domenica 31 gennaio 2021

MARCO ZELIOLI LEGGE: "OPERA OMNIA" DI PASQUALE D'ALTERIO

Pasquale D’Alterio

OPERA OMNIA 

Recensione di Marco Zelioli

 

 

È uscita per la collana di volumi monografici Il Pendolo d’Oro di Guido Miano Editore l’Opera omnia di Pasquale D’Alterio, professore napoletano i cui versi, pubblicati prevalentemente dal 2014 in qua, ci riportano alla classicità. Non per nulla, delle cinque raccolte che compongono l’opera, l’ultima è dedicata alla traduzione in versi di alcuni lirici greci (da Alceo e Alcmane a Saffo e Simonide) e del latino Orazio, tanto da giustificare in pieno l’estrema sintesi del giudizio estetico del prefatore, Enzo Concardi: “stile classicheggiante ed asciutto” (p.10). Ancora nella Prefazione si accenna allo struggimento dell’Autore, quasi “in balia di sé stesso in un mondo ostile e sconosciuto, da evitare e non da costruire” (p.8), e che in ciò “richiama le suggestioni del pessimismo antropologico e filosofico del Leopardi” e, ancor più, “lo scacco esistenziale dell’individuo, che non riesce – nonostante i tentativi della volontà – a superare le barriere dell’esperienza, soprattutto nel bel mezzo della crisi di civiltà e di ideali della società d’oggi” (p.9). Tale visione piuttosto pessimistica del mondo, che nei toni dell’Autore torna come “tristezza e fatalismo, poiché sia la terra che il cielo gareggiano ad infonderci uggia e noia” (p.11), sta un po’ in tutte le poesie della raccolta.

Il più profondo anelito dello scrittore è forse racchiuso nei versi della sua ultima produzione, Le pagine della nostra vita (2020) che apre l’opera con Avrei voluto cantare, che finisce così: “avrei voluto cantare/ quell’amore che va oltre ogni limite/ della vita e del tempo infinito,/ il suo sorriso che luminoso rendeva il suo volto:/ ho cantato invece la malinconia/ che sempre mi pervade,/ la solitudine e il rimpianto/ perché di me, con la tua morte,/ perì grande parte” (p.14). La perdita dell’amata segna fortemente la poesia del D’Alterio, e se gli par di riveder tra le nuvole “il suo volto sereno e sorridente” (Sovente m’illudo, p.15), ciò è solo parvenza evanescente “quale straccio di nubi” (Felicità, p.16). In ciò è di conforto “solo la voce del cuore/ che, sempre,/ di te mi parla” (Non ascolterò, p.17); e se “Rimpianto non v’è/ per ciò che la vita non ci ha dato/ ma solo per quello/ che, con generosità, natura concesse/ ma che, con pari crudeltà,/ all’improvviso ci tolse” (Il rimpianto, p.19), “sempre il tuo nome risuonerà / nel mio cuore (Ti ricorderò, p.23), “fino a che un soffio di vita/ aleggerà in me” (Le pagine della vita, p.25).

Anche nella seconda parte dell’opera (Ancora nel cuore, 2019) torna sovente il tema della malinconica perdita dell’amata, come, ad esempio, in Lascerò sfiorire le rose: “Mi manca, seppur sovente muta,/ la tua consolante presenza./ Mio soltanto è il dolore,/ mio di te il rimpianto,/ mia, infine, la triste solitudine” (p.29). Mestizia che affiora anche in Sulla tomba del fratello Nicola (p.34) e In ricordo della sorella Rinuccia (p.79), ma di tanto in tanto è rischiarata da riflessioni pacate, come in Solo quando ti accorgi, che così conclude: “Ogni alba e tramonto/ apporterà in noi diverse visioni/ di meraviglia e stupore” (p.36), e in L’amore vero, non “caduco come le umane illusioni” (p.39), pur se “Terra e cielo, riflesso del nostro animo,/ gareggiano nell’infondere tristezza” (Alba di un giorno d’inverno, p.38). Anche la natura pare partecipare a tale universale struggimento per la fragilità umana, come ne La quercia caduta: “…e sol resterà un legno/ ormai per sempre senza vita” (p.40).

Solo il sogno sembra poter riportare alla serenità perduta (“così della dolcezza del sogno/ un lieve sentore/ di piacere persiste”, Ancora nel cuore, p.44).

