sabato 12 ottobre 2024

Note critiche sezione edito premio Aeclanum

 

Adriana Pedicini: Quintessenza,Edizioni Il Foglio,Piombino (LI),2024

E’ il Verso poetico della Natura, col suo divenire, scorrere, ruere, procedere che porta suoni, odori, sfumature di colori in un cantelinare lento a procurare pace e silenzio in chi sa ascoltare,ma anche schegge di doloroso soffrire, contrassegnato dal faro che diviene tranello per la farfalla notturna alla quale canta un canto di morte / il sonnambulo gufo.

Foglie in bilico allo spirare dei venti riportano il senso della caducità, rafforzata dalla similitudine : Noi come loro/ sul ciglio di vita pronti ad allontanare l’abisso. L’albero dispogliato riavrà la sua verde chioma , di contro  si stimmatizza: A noi non è concesso il ritorno. Là dove si percepisce l’acre eco foscoliana di una illacrimata sepoltura o l’acre condizione della Saffo leopardiana. La poetessa si spinge oltre nell’ amara presa di coscienza, accentuando l’inevitabile con l’uso dell’inversione nel costrutto logico: consunte una volta dei piedi le piante/ alcun vento si alzerà, se non la tenebra nera.

Dopo ogni lampo c’è certezza di serenità e questo è quello che desidera la poetessa: che il tempo dilati in fiducia e rassereni / il cielo riflesso dell’anima.

Inutile arrovellarsi nei sensi di colpa , auspicabile , ma impossibile,  un nuovo spartito. In bilico col pensiero tra un abisso tremendo,un nulla doloroso come un rimpianto, o mondi altri infiniti ed eterni, basta che l’occhio abbracci un paesaggio per cogliere il  segno profetico / del Verbo di un tempo.

Funambuli ci si scopre nel vivere sempre protesi e assetati tra false chimere e la schiavitù dei reali bisogni. Un desiderio permane: giorni pacati/come a infante il sonno beato.

Tacitati i pensieri , vergando di rosso e di blu quelli altrui, passato il tempo a rispondere a domande di senso e di vita dei propri alunni ora che ci si riappropria del proprio tempo, nessuna domanda che come spillo ha martoriato l’anima, nessuna risposta consolatoria deve farsi spazio, ma questo tempo con l’anafora iniziale lo riempierò  deve essere colmo di fiori di biancospino, cieli azzurri, canti di fringuelli, del mormorio del fiume in una climax che conduce ad adagiarsi in questa meraviglia che in quanto tale permette di non avere rimpianti prima del guado.

Il crucciarsi è stato pane quotidiano con domande senza risposte, dunque  il fuoco divori in una sequela di metonimie e sineddochi parti di sé e nella muta che di vivere solo mi soddisfi il desiderio/ nelle foglie rosse e gialle del mio autunno.

Calato il sipario sul palcoscenico di una vita frenetica, la poetessa si vede rappresentata come un granello invisibile/ di polvere inutile anche agli uccelli/solo il lombrico se ne vedrà bene. L’emistichio finale ha sapore di atavica filosofia di vita a cui fa da contraltare la ricerca di pace nel divino abbandono.

Un sapore e un senso diverso ridimensiona questo autunno della vita: ogni attimo è un guadagno/ senza impegno e ogni impegno/ ha la leggerezza del piacere necessario. L’iterazione in anafora iniziale del già nella lirica “Poco a poco” rimarca lo scorrere del tempo, il passare veloce delle stagioni per ricongiungersi ai propri cari nel giardino di luce senza tempo.

Nella sezione “Colori e dolori del mondo” uno sguardo di condivisione accomuna la poetessa ai nomadi dei quali coglie il senso profondo della casa: la casa è ovunque noi siamo/perché la casa l’abbiamo nei cuori/ e l’adagiamo a terra solo se stanchi; a chi è stato impedito di vivere, creando un legame tra le anime vostre e nostre con l’utilizzo del verbo s’inanellano dal comignolo con quella sottolineatura del folle nonsense e di una negazione dei sogni anche per i più piccoli.

