sabato 23 gennaio 2021

MARIO SANTORO LEGGE: "CROMIE" DI VINCENZA ARMINO


Voci, suoni, profumi e “Cromie”

nella poesia di Vincenza Armino

 

La poesia è sempre un “oltre più oltre”, un dentro più dentro, uno scavo interiore continuo, una pluralità di significanti evidenti o allusi e, nel caso della poetessa Vincenza Armino, si impreziosisce di presenze apparentemente invisibili che, via via, affiorano ed emergono dal nulla o quasi, risultando come incorporee nei movimenti agili e leggeri, nelle cromie continue e ricorrenti, come indica il titolo del volume, con tratti, all’improvviso, luminosi, sfumature lievi o marcate, scialbamenti di colori, tinte diversificate, nel disegno di trame, talora fitte, altre volte volutamente lasche e di ragnatele bel costruite e perfette.

E così il mondo poetico dell’autrice appare certamente vivo eppure, al tempo stesso, come impalpabile, fatto di accenni, di spunti, di delicate indicazioni, di fughe indefinite, di colloqui ridotti al minimo, di origliamenti senza cattive intenzioni, di bisbigli, di pigolii, di suoni ovattati, di parole sospese, di lontananze remote se non primigenie.

Emergono situazioni tutte da scoprire, condite di varianti di colore in atmosfere particolari con accenni a danze veloci e a morbide carole, nel ricorso alla voce che risulta forte, ma dentro, e ancora di tutto e di niente, di sfioramenti e di tocchi leggeri: Danzavano. / Erano carezze di luce, / scarabocchi di pensiero, / contatti, / abbracci, / ragnatele invisibili. / Legami”. Non ci sono rumori, né suoni, ma tutto ordinatamente sembra accadere nel silenzio che domina ogni cosa con intorno il velo della malinconia che si scioglie / in un bagno / di campiture / vivaci”.

La poesia, nel richiamo alla sinteticità, va ben oltre la brevitas e nella Armino si fa sovente frammento, momento, attimo, quasi flash da cogliere a volo nella scelta ponderata del risparmio delle parole e del ricorso a quelle estremamente significative, (col rischio anche della difficoltà di decodificazione), o illuminanti e capaci di consegnare al lettore situazioni fortemente aggrumanti. Vale per il minuzzolo di tempo / in soliloquio”, ma anche per Un solitario origliare, per Nenie e / bianche giunchiglie”, come per Debordante altalena” e per dolci deliri”. Insomma i versi sembrano consegnarsi nudi al lettore che, a suo piacimento potrà vestirli e coprirli di ornamenti possibili.

E del resto è l’autrice stessa, a dichiarare, apertamente e con sicurezza, che in molte circostanze le parole risultano superflue e non servono e che certi dettagli possono indicare, suggerire, argomentare, più e meglio delle stesse. E così in “Manca poco” si può leggere: Danzano bolle di sapone. // Nebbia. // Grilli. // Bianche finestre. // Giardini assiepati. // Ventole a tagliare / l’aria ferma, // Non servono parole”.

Si tratta di tante accennate situazioni che sottendono condizioni di attese, momenti di incanti, discorsi ininterrotti, pensieri e ragionamenti diversi. Lo dice anche il distanziamento voluto e marcato dallo spazio bianco che invita alla meditazione, alla riflessione, al recupero di suggestioni, di sensazioni, di emozioni, di tensioni, attraverso un filo sottilissimo e quasi invisibile che prende l’avvio dal cuore “chiuso in un gemito / sommesso.

Il gioco intelligente e vigile di parole accoppiate con sottinteso il verbo, salvo in qualche situazione, quasi a contrassegnare accadimenti isolati, vicini o lontani nello spazio e nel tempo non importa, viene preferito in quasi tutte le situazioni. E così sfilano elementi di ricerca spirituale, alchimie profonde, incanti momentanei, quasi leggeri “aliti di vita”, lontananze che la memoria riporta in vita faticosamente, desiderio di cose perdute, iterazioni contrastive tra la concretezza di “solide gambe e / mani rugose” e crepuscoli a sfumare con tanto di evanescenza, e “corvi neri e notti stellate”, o “Linea d’ombra / tra il grano / e il cielo”.

Altrove la poesia sembra tendere alla massima, alla sentenziosa direttività dell’affermazione, senza essere necessariamente categorica: “Lì dove il sol / non filtra / e c’è lo strame / polvere giunge e / impalpabile posa”. E non manca, certamente intenzionale, qua e là il ricorso a figure stilistiche come l’allitterazione; valga l’esempio nella poesia “La meraviglia percorre”, con la triade bacche, bocche, baci.

