venerdì 8 gennaio 2021

IN RICORDO DEll'AMICO UMBETRO CERIO

Umberto Cerio,
collaboratore  di Lèucade


Pasquale Balestriere su  IL POETA NON MUORE di  UMBERTO CERIO

 

Pasquale Balestriere,
collaboratore di Lèucade





RICORDO DI UMBERTO CERIO

di Pasquale Balestriere

                                                                 Prefazione

 

Cominciare la lettura di un libro  significa dare inizio ad un’avventura  che coinvolge mente e spirito, intelligenza e fantasia. Se poi si tratta di un’opera di poesia, l’avventura diventa totale per la stessa natura dell’arte poetica e dello strumento comunicativo che la incarna e la sostiene, e cioè del linguaggio, che ha capacità e facoltà di rompere steccati, moltiplicare significati,  superare  limiti e  regole che ingabbiano altri tipi di scrittura.  E tutto questo per dar vita a passioni ed emozioni, per ridurre in versi quel mondo interiore  di fervente fluidità che è la vera sostanza della poesia e dei suoi interpreti.  Ecco, chi legge i poemetti di Umberto Cerio, contenuti nella presente silloge, si trova come per incanto ad esplorare la vita, a stupirsi della sua varietà e molteplicità,ma anche a prender nota di costanti o invarianti, di analogie e di ricorsi; e soprattutto a infrangerne le barriere, spaziali e temporali, perché  qui i voli sono veramente pindarici se è vero che le ricorrenti oscillazioni tra  la contemporaneità  e l’ambito mitologico sono  una delle caratteristiche più significative della tecnica poetica dello scrittore  molisano.

Induce alla meditazione la poesia di Umberto Cerio accampata in questo volume e ben distribuita nei vari poemetti. Tesse giochi di rimbalzi  tra  vita e mito, tra realtà e fantasia,  verità e finzione poetica, stabilendo connessioni e agganci, venati di suggestioni analogiche e allusive.  Qui la vita si fa mito e il mito si effonde nella vita ( “Non è leggenda antica, /ma è mito, è vita vera, non favola / che si dissolve in gioia ...”  Medea,3,3-5), sicché non è chiara la linea di demarcazione tra l’una e l’altro -se pure c’è-;  che anzi  i personaggi mitici e mitologici vivono una sofferta temporaneità, patiscono la loro condizione di viventi stretti nella gabbia dell’esistenza che, per i suoi stessi limiti, genera conflittualità e situazioni di dolore.

Se il Nostro ama il mito al punto da portarselo nel cuore, ove felicemente dimora, ciò accade perché egli lo sa elemento fondante  della vita, a questa necessario come elemento di crescita e di realizzazione di quegli ideali ai quali ogni essere intelligente e  pensante non può fare a meno di ispirarsi. Così nei suoi versi il termine greco mythos esprime  i significati e le sfumature che, nell’ottica che ci interessa, lo connotano,  e segnatamente quelli di  mito, storia, narrazione, favola, leggenda, racconto fantastico; sicché, per questo riguardo, potrebbe sembrare  che il mito antico abbia nella poesia di Cerio un ruolo paradigmatico, esemplare. Non è proprio così.   Il mito antico assume  talvolta  la funzione di provocare il momento creativo o di essere cassa di risonanza di sofferti traumi moderni, rivelando al poeta l’immutabilità della condizione umana, e soprattutto quelle costanti che accomunano sorte, atteggiamento e comportamento dell’uomo di oggi a quella di individui vissuti millenni prima. Tuttavia non è scontato che l’impulso a scrivere venga  dal mondo antico, mitico e mitologico; che anzi, i miti s’inverano nel vorticoso pulsare della vita di ogni tempo; e spesso è la durezza della vita di oggi a dettare al nostro poeta un canto ora ribelle ora rassegnato; sono i drammi esistenziali dell’uomo contemporaneo che lo spingono a cercare relazioni  e confronti con l’antichità mitica ed eroica. Per lui il mito abita, indifferentemente, nel passato e nel presente, vive  -in situazione di latenza-  in tutti gli uomini. Potenzialmente tutti possono incarnare un mito. In realtà solo chi ha consapevolezza di sé ne può attivare la vita, in un processo di affinamento culturale e morale, in un perseverato tentativo di migliorare se stesso e la società di cui fa parte. Così il mito, dipartendosi dalla quotidianità, diventa archetipo della condizione umana non di ieri o di oggi, ma di sempre.