I versi degli ermetici a specchio ripropongono le ferite di un’altra guerra, “Ucraina 24 febbraio 22”che la poetessa coglie nella sua tremenda crudeltà: davvero pietruzze da stritolare/ per farne asfalto sulla via dell’oppressione  e in “Natale 2022” in cui ripropone un ritrovato Amore col cuore sanguinante che ha bisogno ancora di innocenza e di speranza.

In “Morta è la pietà” si evidenzia un assurdo franare di pietraie in cuori e terre diverse e un nuovo rivangare le zolle del dolore.

Nel trittico di chiusura in vernacolo i temi del sogno quale luogo d’incontri con chi non c’è più, che allontana la malinconia e trova positivo riscontro nell’amore che non muore; della giovinezza troppo in fretta svanita, al punto che la poetessa conterebbe ad uno ad uno i chicchi dei cumuli di grano messi ad asciugare dinanzi al portone di casa dei nonni in cui si tuffava da piccola , per averne ancora un poco, un poco della bella età della sua vita; della malinconia che strugge il cuore e fa pensare alla morte in un’aria immobile prima di sera, nello straziante silenzio per strada, nel pianto di una madre che invoca il figlio senza risposta. Per il bene basta una stella che faccia luce in un cuore oscurato di notte.

In tanta amarezza il desiderio di guardare alla Croce non col terrore della finitezza/ma con il gaudio della vita eterna e alla Ianua del Cielo, quale segreto e disvelamento di ogni bellezza/anello che a Te mi congiunge.

In quarta di copertina il senso del titolo di questa raccolta : percepire, avvertire  tra un velo di rosa che scolora tra le vette e un’ora di attesa ma sazia di sé, il prefigurarsi dell’ eterno, un’oasi di pace ove tutto tace.

                   

Luisa Martiniello

  


Davide Rocco Colacrai: D come Davide –Storie di plurali al singolare- Le Mezzelane Casa Editrice,Santa Maria Nuova (An),2023

