D. Starnone- Spavento. Ed. Einaudi, 2009
M. Grazia Ferraris, collaboratrice di Lèucade |
Il
tema del romanzo Spavento, che fin dal titolo pone l'accento sulla paura
provocata dalla visita inattesa nella nostra storia personale della malattia e
della morte è appunto quello della
morte. Una lettura che ben si adatta a
questi nostri tempi di pandemia. Ma la paura di morire che è un tema storico,
può diventare vero oggetto di racconto, un tema letterario, e mai ce ne siamo
accorti, patendolo, come in questi nostri tempi infelici.
La letteratura occidentale dell'Otto-Novecento
ha nondimeno individuato nella morte e nella malattia i suoi temi forse più
frequentati : basti pensare a La morte di Ivan Il'ič di Lev
Tolstoj, La montagna incantata di
Thomas Mann, L'animale morente di
Philip Roth, al racconto di Moravia Inverno di malato…, ma gli esempi,
più o meno alti, sarebbero infiniti. Sulla terza età poi, che ci avvicina alla
morte, s'è detto tanto.
Scriveva
Simone De Beauvoir nel suo La terza età (Einaudi) : “La vecchiaia resta
un segreto vergognoso, un soggetto proibito. È proprio il motivo che mi ha
indotto a scrivere queste pagine. Ho voluto descrivere la condizione di questi
paria e il loro modo di vivere, ho voluto fare ascoltare la loro voce: saremo
costretti a riconoscere che si tratta di una voce umana. Si comprenderà allora
che la sorte infelice loro riservata denuncia il fallimento dell'intero nostro
sistema sociale: é impossibile conciliarla con la morale umanista professata
dalle classi egemoni... Ecco perché bisogna rompere una congiura del silenzio.
Chiedo ai lettori di aiutarmi in questa battaglia”.
Ci
prova anche Domenico Starnone,
giornalista e scrittore, noto come insegnante nella scuola media superiore ( si è occupato
di didattica dell'italiano e della storia, Fonti orali e didattica,
1983, e come scrittore di Ex cattedra e altre storie di scuola,
pubblicato alla fine degli anni ottanta, e Solo se interrogato, Appunti sulla maleducazione di un
insegnante volenteroso….
Scrive
nel 2009 per Einaudi questo romanzo colto, certo faticoso, per certi aspetti
noioso, ridondante, ostico, che affronta nondimeno temi veri, scabrosi e messi
in genere tra parentesi, forse poco allettanti per un pubblico giovanile.
Infatti non penso proprio che i giovani lettori andranno oltre le prime pagine.
Domenico
Starnone sceglie di osservare la malattia e la vecchiaia con verità ed ironia,
firmando un romanzo profondo e contemporaneo, in cui è nondimeno facile
riconoscere uno dei tabù della nostra epoca, il senso comune e rimosso della precarietà della vita. Una precarietà
che Starnone racconta con un gioco di specchi, intersecando la storia e le
paure di Pietro Tosca, una creatura letteraria, il protagonista del suo
progettato romanzo Morte allegra, con l'esperienza reale autobiografica
del suo creatore, lui stesso, colpito all'improvviso da un male che lo
costringe al ricovero in ospedale.
Il
protagonista, lo scrittore che inventa la storia, l’uomo che è al centro di
quella storia, Pietro Tosca, sceneggiatore sessantanovenne, sente che “sta cominciando la vecchiaia vera”
e forse qualcosa di peggio…. “Lo avverte dalla «sindrome del corpo sfiduciato»,
e poi da un segno che ha la forza di una rivelazione: qualche goccia di sangue
nell’urina. Mentre intorno a lui la vita scalcia, soprattutto nella piccola
cerchia dei giovani pronti a rubarsi le idee a vicenda, a imporsi nel mondo con
un’autentica e inguardabile furia di vita, Tosca forse sta per morire. E
all’idea della morte reagisce inventandosi una strategia di elusione...”
Tosca
sembra rifiutarsi di prendere contromisure di fronte ai sintomi, tanto che
quando, cedendo alle premurose insistenze della moglie, effettua finalmente le
opportune analisi, scappa dalla clinica senza nemmeno attendere di conoscerne
l'esito. E la sua carriera, al pari della sua salute, sembra essere minacciata
dall'arrivismo di due giovani, Ornella e Gianfranco, che, per migliorare le
proprie rispettive posizioni, cercano in qualche modo di servirsi di lui, se non addirittura di sostituirsi a lui.