Certo è che la poesia di Cerio, così densa di humanitas, cerca risposte per giungere alla radice delle cose, risalendo a ritroso lungo i canali della vita per attingerne la non sempre chiara verità, o forse addirittura il mistero; sicché per questo i personaggi specialmente femminili si colorano di una complessa psicologia, svelano al lettore i meandri dell’anima, gli impulsi e i sussulti di un cuore angosciato, perché quasi sempre dilaniato da opposti affetti,  o che pulsa ingabbiato tra sentimento e dovere, tra scelta e necessità; e si dispiegano nella loro tragica bellezza, nella loro polivalente sensibilità. Prendiamo Alcesti, per esempio: paradigma di amore totale che supera i confini della vita, si offre alla morte in luogo del marito, dandosi all’immortalità della poesia e relegando, pur senza volerlo, il personaggio del consorte a una figurina gretta, egoista, ambigua; o Arianna, protagonista di una vicenda d’amore disilluso, cioè  sperato, desiderato, promesso, mai veramente realizzato per essere stata abbandonata da Teseo; o di Euridice, di Antigone,  di Medea.

Va detto però che il ricorso al mito classico,  utile  anche sotto il profilo allusivo, è giustificato dal fatto che Cerio individua in quello i precedenti di ogni singola azione umana: come capita nel caso delle Medee attuali che sacrificano gli affetti sull’altare di una vendetta, di un’opinione o di un convincimento ; o di  una Arianna d’oggi che, “abbandonata” involontariamente dal suo uomo perito in un incidente automobilistico, tiene in una condizione di sospensione e di dubbio doloroso -con un autentico ribaltamento di ruoli rispetto al mito antico- uno “spirito amante” di sesso maschile che attende da lei la risposta decisiva; o di una Antigone dei nostri tempi così involontariamente simile a quella mitologica fin quasi alla specularità ( “Anche tu, anche tu, Antigone d’oggi / che non credi nell’Ade / che triste andrai nella terra dei morti /...). È il caso di notare come il poeta, in linea con il suo ruolo,  segua anche interpretazioni diverse da quelle ufficiali o introduca elementi di novità. Così capita in “Euridice” dove egli, seguendo l’interpretazione di Robert Browning,  prende le distanze dalla vulgata e sostiene che fu la ninfa a volere che Orfeo si voltasse, chiamandolo e consegnandosi così definitivamente al regno dei morti. Non meno evidente è la carica emotiva che i personaggi maschili sprigionano nel lettore rendendosi così assolutamente singolari, anzi irripetibili e tuttavia restando incredibilmente umani e sofferti. E tra i suoi personaggi fa capolino anche lui, il poeta, attraverso spunti autobiografici diffusi qua e là, ma soprattutto   in “Io Orfeo, nel labirinto”: qui si tratta di un  viaggio, particolare però, anche per l’assenza di notazioni spazio-temporali, che dice -letteralmente- una descensio ad inferos,  un cupo precipitare nell’ignoto, un perdersi irrefrenabile e irrevocabile; gelido, doloroso.

Ma è il caso di fermarsi per lasciare al lettore il gusto della scoperta. Solo un’ultima, breve, notazione che riguarda il linguaggio sotto il profilo tonale: pacato, serio, intriso di pietas, segnato da echi e risonanze. Scolpito, di tanto in tanto, da settenari che frenano e quasi dominano l’onda dei sentimenti, riducendola entro i binari di una consapevolezza epico-tragica, perfusa di un pathos assolutamente corale: perché spesso questi testi riportano,  in fitto ideale dialogo, alla solennità dei cori delle tragedie greche. Con, in più, tensioni allusive e suggestive che tramano ogni storia,  narrata con cuore da poeta. Dove storia significa -semplicemente- vita. Di ieri, di oggi, di sempre.