Colacrai dà voce a Storie di plurali,rendendole parti di Davide.Ripercorre la storia degli esuli e siamo con lui nelle baracche, che l’una stretta all’altra, con una personificazione rende meno tristi,le aggrazia paragonandole a un mazzo di fiori nella mano di un bambino. I verbi al plurale intensificano la condivisione dell’odor di profugo, nonché l’uso dell’antitesi: forte e dolce al tempo stesso / di cibarie,naftalina e capelli che non potevamo lavare. Così il verbo fiorire per ingentilire in contrapposizione : gli inverni fiorivano all’interno delle baracche/in una processione di gelo e solitudine. Gelo e solitudine che tornano prepotenti a segnare le vite di Rigopiano, che hanno un soffitto di neve e ultime preghiere che si condensano in cristalli a spegnere un orizzonte d’amore. Solitudine ancora più pregnante nei 57 giorni di Borsellino, un fiore nella polvere, giorni lasciati maturare/…/ come frutti tra ombre di grilli in ascolto. Solitudine ancora più acre di quelle lingue di fumo/…/ e che si allungavano come lacrime amaranto nell’estate/ a renderla un’apocalisse. L’attesa di una madre non ha conti definiti. Dolori e assenze che si intrecciano a «L’ora dei fratelli ( Cile, 1981)», seguiti da un’ombra dei giorni,incerta e muta, / come la solitudine nel farsi il segno della croce,l’insonnia, o quella dell’arruso. Qui l’odore acre diviene quello dell’incubo e il sogno non prospetta che un orizzonte senza scorciatoie/ il pensiero fisso all’isola,/ nostra unica donna,madre e matrigna. Anche nella lirica «Il confino (Isole Tremiti, 1939)» si ripropone la prigionia  in un reticolato di pochi metri quadrati. Pesante la solitudine, l’assenza quasi tangibile dell’amore,/un’ora come un anno, tra chi raschiava il silenzio o annusava già la morte. Amaro il ricordo in «Ternitti/Eternit» del sole, per i Cingoli - emigrati,  del profumo di iodio tra i capelli in una terra che dà pane ,ma si fa riconoscere per il freddo duro delle cose,/puntava la persona,penetrava le ossa,/e apriva le dita, delle mani e dei piedi, come frutti maturi/e li bruciava. La vita nella sua fragilità è riproposta con l’angoscia che attanaglia i cuori e le membra dei figli dell’Amianto, sempre di un miracolo in attesa , così come nella solitudine di Ercole (Isola di San Servolo,1961) con il crudo disincanto dell’esilio, nell’isola dei matti, in una situazione temporale sospesa, che però stringeva quanto rimaneva dell’uomo in un vecchio/e ne spegneva a poco a poco gli anni da vivere/ al bambino che era , in una attesa-ricordo a cui aggrapparsi: che il fratello si mostrasse/ e lo portasse con sé. Per sopravvivere la violinista detta la pazza in « Concerto per Tchaikovsky - assolo di donna dal Gulag» più di tutti rappresenta nel gioco dell’assurdo sogni, per affermare, finché può, il vibrare dell’armonia tutt’uno con il suo corpo, l’abbraccio di un vuoto che vinca il buio  e forgi una preghiera. La Storia si ripete con ore crudeli, che siano quelle di Beirut nel settembre 1982 o quelle di oggi ,sempre si porta addosso l’odore di morte, sempre le ossa, prosciugate d’amore, pungono come chiodi e si ripercorrono strade, muri e sempre bocche aperte, forzate le case, l’inferno, un tempo lancinato, perforato dal fuoco con un segno franto: biancheria ancora stesa. Dal veleno della guerra si passa ad un altro veleno,un veleno che si è incuneato in ogni zolla dell’asfalto per un uomo che aveva osato scavare nel grembo indefinito dell’incerto e dare un respiro di colore per la terra,la vita, e noi figli. Ecco un atto d’amore ricambiato in quel Si chiamava Giovanni nella voce bassa del padre che stringe tra le sue quelle del figlio di fronte a «L’Albero di Giovanni (A Giovanni Falcone): Atto I». Spunto di queste storie plurali la lettura di un romanzo, l’ascolto di un disco,una canzone,una citazione ed ecco che il verso  talvolta assume una cadenza discorsiva,altra un ritmo incalzante e dirompente,altra una ricchezza di accordi, di suoni,sensazioni,colori da rendere nella frammentarietà, spesso atemporale, reti di interconnessioni.

 

Luisa Martiniello


Ignazio Gaudiosi:Tra sogno e realtà,Editoriale Giorgio Mondadori,Milano ,2023

La casta degli umani,/…/ ha posto quel suo scettro ove ha potuto./Spinge e sovverte corsi e situazioni.//../Piange la madre e guarda i suoi gemelli//…/non li potrà vedere il loro padre . Nell’antitesi lei sorride e piange si apre lo spaccato di una fossa , il padre dei gemelli sarà posto con altri e ricoperti tutti senza nome/…/ ignota la dimora. Tra sogno e realtà ci propone con una ben sperimentata  delicatezza di toni ora i drammi che si consumano alle porte dell’Europa, ora quadri intessuti di ricordi , quasi ad esorcizzare un tempo che mette sotto la lente della luce accadimenti congelati in un riposto cantuccio della storia passata, che prepotentemente si riappropria del palcoscenico di turno.

Il disprezzo per l’altro  conquista le prime pagine di cronaca e quasi ad emulazione  si ripetono gli abusi, spesso impuniti, a nulla serve lo schermo dell’età/…/ per silenti abusi ad ogni latitudine di chi è privato della forza/dell’anima e del cuore.

Il poeta non disdegna uno sguardo amaro sul presente, sulle necessità nascoste da un abbraccio, ne «La giovane del clan», un gesto mercenario che con leggerezza è conquista di una catenina, dileguata dal destinato, segnato dall’età.