Al sogno paiono ricongiungersi le traduzioni poetiche del D’Alterio, nell’ultima parte del volume: Versioni da poeti della classicità greca e latina. In esse l’Autore, incontrando l’anima degli antichi lirici, sembra ritrovare in sé quella pace interiore che la visione del mondo contemporaneo, col suo continuo brusìo confusivo e i suoi dolori latenti, quasi vuol cancellare. Torna la quiete, la pace soffusa de La notte di Alcmane, penultimo componimento di quest’Opera Omnia: “Dormono le cime dei monti/ e le convalli e le balze e i burrati/ e le stirpi degli animali striscianti,/ quanti ne nutre la nera terra,/ e le fiere montane e la stirpe delle api/ e nei fondali del cupo mare i mostri;/ dormono le stirpi degli uccelli/ dal rapido volo” (p.156).

In mezzo troviamo altre due nutrite raccolte. Ne Il canto dell’anima (2016), dalla sensazione di oscurità dell’orizzonte, nota tipica dell’autore (“Si vive aspettando/ un sonno che sarà eterno”, recitano gli ultimi due versi di Mai di te…, p.49; “E giunge alfine il sole,/ ma dall’animo/ non scompaiono le tenebre”, L’alba 1, p.54), scaturiscono immagini taglienti, come quando ci ricorda che l’amore è “Ferita mortale che/ alla coscienza fa balenare/ or la gioia dell’eternità,/ or la miseria della sua fragilità” (L’amore, p.52); o quando medita: “Ma il tempo che viviamo/ già non è più/ ed il futuro ancor non esiste” (Frammenti, p.55), e pensa ai suoi dolori ripiegati tra Le pagine della memoria (p.57). Davvero lo si può riconoscere come Il poetache sa scendere nel profondo/ dell’animo suo e di altri,/ ascoltare suoni e voci/ che altri non odono” (p.60), spingendoci a riflessioni profonde su ciò che più vale nella nostra vita, anche quando essa sta Tra sogno e realtà (p.67), e ponendoci domande ineludibili, come in Mortali nascemmo: “Può alcun forse dire/ se un bene o un male/ sia il vivere più a lungo?” (p.72).

Nella raccolta La Vita, il Tempo, l’Amore, la Morte (2014), formata per lo più di componimenti brevissimi, affiora qua e là una sobria vivezza di immagini naturalistiche ed una serie di ricordi più leggeri, quasi come Divagazioni (“Col pensiero percorro/ interminati spazi/ e tempi remoti;/ ma per quanto io proceda/ sempre ritorno/ là onde son mosso” - p.118), che svelano la dolcezza de L’amore sognato (“L’amore sognato, sperato,/ che spacca il cuore/ e strappa i capelli,// l’amore cantato dai poeti,/ che ti fa fremere e gioire/ e ti fa procedere lieve, come danzando,// l’amore che vince il tempo e gli eventi,/ che colora e rende dolce la vita/ è, sì come giovinezza, sogno breve” - p.119). Perdura, tuttavia, una certa cupezza. Per questo mi paiono appropriati a concludere questi versi tratti da Thanatos, ispirata ai foscoliani Sepolcri: “Misero invero colui al quale/ di gioia e d’amore/ avara fu la vita” (p.94); o questi altri, senza titolo, di p.96: “L’uomo, nei suoi vani sogni/ di ricchezza perso,/ del suo lento morir/ non s’avvede”; ma soprattutto l’immagine ungarettiana della poesia A mio figlio: “Verrà il giorno, tra noi,/ dell’estremo saluto./ E porterai nella mente/ scolpito il ricordo/ della mano levata/ a porgere/ l’inconsapevole ultimo addio” (p.106).

Il D’Alterio non offre mai versi traboccanti di vivacità, ma la loro lettura è salutare per chiunque non ricerchi nella poesia una sterile evasione. La sua è poesia profonda, meditativa, piena di reminiscenze degli autori classici antichi e moderni (tanto nelle tematiche che nel procedere fluente dello scrivere), ma sempre personalissima; e si fa apprezzare soprattutto perché non è mai banale.

L’attività letteraria di Pasquale D’Alterio è trattata nel IV volume dell’opera Contributi per la Storia della Letteratura Italiana. Dal secondo Novecento ai giorni nostri, terza edizione 2020, pubblicata da Guido Miano Editore.


Marco Zelioli

 

Pasquale D’Alterio. OPERA OMNIA, pref. di Enzo Concardi, pp.180, Guido Miano Editore, Milano 2020, isbn 978-88-31497-28-2; mianoposta@gmail.com.

 

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