Sonia Giovannetti, collaboratrice di Lèucade |
Il tempo
Dov’è
il tempo se non nella memoria
che
tutto lega al cerchio del durante
e
l’essere fa eterno, e fin la storia
acconcia
a tratto immoto del pensante.
Dispensa,
il tempo, quella ria illusione
del
viver somigliante a un proseguire,
e fa
di sua apparenza distrazione
da ciò
che sta e ignora il divenire,
giacché
nel tempo ha dimora il vero
che
non trasmuta né conosce mete
ma
sempre torna a sé lungo un sentiero
ove
infinito il ciclo si ripete
come
in quel fato, amico del mistero,
che
porta al riapparir delle comete.
È iniziando da questo sonetto incipitario che
si penetra fin da subito nella pensiero filosofico della Poetessa. “Il tempo è
nella memoria” “e l’essere fa eterno” “nel tempo ha dimora il vero” “ove
infinito il ciclo si ripete”. Un sonetto di elegante struttura classica, legato
alla più vera tradizione italiana, che mette i puntini sulle i per quanto
riguarda la visione che la Poetessa
nutre sul passare dei giorni; e lo fa con le sue capacità versificatorie, varie
e articolate; proteiformi per adattarle ai diversi input emotivi del percorso
poematico. Tutto si ripete come le stagioni che non hanno riposo nel loro perpetuo divenire fra
vita e morte. La primavera torna puntuale a ricoprire i prati di fiori, e torna
l’estate a esplodere con la sua forza cromatica, ma torna pure l’autunno con le
sue decadenti gramaglie che tanto sanno di fine, come torna l’inverno con i
suoi richiami alla meditazione. Non esiste fine in questo gioco di naturali
richiami. Qui la verità. Qui la misura. Qui il gioco della clessidra che a
lungo andare ci parla d’eterno. E in questo divenire è la Poesia ad alzare la
testa al cielo segnando il suo cammino di regina; di vertigine sospesa, al di sopra,
e intrisa di vita, di morte e di tempo. Ma ciò non toglie che l’uomo non veda la di lui
venuta come un granello sottile e infinitamente magro dell’ingranaggio. Chi
siamo? a che serviamo? quale la fine?...
Altra luce esige il
tormento di questa notte
per non cadere tra le
braccia del vento,
come foglia smarrita e
non subire
il lavorio del tempo
che inganna la sorte.
Questioni che sorgono spontanee a rendere
inquieto e dubbioso un cammino che ci è toccato intraprendere. E questo è il
nostos di Sonia Giovannetti che
si affaccia alla scena letteraria con una nuova plaquette densa di humanitas;
di spirito odissaico, di indagine sul mondo e sul senso del divenire. Una
profonda e inquieta ricerca alla scoperta di se stessa, in quanto, ella,
segmento esistente di questo imperscrutabile labirinto che è l’esistenza. “Spesso ci sono più
cose naufragate in fondo a un’anima che in fondo al mare”, afferma Victor Hugo. Un lavoro intenso, maturo, frutto di una fatica plurale,
diverso dai canoni: un unico tema (il tempo) suddiviso in 3 capitoli (uno è
storico, dal 1915 a oggi..) e con 4 interessanti disegni dell’Autrice. Le
sezioni dell’opera, editata per
i caratteri della Casa Editrice Genesi di Torino, si sviluppano in parti continuative,
diacroniche, consequenziali, dove la ragione del nunc e di tutto ciò che
comporta si fanno motivo di indagine ontologica; di immersione nei meandri
dell’essere per carpire i motivi dell’esistere. Sì, il tempo in tutte le sue
sfaccettature etimo-sostanziali: quello che affonda le radici nel passato per
renderlo attuale, nel presente per coglierne tutte le aporie e i turbamenti
vicissitudinali, per farne piedistallo di uno sfondo visionario; per renderlo
reale, cocente e fervido, reificandone le emozioni. Il tutto senza pleonastiche
inclusioni, senza pedissequi epigonismi, ma con una complessa semplicità che dà
una visione chiara della poetica della Nostra; dei suoi intendimenti poetici:
musicalità, attualità metaforica, padronanza verbale, sentimento e memoriale
come ricupero di cose e fatti degni di
esistere e per questo storicizzati nell’antologia della vita; nel mistero che
avvolge il contenuto di questo poema. Non per niente Sonia ha inserito nell’esergo questa
esaustiva citazione:
“L’ignoto
della mia vita è la mia vita scritta. Morirò senza conoscere questo ignoto.
