Nota
al libro
Solitudini
di
Umberto Cerio
La letteratura tutta è costellata del sentimento di solitudine: solitudine come spleen, solitudine come riposo e ricerca di un alcova memoriale dove sperdere le nostre inquietudini, solitudine come immedesimazione leopardiana e contemplazione dell’esterno infinito dove smarrire noi stessi, solitudine romantica di fronte a un mare simbolo di libertà e di “smisura” che ci assorba e ci appaghi in questa avidità di spazi inappagabile. E queste sono le solitudini di Umberto Cerio che con grande maestria di simbiotica fusione tra versificazione e contenuti costruisce dei veri poemetti che spaziano dall’umano al mitologico, facendo di quest’ultimo una vera attualizzazione di supporto esistenziale. E quale miglior simbolo di solitudine della storia di Ulisse. E proprio in Itaca si attua la magica esplosione della parola fattasi poesia. Quale analogia migliore col dipanarsi della vita che questi versi pregni di tanto sgorgo lirico: “Non troverò Laerte / né il vecchio Eumeo né il candido gregge / non il mio vecchio cane ad aspettarmi. / Ma più non c’è Itaca / che ho fondato nei miei sogni / con animo fervido, / con furore d’inconscia adolescenza.”. “Ed anche noi, aedi – dice il poeta – cerchiamo la parola / e il verbo che ci salvi dal naufragio”. E forse per Cerio è proprio la solitudine dell’uomo ad alimentare il verbo della poesia.
Nazario Pardini
Arena Metato 24/07/2010
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