Umberto Cerio, cantore pensoso della vita.

 Pasquale Balestriere

                                                                           *********

Il Poeta

Ecco la testimonianza di Nazario Pardini, il “padrone di casa”, che si esprime su “Il gabbiano Bianco”.

Per Umberto Cerio e il suo “gabbiano bianco”

Poesie di una tale intensità umana che si fanno tue; che vorresti averle scritte tu perché c’è il gabbiano bianco, c’è il mare, la lontananza, il brivido che ti lascia addosso il verso pulito, armonioso, fluente, denso, zeppo di simbologie che tornano a dirti della precarietà dell’uomo, della fugacità del tempo, di quella temperata e mai eccessiva nota di saudade che ingentilisce il tutto. Insomma perché ci sei tu, ci siamo tutti. Sì, qui si vola; si vola come i gabbiani baudelairiani,  perché non siamo fatti per stare a terra; a terra si brancola, si dimena ridicolamente: il poeta vuole il cielo, la luce, l’amore, la vita; vuole la libertà; l’attuazione del  sogno di una storia:    “… Ora tace deserta la marina./ L’ombra si allunga e vibra/ piena di una dolcezza atroce,/ acre adduce le tracce di silenzi/che avevano parole/ di remote memorie e di futuro.”. Tace la marina ora che il gabbiano bianco ha spiegato le ali vero orizzonti nebbiosi.  Ma Cerio non vive di semplice nostalgia; può seguire con la fantasia il suo gabbiano, anche se l’immagine si confonde con la bruma:  “…Nel vento continuo ad inseguire/il mio gabbiano bianco/ che vola nella luce della vita.”. Una poesia farcita di metaforici allunghi allusivi, di scaglie lucenti di mare, di ombre vaganti di sera, come lo è il percorso di un’intera esistenza; e si sa che quanto più una storia prolunga la sua traccia, tanto più cospicue sono le memorie che si lascia dietro; forse sono proprio quelle ad allungarne il tragitto. Basta ricuperarle, fattesi nuove, vestite di soffice gentilezza, di amorosi sensi, di brividi memoriali.  Basta che il gabbiano bianco non ci abbandoni e che ci permetta di seguirlo nei suoi volteggi, anche se la vita ci vuole a terra senza ali: “… E’ il mio gabbiano bianco/ che prende il mio posto/ e scambia il mio cuore col suo./ E la notte non è più buia./ / Mi sei entrato nell’anima/ e mi hai placato inquietudini,/ oscuri abissi scavati nel cuore.”, basta che scambi il suo cuore col nostro, che ci entri nell’anima, perché la notte non sia più buia. Basta che la voglia di vivere sia lucente come il dorso di quel gabbiano trafitto dai raggi del sole: amore, memoria, maturazione, riflessioni, cotidie morimur, sogni, volo, e quesiti che si mangiano risposte. E spero che Umberto voli alto come il suo gabbiano.                              Nazario Pardini


PER UMBERTO CERIO E IL SUO GABBIANO

 

IL GABBIANO BIANCO

 

     Non ho mai sognato la Sfinge

ed il deserto delle Piramidi;

il mio cuore le indovina ardenti,

nella sabbia segnata dai cammelli.

Altro è il mio sogno lungo:

Forse è quel gabbiano bianco che fugge

e assapora la salsedine

dell’aria in volo e in tuffi folli l’acqua

che cela la sua preda disperata.

 

     Certo è quel gabbiano bianco,

che seguivi con uno sguardo d’ansia

con dolore indecifrabile.

Certo, certo era quel gabbiano bianco

che tornava stanco di vento

-come il mio cuore- al tuo balcone.

