‘80 che avrebbe dovuto concretizzarsi con
mie traduzioni sulla sua poesia, interrotte dalla morte per cancro nel 1987 a
Créteil.
Non
posso che ricordarlo con stima e affinità devota attraverso alcuni suoi versi:
“Il silenzio dei mari che cullava i navigli/ Ha conosciuto i pesci volanti,/ E le mani che rubavano inutili parole/ facevano sibilare il vento… Il presente sprofondava nel fango delle acque residue./ Niente accadeva, l’acqua imputridiva, l’alba e la sera si erano legate alla notte polare… Si gettava il letame nei campi/ Non cresceva niente. Ma dei grandi stormi a forma di triangolo/ fendevano il cielo.
Anna Vincitorio
12 aprile 2021
Agosto ‘41 (pag. 23)
E fu l’estate sotto il segno
della carogna
La croce del Nord si vestiva
di gelido sangue
Il grano puzzava di cadavere
mal nutrito
Il polo celeste era affollato
Là in basso la Polonia moriva
Là in fondo s’impiccavano i
falsi medium
che leggevano il futuro nelle
interiora
dei buoi squarciati. I pesci
si sfilavano tra le maglie
nelle città blu sangue. Era
come
un grande sputo. L’uomo è un
polpo di terra
che fa scoppiare la sua sacca
di notte
al momento di combattere
Si viveva là
come tempo del pan secco;
si viveva là
cuciti nel mistero,
i corpi non venivano resi. Chi
se ne andava
era crivellato di dodici
proiettili
e gridava come un banditore al
mercato.
Il giorno più duro che possa
seguire alla notte.
Era estate, farina per i
mulini del silenzio
La bella estate, cane dal sangue
coperto di zecche
La calandra nel marmo
dell’Attico
la radio irta dei ferri delle
lance
La linfa, vomito che sale fino
agli alberi;
il ventre santo delle maree
colmo di marmitte
L’Estate, buon Dio, la calce
viva come semenza
Buon lavoro
e se falliamo si ricomincia.
Poeta
– pag. 54
Mi piego al mostro dei segreti
senza alcun cedimento
Fino all’estremo esistere e all’udire;
Mi lego al mio tempo che scorre tra le dita
Come un braccialetto d’oro e d’ambra.
Sento intorno a me la vita che
muore già trascorsa
Il mio
sangue la leviga ogni giorno
Simile a un gioiello
nell’alveo della sua conchiglia
fluente come il pensiero.
Ciò che è stato non mi pesa.
Invento, immagino
Intreccio la notte, il sole
Rispondo e offro i campi e le
api
La speranza, il giorno che immagino
Sui miei carri la vela culla
le sue navi
Di fieno, di mari, di profumi
Fingo di dimenticare l’inizio
e la fine
Non c’è niente di vero da poter dire.
Il
pane bianco (pag. 24)
Quando noi rivedremo il grano
battuto
dalle mani dell’uomo
quando vedremo brillare le
tagliole nel sole
quando i tre cavalli del
futuro
si proietteranno sull’aria
tersa
allora noi accenderemo dei
fuochi
di collina in collina
fuochi in ricordo del pane
impastato
di notte e dei nostri fratelli
In quel tempo d’estate dei
martirii
avevano gettato in aria le
loro braccia
spezzate, duri flagelli del
futuro.
Battuti fino a morire, il
chicco, la paglia,
e la speranza restava vitale;
il loro sangue
colava a picco come il sole.
Nei campi e nelle strade verrà
il tempo del chicco senza macchia
e il seminatore riderà; nella
sua mano destra
stringe al petto il grano
Sorriderà il falciatore che fa
roteare le zolle.
Anche Dio sorriderà se lo
vuole,
Compagni, ecco giunta la
grande muta
e la nostra terra cambia la
sua pelle.
Compagni abbracciate il suo
ventre e la farina
Intrecciate le vostre mani, è
giunta l’ora
Lei scioglie la sua
capigliatura
irrorata di sole
Lei è più forte e vera della
morte
lei parte con noi colma del
pane
del mondo
Parte con i suoi grandi mugnai
tutti bianchi
Lei ci porta con sé e questa è
la vita
a grandezza d’uomo
Ci guida nel cammino dritto
già tracciato
Ci anima ed è l’incedere dei
mondi
che entra in noi (ci penetra)
e noi parliamo con la sua voce
Compagni il sangue si scrosta,
fa seme
Non è più tempo di alcuni ma è
giunto per tutti
Il tempo incommensurabile del
pane bianco.
Di una
casa – pag. 49
Una casa dove io vago nella
solitudine
gridando un nome che il
silenzio e i muri mi rimandano indietro,
Una casa che non conosco che
penetra nella mia voce
e che abita il vento.
Io l’invento, le mie mani
disegnano una nuvola
Una barca di cielo immenso, al
di sopra le foreste
Una nebbia che si dissipa e
scompare
come un gioco d’immagini
Quella che abbandoniamo e che
rimane in piedi, la barca
La casa, ciò che fugge e che
insieme ameremmo
Ci vorrebbe una voce più forte
e l’incenso
Blu del cuore e delle parole
Brucerebbe là per divinità
diverse dall’immaginario
Ma le finestre sono cieche e
le porte murate
e la vita del mondo è estirpata
dove la terra imputridisce
Quando la notte degli echi
costruisce su delle spugne
Un dedalo di parole dove Teseo
si perderà
Una casa senza muri, senza
muri simile a un topo
Per vivere nei sogni…
Traduzione
di Anna Vincitorio
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