E quindi l’autrice mostra di tendere alla rievocazione del passato e del tempo trascorso con il ricorso voluto all’ imperfetto: “Il tempo era / un passo di danza / a piedi nudi” (“La sera”).

Lo stesso accade in “Ritorno di fiamma”: “Risuonava come / un aforisma / una massima, / una battuta, / un monosillabo / un colpo di gong”.

E non sembra esserci rimpianto in tutto questo, e se c’è resta celato, ma piuttosto testimonia il senso dell’ineluttabilità dello scorrere del tempo: “Prendevo tempo. / Quel tempo che / non c’era. // Un tempo che / pressava, / scottava”. Un tempo che, senza fermarsi un solo attimo, “aspettava, / un altro tempo”. Poco per volta la poesia tende a distendersi, a farsi meno chiusa e più discorsiva. Ci sono rimandi stagionali con sottolineature di colori e con odori non detti: “Bacche rosse / su rami spogli, / fusti di cornioli / e salici / carminio, porpora...”. Staccano le tinte accese sul “paesaggio smorto / creando sorprese / sotto la coltre bigia”. Anche il mare con il suo speciale respiro è raccontato nel suo andirivieni delle onde contro la riva: “Carezzan le sponde / quasi un singulto / un battito / un fremito”.

Altrove, con il suo profumo penetrante, le sue onde, impazzite a sbattere contro gli scogli, esprimono sensazioni e palpiti: “Una brezza fievole, / quasi invisibile” e forse anche “il pensiero / di un amore”.

E torna ad imporsi il silenzio carico di rievocazioni: “Il silenzio improvviso e, / un brusio sommesso / poi, un berciare e / l’urgenza di / un altro tempo / dentro il tempo / già quasi del tutto / consumato”. E ancora il silenzio nell’azzurro profondo tra cielo e mare a dominare sulle spiagge deserte e senza vita, con il volo dei gabbiani indisturbati: “L’azzurro, / il silenzio, / i ruttini delle onde / sulla sabbia, / tutto torna. / Ritorna”. Ed è proprio il rimando al passato che non torna e al tempo, con le azioni che consente, ad intrigare: “Non so perché il tempo / m’intriga, mi avvolge. / Lo cerco, lo temo / lo guardo. / Non vedo / eppure ritorna. / C’è tempo o / sei tempo che scalcia, / che fugge lontano...”.

E ci piace chiudere con “Il rumore del tempo” che resta sempre il grande tessitore: “Si aggrappava a nomi / voci, ricordi. / li cuciva, / senza accorgersi / dei rattoppi, / come / un’unica tela. / Non c’erano confini / né fini. / Tutto si articolava / per sovrapposizioni”.

Mario Santoro

Vincenza Armino è nata a Melicuccà (RC) nel 1950 e vive a Polistena (RC). Insegnante di materie letterarie in pensione, ha pubblicato le raccolte di poesie: Pentagramma (2007), A piedi nudi, nell’anima (2009), Percezioni-Ricordi (2010), All’ombra di un respiro (2011), Messaggi sussurrati (2013), Poca voce (2013), Quando (2014, in Alcyone2000. Quaderni di poesia e di studi letterari), La strada (2015), Le dimore informali (2016), Come faville (2020), Spiragli (2020), Cromie (2020) e il libro in prosa: Massime, pensieri, riflessioni (2017). L’attività letteraria di Vincenza Armino è trattata nel quarto volume dell’opera Storia della Letteratura Italiana. Dal secondo Novecento ai giorni nostri, Guido Miano Editore, terza edizione, 2020.

 

 

Vincenza Armino, CROMIE, prefazioni di Enzo Concardi e Nazario Pardini, Guido Miano Editore, Milano 2020, pp. 104, isbn 978-88-31497-36-7.

 

1 commento:

  1. Mi congratulo di cuore per questa lettura critica svolta con i cinque sensi della sublime Silloge della Professoressa Armino, che ho avuto modo di leggere e apprezzare. Il recensore ne coglie gli aspetti salienti, l'arte del frammento, del flash, e il rapporto con il silenzio e con la gamma di emozioni con profonda sensibilità. Ovviamente estendo il mio plauso alla Poetessa, dotata di carisma e di rara originalità. Li saluto caramente entrambi.

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