 

     Ora tace deserta la marina.

L’ombra si allunga e vibra

piena di una dolcezza atroce,

acre adduce le tracce di silenzi

che avevano parole

di remote memorie e di futuro.

 

E perde il senso il tempo dell’attesa.

 

Edita  -2006- settembre

 

IL RITORNO DEL GABBIANO BIANCO

 

    I silenzi di questi vecchi templi

diroccati dal tempo

hanno parole di antichi Dei

che si muovono –ombra tra le ombre-

e lasciano profumo di ambrosia.

Di poco lontano il mare

altre ombre disegna.

Sono quelle dei gabbiani in volo.

 

   E ancora

ancora il mio gabbiano bianco

con ali di salsedine odorosa

e d’improvviso appare il volo

dall’ombra silenziosa

grave di sogni e di anni lunghi,

ancora stanco di cielo ventoso

che cerca, come il mio cuore in ansia,

la tua casa e il tuo balcone.

 

   Ahimè le storie sono lunghe

a raccontare e rapide a finire

ed io, segreto e silenzioso,

dentro mi porto lente le ferite.

E tu scandisci, nell’attesa,

- terribili stille del tempo-

sacro il tuo dolore d’anima

all’andare di quelle ombre

che lasciano fascinosi i silenzi

scarni ed ebbri i vuoti

tra colonne ed are in frantumi.

 

     Nel vento continuo ad inseguire

il mio gabbiano bianco

che vola nella luce della vita.

 

   ANCORA IL MIO GABBIANO

 

     Ed ecco di nuovo il mio gabbiano

stanco di volo e di mare in tempesta

che torna sul suo scoglio

grave di terra scagliosa e di pietre

inospitale arida e selvaggia.

E’ la nostra terra che chiama

nelle sere degli ultimi colpi

d’ali che non sanno parole,

che non  hanno illusioni né sogni.

Ed il cuore sbalza nell’altalena

della giostra furiosa

sui sentieri dei cavalli del Sole.

Tutto in un pugno sacro e folle

e la vita che sorge

prepotente come schiocco di frusta.

E intanto che gli urli delle onde

del mare si trasformano in canto

di coro greco sullo scoglio “vedo”

il mio bianco gabbiano diventare

Perdice fatto immortale dal  “volo”.

O vaneggia la mia mente stanca?

Ma io so che è il mio gabbiano bianco

che prende forma di pensiero

e diventa il sacro corifeo

che buie sventure canta al mondo

e grida la sua folle ira

per l’esilio della notte immensa.

E’ il mio gabbiano bianco

che prende il mio posto

e scambia il mio cuore col suo.

E la notte non è più buia.

 

     Mi sei entrato nell’anima

e mi hai placato inquietudini,

oscuri abissi scavati nel cuore.

 

UMBERTO CERIO

 

IO, ORFEO  - NEL LABIRINTO –

E inseguivo Euridice,

che ombra tra le ombre, si perdeva

fino a sparire in una nebbia ostile.

I miei passi, -e la flebile certezza-

sempre più arresi a vana speranza,                                                                                                    

seppero vicino il precipizio

e l’angoscia della caduta

nell’improvviso spazio

del vuoto  ignoto della coscienza.

Non c’era più la luna

e il manto delle stelle

e i noti sentieri

né il sole i fiumi e le montagne

né la cetra del  canto mio di luce.

Conobbi altre certezze

-atroce cateratta di straniero

fiume turbinoso in piena-

senza speranza di catarsi,

ormai smarrito nel labirinto

oscuro del corpo e dell’anima.

 

Questo gelido vento

che l’anima in vortice divora

e il corpo fiacca e frantuma,

le ombre dei morti inchioda alle rocce

-e tremano degli Inferi gli abissi-

dove vuole portare anima e corpo

che sprofondano in buio atroce?

E’ questo dell’impassibile Ade

del Tartaro il regno

dove si addensano ombre famose

e di anonimi morti?