La donna  per il poeta è  e deve essere un essere prezioso, che fa convergere in lei grazie e movenze e resta impresso, per esempio, di  un incontro fortuito, quel ticchettio vivace nel suo andare,un eco nell’andare che t’insegue; delle  acrobate fanciulle ammira la passione, la costanza :  fanno e rifanno segni come riti./…/ Rifulge quel linguaggio,/che folgora la vista/ col brivido improvviso/ a una silente, sospesa commozione.

E non manca lo sconcerto nel riscoprire presunte verità create e sparse/ da designati artieri, che fanno le verità di moda al tempo, ma all’errare collettivo ecco trovato il rimedio: la buona fede per l’utile d’abuso, che l’occasione ha imposto ad operare.

La calura accanita accende senza posa il frinire delle cicale , occasione di riflessione  per altri richiami: si sciolgono le nevi,/e pure quei ghiacciai/detti una volta eterni./ Si sgretola la roccia. Il poeta fa sentire il suo pianto per i mutamenti climatici, e condanna anche l’incoscienza, così come un improvviso bordo che discende lo porta ad affermare : dovremmo ripensare a un passo nuovo.

La natura si ribella: arde la terra in ansia,l’accidia ha colto pure le spighe,fogliame e fiori,/ che attendono un ristoro per non morire ancora:non sanno maturare// Il verso che s’è perso va trovato. Altrove La terra inaridita non riceve,/ rifiuta,si sommano i livelli/fanno fiumara,che s’apre le sue vie,/ sfonda e dilaga in furia /…/ Rimane solo il pianto e la rovina. Il poeta critica gli accorgimenti di occasione che non riportano le cose a come erano, invita a guardare alla Natura madre con il dovuto rito nelle cose.

 

Il testo è intessuto anche di tanti ricordi: la figura del nonno che consumava con lento manovrare il tabacco nella pipa, le nuvole azzurrine, gli sbuffi lenti, un susseguirsi di combinazioni che riportano l’odore delle cose tra il profumo acceso degli aranci e il poeta si volge a quell’ore antiche, al garbo di parole pronte all’occorrenza del padre ed ecco qualcosa somigliante ad un rimpianto.

Riaffiora alla memoria il guaito di gioia del cane Dogali, guardiano alla catena/ ai tempi d’Abissinia, che ha lottato col lupo,per difendere la famiglia e «Il trillo dei rondoni», virgole nel cielo,spersi puntini, in latitudini lontane o saette nella sera. E la loro gioia diviene la nostra, rapiti da quelle veloci prove di un prodigio,  che con mille acrobazie/.../miravano nei vicoli la rotta/…/ a squadra. Anche loro non si vedono più da tempo e quello che incanta  è quell’agire in gruppo, quell’andare a squadra: un monito per gli uomini sempre più monadi.

Ha segni di mistero il marranzano, con la sua voce quieta l’anima con le sue vibrazioni disegna panorami di rimpianti , ricorda gli usi antichi,rimanda ad una quiete più semplice e serena.

Ecco l’anima del tempo a ravvisare il gelo intenso, specie nel Trentino, superato con le “braghe alla zuava” e gli scarponi a doppia suola in duro cuoio,/ armato con le “brocche” per la neve, i bubboni regalati con i passaggi sui lastroni pressati poi a casa con la lira,/che rilasciava sempre quell’effige:/ la testa del regnante; a ravvisare  volti del passato, a ricucire circostanze-scusanze di fronte a una lastra che divide nel segno assai infantile di un ritorno, a rivedere quelle fila per la via per la quale non si passava spesso, ma con la guerra, la fame, il razionamento  e tessere coi punti che il padre impiegava/ per generi da dare a quei reclusi, in sanatorio, un sacrificio per chi stava peggio,che fa dire altrove:

Bella la vita/Bella l’amicizia/ Bella la natura.

Un canto ai luoghi dell’anima, dell’infanzia, della giovinezza : un commiato memoriale che nulla lascia all’improvvisazione.