Come si sono scritte le cose, perché, come ho scritto, non lo so, non so come è
cominciato. Non si può spiegarlo. Da dove vengono certi libri? Sulla pagina non
c’è nulla e poi di colpo ci sono trecento pagine. Da dove vengono? Bisogna
lasciar andare le cose quando si scrive, non bisogna controllarsi, bisogna
lasciar correre perché non si sa tutto di sé. Non si sa cosa si è capaci di
scrivere.” (Marguerite Duras)
Tanti i perché, tante le questioni dell’essere e dell’esistere
che lasciano poco spazio a soluzioni di umana caratura. E ci sperdiamo nei
meandri della storia o in quelli di un percorso terreno quando non abbiamo
soluzioni concrete, noi umani condizionati da parametri contingenti; da visioni
legate a tutto ciò che ci colpisce per valenza cromatica ed estensiva. Sì, c’è
lo spirito, l’intima vicissitudine che tenta di elevarci al di sopra della
materia; al di là di un mare che sembra segnare la precarietà del nostro
esserc-ci: immensa la funzione epigrammatica dell’Autrice che cerca con ogni
mezzo speculativo in suo possesso di scardinare la serratura per aprirsi alla terrazza del sempre
o a quella della visione dell’isola
della pacificazione esistenziale: “È così che moriamo,ignari
- quasi - del nostro addio.”.
Di noi, del nostro
tempo, non rimane
che questo presente
muto.
Sopportiamo il silenzio
della notte
e non s’arresta la
folata tra i rovi.
Nella penombra, nulla
più cerchiamo.
Neanche il soffio
propizio. L’alito che smuove.
Eroi senza battaglia
puntiamo l’ago nella
rete smagliata,
continuando a tessere
filo spinato.
È così che moriamo,
ignari - quasi - del
nostro addio.
Tante quindi le
tematiche affrontate che danno forza introspettiva e efficacia verbale alla
plaquette: l’ora, il suo divenire indifferente allo stare di noi umani, la
memoria, quella de l’homme, il viaggio come metafora della vita, le radici, i
luoghi, la clessidra, l’amore. Dalla parte del tempo, il titolo del
“Poema”. Un titolo intricante, avvolgente che fin dall’inizio ci rapisce con la
sua oggettiva portata. “Un
paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”. (Pavese, La luna e i falò). “…Ritorno con
nell’anima lo sguardo/di una fanciulla intenta al corredo/che giocava
spensierata a palla/sorridendo con le ancelle. Torno a sera/zeppo di vita,
arricchito di genti di mari e di città/che colmarono in parte le mie voglie./ E
questa è la mia sera:/ è un’ora che lascia all’incoscienza del mattino/la
ricchezza del ritorno…” (Nazario Pardini: La
ricchezza della sera, da Le
simulazioni dell’azzurro). Perché queste citazioni? Il nostro non è altro
che un partire (Partenze una delle
poesia più significative della raccolta), un viaggiare con nell’animo però la
voglia del ritorno simboleggiato nella poesia de l’homme, delle radici, di
quella terra che ci dette le origini e che teniamo stretta in noi in un
abbraccio memoriale sempre più idealizzato, sempre più poeticamente lirico,
armonico, perché è l’anima a renderlo fluente, avvincente dopo anni di macerazione:
La voce dei miei canti
(a Castelnuovo di
Porto)
Terra mia, ti avvolgi intorno
a me che parto, a me che torno.
Da sempre ti appartengo
come un figlio alla madre.
Sai essere la voce dei miei canti
l’inchiostro della mia penna
l’albero che mi tiene avvinta alle radici.
Nel mio vagare da nomade
resti l’unica verità del mondo.
Pane di questo mio andare errabondo.
Sei la culla di ieri e il riposo di domani.
E. A. Poe (1809-1840), pubblicate le
sue Poesie nel 1831, nel saggio postumo Il principio
poetico definisce la poesia “creazione ritmica della bellezza”,
convinto che “il sentimento poetico si ottiene nell’unione tra poesia e musica,
giacché nella musica, forse, l’anima raggiunge quasi interamente il grande fine
per il quale, se ispirata da un sentimento poetico, essa lotta… per raggiunge
la creazione della Bellezza Suprema…”. Forse è proprio la Bellezza il traguardo
verso il quale è diretta la ricerca poetica della Giovannetti; quello stato di
ipnotico benessere che vince la miseria dell’umano, e la precarietà dell’esistere.