E sono io Orfeo che cerca

Euridice ritrovata e perduta?

E perché Caronte mi nega

il secondo passaggio?

E dov’è la mia Euridice

e dov’è tutta la mia vita.

I ricordi scavalcano il fiato

del lamento dei morti e volano

con la mia caduta lunga, feroce,

e perdono la luce della vita.

Quali sorrisi lievi mi donavi,

mia dolce Euridice,

quale bellezza del tuo corpo

donavi ai miei nervi tesi

e la fragranza dolce

dell’abbraccio al tuo respiro.

E i tuoi occhi profondi come il mare

che già altro gorgo preannunziavano

se a sera le braccia mi tendevi.

Maledetto del serpe il morso

e Aristeo che ti ha inseguita

nell’erba alta della morte.

 

Ma io precipito, cado nel vuoto

nero, sbattendo sulle dure rocce.

Sanguina il mio corpo, sanguina

il mio cuore e lascia lunghe le tracce

del suo dolore oscuro

e il petto mi si squarcia, dilaniato

dalle lame feroci delle rocce.

Questo vento gelido, furibondo

straniero e malvagio

continua a trascinarmi tra scogli aguzzi

che ancora, ancora mi tagliano il petto

e il cuore senza più sangue

nel buio sempre più tetro e amaro.

Oh la vita con la mia Euridice!

vissuta nei giorni del Sole

nelle notti delle tede e la luce

sui nostri occhi e sui volti

dall’amore fatti divini.

Quale fiamma scaldava i nostri corpi

o mia fragile, mia dolce Euridice!

-la tua chioma ed il corpo fragrante-.

 

Cado, cado! E precipito nel buio

profondo, maledetto

tra spuntoni delle rocce sporgenti

-acre lacerarsi di nervi e carne-

-dolore al cuore trasmesso e alla mente-

che son divenuti memoria

appena svegliato dal nulla

di una notte solitaria

ove ricomincia vita precaria

che incompiuta speranza si aspetta

dai detriti della vita passata.

Ma dove sono le stelle impazzite?

Le notti passate col fremito

della mia dolce Euridice?

Dove sono i Mani che si pieghino

al mio desiderio di riavere

Euridice alla vita del Sole?

Era vero ciò che il mio canto

otteneva, oppure era inganno

di Persefone il turbamento

e lo sguardo incredulo di Ade

per noi che tornavamo alla luce

e alla vita del mondo superno?

Poi il tuono e lo schianto,

un baleno più forte dell’Averno

ogni cosa travolse

e scomparve Euridice e la strada.

Il buio lungo fu il tutto,

e nero precipizio fu lo sbalzo

che stavamo salendo,

precipizio che ancora mi percuote

mentre cerco la mia Euridice.

 

Dove sono le stelle

e gli occhi della mia donna in amore

dopo il fragore del crollo

che improvviso portò buio e silenzio?

Il mio canto più non ha senso,

più non commuove le fiere selvagge,

non fa più tremare le rocce

e gli alberi delle foreste.

Restano lame di pietre taglienti

che strappano la mia carne

e tagliano le mie ossa.

Sono questi gli Inferi

dove cercavo la mia donna,

dove si consuma l’involontario

martirio e la vita di Orfeo?

Le ombre che vedo nel buio

sono davvero le ombre dei morti,

o vaneggia la mia mente?

 

Ma ecco, la tempesta si arresta,

si arresta infine la caduta,

ma più non c’è cielo sole o stelle.

Resta la memoria di ogni frammento

del tempo e dello spazio

e torna il gioco della memoria,

l’altalena dell’attesa insonne,

la ricerca di ombre conosciute.

Si placa lo scempio delle mie membra

e l’inconscio dolore.

Ricomincia il respiro: quanto tempo

è passato, che cosa è accaduto

al mio corpo, quali ferite?

 

E quel che noi cercammo

il primo barlume ci diede,

un po’ cieco un po’ luce su abissi

discesi atrocemente in precipizio:

la difficile strada del ritorno

senza la dolce mia Euridice.