Sdraiato
nel suo letto di ospedale continua a scrivere, e più scrive …più sanguina.
Scrivere
è il suo lavoro, lo è sempre stato. Le parole però ora cominciano a vivere di
vita autonoma, a sembrargli “lo strumentario di un gioco infantile, veramente
stupido se a giocarlo è un uomo di 56 anni che in quel momento sta perdendo
sangue”.
Una
riflessione sconsolata lo induce a stabilire una relazione tra il mondo della
salute fisica, della giovinezza piena di illusioni, e la vita della scrittura,
a pensare con malinconia “….che dire
della superbia di scrivere, di voler essere letto come un oracolo. A guardare lì, sul comodino le pagine della Morte allegra. Mi sembrò che la
priorità assoluta che aveva imposto il sigillo alla mia esistenza fosse venuta
definitivamente meno. Era stato uno stupido inganno credere di avere un
dentro da riversare per tutta la
vita su fogli bianchi, in forma di ghirigori di nero inchiostro. Tutto ciò che
contava, dentro, era il buon funzionamento degli organi interni. Tanta
fatica per dare funzionamento degli organi interni. Tanta fatica per dare una
forma alla volatile esperienza, dargliela in modo che il prima caotico,
una volta ordinato sulla pagina, contenesse miracolosamente anche un poco del dopo,
l’infinito radioso futuro, e perciò durasse. Un’ottusa presunzione.”
La
scrittura, da malato, diventa una operazione di rassicurazione consolatoria di
cui è consapevole. “ …scrivevo pomeriggio lento. Scrivevo corridoi vuoti, verdi
e gialli. Scrivevo ponte all’aperto sul cortile squallido. Scrivevo una ragazza
nera mormora in inglese parole al telefono e piange. Scrivevo vento entra dalle
finestre spalancate, si rischia la polmonite, per sfuggire a questo orrore…e
nel farlo mi pareva di calmarmi.”
Presto
il vero centro del libro diventa quel male reale, con le sue rituali, prosaiche
necessità: l’ospedale, le analisi, le ecografie, le visite specialistiche, i
consulti medici, l’assistenza infermieristica…
E da Tosca l’attenzione si sposta sul vicino
di letto: un vecchio ingegnere silenzioso che giorno dopo giorno acquista nella
coabitazione forzata sempre più spazio, amicizia solidale: a chi altro
raccontare storie bellissime e dettagli insignificanti, a chi altro leggere
pagine indimenticabili di Tolstoj, se non a lui? "Eravamo diventati
sodali, vale a dire associati nella religione della sofferenza, nello scontro
con la mala sorte".
«Ci
vuole più verità» e quell’uomo, con una singola sgangherata parola o con un
gesto davvero inaspettato, riesce di schianto a gettar luce su ogni cosa.
Questa
storia è però, in realtà, un libro nel libro, dato che in Spavento le
vicende di Tosca si intrecciano con quelle di Starnone stesso, che si racconta
in pagine dall'evidente timbro autobiografico. La mise en abyme narrativa è una
tecnica vecchissima che risale agli esordi stessi del romanzo, ma il modo in
cui Starnone la applica è certamente singolare, originale per la compenetrazione delle due storie che si
incrociano e si sovrappongono di continuo, si confondono, come se fossero
legate da un filo invisibile ma resistentissimo.
L'esperienza
ospedaliera modificherà e segnerà profondamente anche l'evolversi della Morte
allegra, tant'è che a Tosca l'autore attribuirà alcune caratteristiche
dell'ingegnere con cui aveva condiviso la stanza d'ospedale. Cerca cioè nella realtà, attraverso un
continuo gioco di scambi, i fili di un possibile sviluppo per il suo racconto
rimasto interrotto.