I luoghi, seppur rivisitati, hanno un loro incantamento, racchiudono segreti, si percepiscono altre sensazioni in quel sommesso sciame di sentori, ogni curva un invito, ché un mondo… si dimostra nuovo,/ così lui fa pensare/ e la sparuta vista di una casa/racchiude un suo segreto,/che incute una discreta soggezione.

E nell’andare tra strade a gomito e sprazzi di vuoti, alternati a zone di rigoglioso fogliame, l’attesa di segnali in un susseguirsi di riflessi, giuochi facili di lampi, sequenze di rivoli lucenti. Un serrato proseguire, per cogliere impressioni nel perenne brulicare/ e fremiti a spiragli e poi lucori.

Il tempo ha dichiarato la presenza,per il poeta non è più tempo di avventure, di ardimenti, ma neppure d’inedia. Ora si addice un procedere più cauto, ma l’assillo del pensiero è lì ed ecco altre prospettive : dipende dal momento, dagli abbinamenti, da alterne ipotesi che inducono a qualche prospettiva/per via di quel ricordo che sovviene/ o da influenze con l’ispirazione che porta nuovo scompiglio.

Sfidano il tempo le pagine dei muri con  notizie, ammonimenti, segnali, inviti ad osservare. È una sfida col tempo la lampara che fa da richiamo ad un agguato  nella quiete dentro al golfo,ma la mente va ad un volo di farfalle a primavera, ricorse per  la grazia dei loro colori, prede appena tra un pollice ed un indice bambino, che tra grida di rimprovero,liberate, sono seguite dal rimpianto del momento.

La vita è ansia, rincorsa,sosta,attesa,ripartenza,sfida, desiderio di approdo.

Il poeta è sempre in attesa di un cenno che sveli attraverso abbagli o frange di frammenti un groviglio di esistenze o di misteri. L’uomo in attesa cerca un’altra luce/oltre il silenzio eterno/oltre il lenzuolo eterno costellato. Il deittico Oltre, in anafora iniziale, prolunga vertiginosamente questa proiezione.

Si resta a meditare sull’ignoto, pronti a percepire, ravvisare il cenno di un segnale che pare profilarsi anche quando l’alba sta concependo la sua luce, ma nel proseguire di accenti di pensieri/ estranei a una intesa del momento  si crede in verità raggiunte, subito smarrite.

Il percorso del fine indagato, amorevolmente atteso, se al contempo è oggetto sempre di interrogativi sul suo senso, dall’altra dischiude nelle tappe del viandante – poeta ad emozioni che fanno presupporre un cenno/dall’infinito ignoto che rimanda a vite non vedute d’altri soli/…/a un groviglio di esistenze e di misteri,sicché Tutto sorprende.È la Liguria, terra d’adozione, che ricuce la parola poetica ai fruscii, a improvvisi cenni di ipotetici messaggi, a guizzi che sembrano aprire a risposte, di contro un groviglio inestricabile di rovi, la muraglia montaliana e solo riflessi che rimangono negli occhi. È la parola lirica dell’attesa, della conquista della bellezza, associata ad una richiesta assillante di Verità, e l’amore che rendono l’andare degno: provare sentimenti e commozioni è una lezione che provvede al cuore/ e si diffonde per quelle verità/che fanno tanto caro il proseguire, pur se tra contrasti, combinazioni, occasioni, giochi di correnti:il concetto è che nulla resta fermo. L’esplorazione interiore come del paesaggio lunigianese, del visibile-invisibile divengono mondi complementari, trattati  con una soffusa malinconia. La parola, curata,si incastona in un verso che con naturalezza risuona dei suoi accenti, anche per le sue rime baciate o al mezzo in un andamento che accompagna ora il ricordo nostalgico, ora l’accusa senza verve di modalità di vivere, che escono dai binari dell’onestà, della correttezza nei rapporti anche rispetto alla Natura, violata dagli interessi del momento.

 

 

       Luisa Martiniello

 

 

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