Ed io, martoriato Orfeo,

comincio a risalire i dirupi

e le stanze orrende ed informi

delle ombre stupite,

incredule della mia risalita,

così, così i supplicati Mani,

così Persefone addolorata

mentre stranita il volto nasconde,

così l’incredulo Ade, in guisa

di mortale, si pone ad ascoltare.

Pietra dopo pietra e ombra dopo

ombra cerco la luce.

So che il mio canto tonerà

a smuovere macigni

a scuotere gli alberi dei boschi

a rendere mansueti gli animali

a placare gli uomini selvaggi.

Il canto mi renderà Euridice

e ci riporterà al Sole

e questa cava testuggine

che sempre offre suoni così dolci

renderà più bello il mio canto

quando risplenderà a me vicina.

 

Canterò la mia donna

lungo le rive del freddo Strimone,

tra l’erba alta dei serpenti,

i templi sconosciuti degli Dei

minori per uccidere Aristeo.

E pregherò i Mani e Persefone

dal tenero cuore pietoso

-e l’acre, ostile, oscuro Caronte-

perché viva a me la diano ancora.

E la cercherò tra costellazioni

segrete, più lontane dalla terra,

dagli spazi bui e sconfinati.

Tra l’una e l’altra riva del freddo

Strimone chiamerò la mia dolce

Euridice. Griderò “Euridice!....

Euridice”! e forse risponderanno

per lei le due sponde del fiume

e mi diranno il non luogo

dove ancora cercarla.

 

Ma era stata un’esplosione

primordiale con un rombo infinito,

con la sua luce informe e violenta

e il tuono irrefrenabile del buio

che sprofonda nel nostro universo.

Non c’è la distesa del cielo

di quando in volo inseguivo i gabbiani

e gli aironi leggeri

sul canto azzurro del mare,

quel mare dall’arenile selvaggio

silenzioso e solitario

che ogni volta mi affascinava

e mi stregava con l’onda leggera

di una danza sconosciuta e segreta,

mare che aveva profumo d’estate

e della nostra giovinezza,

che infrangeva tempo di clessidra

e spazio di aria di terra e di luce,

quando i sogni avevano colori

di speranze e di sicuro futuro.

Nelle notti serene

noi leggevamo nelle nubi bianche

e nei bagliori della luna

il fremito della tua tenerezza.

Ed ora tutti i crolli

-crollata anche l’illusione-

hanno distrutto la via del ritorno.

Da qui non si torna indietro nel tempo

e non si torna alla luce del Sole,

agli spazi gioiosi della terra.

Si deve cercare uscita certa

nella bigia incertezza dell’oltre

-tra le siepi di pietre aguzze

e taglienti- dall’esito incerto-.

Devo ancora vedere altre ombre

nelle nicchie oscure e nascoste

delle rocce  fredde e nodose.

Ombre di grandi eroi

e di anonimi grigi guerrieri.

Sono negli Inferi strani e dubbiosi:

le ombre dal colore della morte

dal dolore delle ferite

ma senza il sentore del sangue.

 

Dove sei mia dolce Euridice?

Tu mi hai portato il vento,

le tempeste del buio della notte.

Tu mi hai portato il Sole

e la luce del meriggio infuocato

e i lenti canti dell’aia

al sapore dei frutti succosi

al crepitio del grano

che fragile cedeva alla falce

impietosa tagliente e dolorosa.

Tu mi hai portato le primavere

e i pomiferi autunni

tra le stoppie chinate alla terra

delle timide allodole al canto.

Eri alla luce alle soglie del Sole,

al di là del sogno e della morte

e lenta rinveniva la coscienza:

con me già respirava Euridice,

-la tenera cercata Euridice-

tra la mestizia di ombre senza vita.

 

D’improvviso dal buio della notte

fu il giorno. Si svegliarono

e tremarono gli alberi e le rocce

e piansero di gioia le Driadi.