Ma il
vizio della letteratura è sopraffatto dal pensiero della propria morte,
tutt’altro che "allegra", dal modo in cui mettersi alla prova. Le
domande che si pone sono quelle tradizionali. Bisogna aggrapparsi agli affetti
o piuttosto strapparsene per non far soffrire le persone care? Bisogna
vergognarsi dei propri errori, coltivare un’immagine scostante di sé per
accettare più facilmente la fine? Riconoscere di essere stato fortunato per
essere vissuto felicemente per tanti anni? Nessuno di questi interrogativi
offre consolazione; non giova neppure il
ricorrente contenzioso con Dio, neanche la potente suggestione esercitata dal
racconto tolstoiano, dallaMorte di Ivan Ilic.
In
fondo al buio tunnel non si annuncia una luce salvifica ma "un baluginìo
di stupore e indignazione".
Lo
scrittore malato riuscirà a mettere una pezza alla salute compromessa, sarà
dimesso dall’ospedale.
Anni
dopo, riordinando gli appunti, si prova a concludere la storia di Pietro Tosca.
Difficile conclusione, come se il personaggio gli fosse diventato estraneo, ostile,
sconosciuto.
Il
personaggio continua infatti a eludere le cure prescritte, cerca conforto nei
ricordi della esuberante adolescenza napoletana e si appresta a una "festa
della fine", concedendosi una difficoltosa esuberante, esagerata, inutile
trasgressione a base di cibo e di sesso.
Condotta
all’insegna del vitalismo, la festa si rivela funebre e conduce a una disperata
allegria: "Via, quante storie: ce la fanno tutti, ce l’hanno sempre fatta
tutti, ce la farò anch’io a morire".
“Era
bello quell’avvitarsi intorno al nulla di ipotesi contraddittorie, tra
benessere e malessere. Io è questo, infine, pensai con piacere, un turbinio di
incoerenze che elabora tecniche per fingere coesione.” Non sappiamo se
l’esorcismo della pagina scritta valga anche per l’esistenza del suo autore, se
dopo tante proteste in contrario egli si pieghi all’accettazione della sorte
comune. Infatti non sentiremo più la sua voce.
Il
libro di Starnone cattura quando
racconta le vicende intrecciate e parallele del protagonista e del suo eroe, ma lascia perplessi nel finale.
Come se Starnone, al pari del suo alter ego scrittore, avesse consegnato
a un artificio letterario il compito di sbrogliare la matassa, e concludere, confessando
la sua stanchezza dibattere alla porta dell’ineluttabile.
Chiude: “Lasciai sul tavolo cinquemila lire, il cellulare e salii sul primo autobus che andava il più lontano possibile dalle diagnosi, dalle terapie, da casa.”
Maria
Grazia Ferraris, maggio 2021
Mi è scomparso tutto quello che ho scritto... e riprendere il filo non è facile, ma la tua esegesi di un romanzo mi ha colpita in modo particolare, carissima Maria Grazia. Credo che nel tuo lungo percorso di studiosa ti sarai confrontata in molte occasioni con la narrativa, ma io leggo per la prima volta la tua esegesi di un testo, che tratta tematiche così attuali e complesse: la malattia e la morte. Innanzitutto metti in luce quanto possa verificarsi nella scrittura in prosa uno sdoppiamento tra lo scrittore e il personaggio. Quest'ultimo, una volta creato, esige vita propria, diventa padrone della storia e chiede tempo, risarcimento del perduto... L'autobiografia si verifica quindi quasi al contrario. Il protagonista del volume tiene in scacco con l'ironia, la rabbia, il dolore, l'esistenza dello Scrittore, che senza ombra di dubbio, ha riversato le sue ansie e la sua volontà di esorcizzare il male sulla vita di Pietro Tosca. La tua pagina permette ai personaggi di vivere e di trasmettere
RispondiEliminamessaggi che in un periodo come questo sono aghi nell'anima, per coloro che l'anima la conservano... Grazie amica mia. Splendi come Sirio. Ti stringo forte al cuore con affetto antico.
Ringrazio come sempre Nazario per l'ospitalità sollecita su Leucade e ringrazio Maria Rizzi sempre così attenta e generosa nella sua lettura empatica:in questo tempo di pandemia e solitudine leggo anche autori che a suo tempo ho trascurato. Scopro così contributi notevoli, anche se non rassicuranti, come nel caso di D. Starnone, il cui titolo-Spavento- dice molto dello stato d’animo che la maggioranza di noi vive.Non si è mai finito di leggere, di capire e ...di invecchiare. Grazie amica mia da lungo tempo.
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