Euridice era lì. Io tornavo.

Alla forza del fremito di vita

che impazzito tempestava la linfa

che aspettava il tumulto vitale,

l’esplosione improvvisa della luce.

E il sangue di nuovo

premeva nelle vene e nel cuore.

Scomparvero le nottole urlando.

Tornarono i frutti della terra


Umberto Cerio

 

 

 

 

 

5 commenti:

  1. Caro Pasquale, Complimenti a Te per il ricordo del caro amico Umberto nel primo anniversario della della Sua dipartita e per quello che hai postato su questo Blog insieme al caro Prof. Pardini. Ciò che si semina si raccoglie dice un vecchio saggio e Umberto aveva seminato bene la Sua umanità, la sua umiltà e la Sua bravura di poeta con la P maiuscola. Tale doti si evincono palesemente nel leggere i suoi versi. Calza opportunamente dire qui che, ieri mi è stato recapitato un plico inaspettato. Apertolo ho avuto la gratitissima sorpresa di toccare con mano un volumetto dal titolo: IL POETA NON MUORE MAI con sopra il nome dell'autore: UMBERTO CERIO. E' stata veramente una gratitissima sorprese inaspettatta che la Gent.ma Sig,ra Clementina ha voluto farmi per quel rapporto di amicizia e di stima reciproca che man mano si era venuta ad instaurare tra Umberto e me. Diverse volte mi aveva promesso di inviarmi suoi libri e ora che ne ho in mano uno certamente lo divorerò da subito. Pertanto, ringrazio pubblicamente e di cuore la Sig.ra Clementina e consentitemi di salutare ancora,come sempre facevo tramite Leucade, il mio cara amico UMBERTO. Pasqualino Cinnirella

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  2. Pasquale Balestriere8 gennaio 2021 alle ore 10:46

    Caro Nazario, con questo commento voglio ringraziare te, per lo spazio,e i familiari di Umberto Cerio, e cioè la Signora Clementina e i figli, per aver dato ancora voce al nostro Amico attraverso questa pubblicazione.
    Egli, fiducioso, me ne aveva affidato la prefazione, aveva preparato con amore il volume, inviato poi alla casa editrice per la stampa. Certo,non ha fatto in tempo a vederlo pubblicato: ma sono certo che, se avesse potuto ( e forse può, chi lo sa?), sarebbe stato contento, perché il libro è bellissimo sotto tutti gli aspetti.
    Il Poeta non muore, carissimo Umberto. Concordo con te su questo che è stato il tuo ultimo e profetico messaggio di poesia. Perciò oggi sei su Leucade. Per questo tu rimani con noi.
    Pasquale Balestriere

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  3. L’ultima volta che ho letto qualcosa di lui il caro Umberto, è stato nel settembre del ‘19, quando su Leucade pubblicava Il gabbiano:
    “Altro è il mio sogno lungo:
    Forse è quel gabbiano bianco che fugge
    e assapora la salsedine
    dell’aria in volo e in tuffi folli l’acqua
    che cela la sua preda disperata.”
    L’ho commentato con emozione seguendo l’impulso: “ Il gabbiano che vola libero , giovane ed impetuoso, fuggendo la banalità del quotidiano …gli idola animi, della mente e del cuore diventano l’immagine guida che interpreta il vivere del poeta; gabbiani che vanno e …tornano carichi di esperienze, ma anche di “lente ferite”, persi i sogni e i desideri, in “anni lunghi”, ma desiderosi di ancore, di punti di riferimento “ancora stanco di cielo ventoso/ che cerca, come il mio cuore in ansia,/la tua casa e il tuo balcone. Ombre e attese, silenzi fascinosi accompagnano il viaggio in più tempi, a loro modo eloquenti, dolci, ma inquietanti: “ la nostra terra che chiama/nelle sere degli ultimi colpi/d’ali che non sanno parole..”. Una potente simbologia un raffinatissimo canto di U. Cerio.
    Mi rispondeva a ruota: “ Maria Grazia, puoi essere "in consonanza col volo del mio gabbiano".
    Le poesie sul mio gabbiano possono essere considerate un dono a tutti gli amici. Ti è possibile andare su una spiaggia solitaria, con piccoli scogli? Potrai osservare il volo e il riposo dei gabbiani e "sentire" il loro piccolo cuore che palpita. Troverai anche un gabbiano bianco e seguire il suo volo. Il resto darà un senso alla vita. Umberto Cerio.”
    Andrò su una spiaggia solitaria, caro Umberto, raccoglierò questo tuo ultimo dono per tutti gli amici: vola leggero col tuo gabbiano bianco!

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  4. RICEVO E PUBBLICO

    Mi piace questo titolo “Il poeta non muore” che potrebbe avere diverse interpretazioni. Considerando però quella più immediata - ossia che il poeta sopravvive alla sua dipartita con le sue opere, con i suoi scritti - essa è molto consolatoria ma utopistica. Sto pubblicando tutto quello da me composto e il leitmotiv ricorrente nei miei testi è la lamentazione continua di non essere nessuno, la consapevolezza che i miei versi - ragione quasi della mia esistenza - non sono e non verranno mai letti da un pubblico più vasto che non siano gli amici. Forse io mi sopravvaluto come scrittrice e questo è senz'altro il motivo principale della mia insoddisfazione. Ma poi mi scorrono davanti agli occhi i poeti famosi, i poeti che hanno fatto la storia e che ora sono misconosciuti anche fra coloro che coltivano le lettere. Pessimista? No realista. La poesia è diventata, o forse lo è sempre stata, una merce come un'altra e ci vuole un bel battage pubblicitario perché prenda il volo. Non parlo a vanvera: ho insegnato per lunghi anni matematica nelle scuole medie inferiori e molti dei miei colleghi di italiano non conoscevano un Luzi mentre di Montale si limitavano a “Meriggiare pallido e assorto” che è anche la lirica che compare in tutte le antologie di quell'ordine di scuola.
    Questo mio sfogo non è certo per sminuire Umberto Cerio che apprezzo moltissimo con quelle sue rivisitazioni di tutti i miti antichi a cui spesso mi rivolgo anch'io perché ricchi di pathos e sempre con in fondo quel pizzico di verità che li rende immortali.
    E anche quel gabbiano bianco - che io identifico con l'anima del poeta - trovo sia un artificio molto ingegnoso, un by pass verso l'altro da sé libero di volare verso più ampi spazi.
    Auguro, quindi, a Umberto, con tutto il cuore, malgrado io sia così disincantata, di sopravvivere veramente con i propri scritti. A me, invece, quando verrò a mancare, un Pasquale e un Nazario che mi ricordino con altrettanto affetto.
    Carla Baroni

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  5. Ho avuto l'onore e la gioia di conoscere Umberto Cerio in occasione di varie cerimonie di premiazioni e ringrazio Pasquale Balestriere per questo commosso, superbo tributo. Di lui ricordo con strana immediatezza l'atteggiamento umile e pudico, a fronte di versi che forzavano la diga dell'anima e straripavano. Non era consapevole del proprio valore, come i veri grandi Artisti. Era un interlocutore tanto avvincente quanto discreto. Io sono convinta che il titolo "Il Poeta non muore" sia quanto mai adatto a un uomo come Umberto. I suoi scritti, dei quali abbiamo una breve, poderosa testimonianza, lo terranno in vita e il suo canto sarà presente nelle antologie e nella letteratura. Sono certa che verrà studiato e ammirato per tutti gli anni a venire. Peraltro mi sento di aggiungere con Sant'Agostino, per i familiari e per tutti coloro che lo hanno amato, 'che la gioia di averlo avuto è più grande del dolore di averlo perduto'. Plaudo Pasquale per quest'iniziativa, do l'arrivederci a un grande esempio di Poeta e di Uomo e colgo l'occasione per salutare gli amici dell'Isola.

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