Dacché l’Arte è grandezza, volo, ascesa, superamento del limite. E nell’Arte,
in quella vera, non vale il discorso che la nostra vita è solo un tratto di
tempo prestato dalla morte. L’Arte va al di sopra del limite, del fragile, dell’occasionale,
di tutti quei parametri da cui è condizionata la nostra ragione: “Cos'è un uomo nella Natura?/ Un nulla
davanti all'infinito,/ un tutto davanti al nulla,/ qualcosa di mezzo tra il
nulla e il tutto.”. (Pascal)
Col vento che da
ponente arriva
s’attende lo strappo
della fune.
Il lento sciabordare
delle barche, ancorate
al molo, esegue la
sinfonia del distacco.
Lei dalla scogliera
guarda. Un ultimo saluto
col rosario che la mano
stringe, sul nero vestito.
Un dicotomico
dualismo fra la nostra terrenità e lo
spirito che tenta l’azzardo dell’elevazione; della creazione artistica che
pretende profondità e Bellezza.
“E’ nel ricordo e
nel tempo che gusto quelle lacrime” afferma Pirandello:
Mi chiamano da lontano
le voci del giudizio,
e il suono diviene
esperienza.
Ricordo e rivivo la
bambina
che ero. Toccavo il
mare.
Improsciugabile l’acqua
nel primo giorno d’estate.
“È
dopo un viaggio in cerca di falsi miti che si apprezza quella verità che
avevamo davanti agli occhi ogni istante” afferma Joachim du
Bellay
Roma
Poeti illustri ti hanno
raccontata, amata mia Città.
Cos’altro posso dire di
non detto
da lasciare al foglio
che vuole sapere di te?
Sei tu la luce che
cerco invano nelle altre,
la mia compagnia e la
mia solitudine
raddolcita dai colori
del tuo autunno.
Scrivo di te ogni
giorno, vivendoti.
Diventi la poesia che
penetra i miei sguardi
come il Tevere che si
fa strada tra le tue rive.
E come la poesia, sei
l’eco dei miei pensieri
volando via ogni volta
che cerco di afferrarti.
Fluttui leggera come
questa neve appena caduta
che trattiene
l’infinita bellezza della tua immortalità.
E la Giovannetti, pur cosciente dell’esiguità del mattino e della fragilità
della sera, affida il suo messaggio alla poesia; al mondo; a colui che ama; a
quella antica e imperitura arte a ché possa continuare la sua danza anche dopo la
fine del suo soggiorno: “io sarò ancora lì/ tra le tende mosse dal vento...”
Danza d’estate
Quando il mio profumo
sarà svanito
e la poltrona non avrà
più il mio calco
quando soffierai
sull’ultima candela accesa
e impetuosa scenderà la
notte
io sarò ancora lì
tra le tende mosse dal vento
e le pareti impregnate
di musica
ad inventare un passo
nuovo
alla mia danza per te,
perché è la poesia l’ancoraggio a cui si
appiglia Sonia in questo suo viaggio; un ancoraggio che non la tradisce, dacché è "Dalla parte del tempo" che nasce l'idea di un
tempo "amico" che non corre; di un tempo in cui, nella calma e nel
silenzio, la poesia è la sola a parlare.”.
Nazario Pardini
Non sarò mai abbastanza grata a Nazario Pardini sia per la rinnovata, generosa ospitalità che ancora una volta mi concede nell’ambìto e prezioso regno di Leucade, sia per l’acume critico con cui ha sempre mostrato di saper cogliere l’essenza dei miei scritti poetici, spesso rivelandola a me per prima. Devo dunque molto, e da tempo, al suo prezioso contributo esegetico che, andando avanti nel mio lavoro creativo, mi aiuta a capire ogni volta qualcosa in più di me stessa. Mai, infatti, come in occasione di questa mia ultima fatica – e come Pardini ha saputo sapientemente cogliere - ho avvertito, meditando sul tempo, la presenza incombente del mistero che muove la poesia a prodursi in noi e a cui, quasi inconsapevolmente, prestiamo il nostro inadeguato vocabolario. E se, per dare ascolto a Marguerite Duras, è il demone che abita i poeti a muovere la loro penna – come per altri folli a riempire di armoniosa bellezza il pentagramma e a plasmare e colorare lo spazio – niente più del tempo, entità inafferrabile ma concretissima, può consentire alla nostra vita di aspirare a un senso, ospitando senza un ordine prestabilito, con gerarchie fissate solo dalla nostra memoria soggettiva (dal nostro “senso interno”, direbbe Kant) gli eventi che danno sostanza al nostro esistere – “il tempo siamo noi”, finisce per concludere anche uno scienziato come Carlo Rovelli nel suo ultimo, bellissimo libro “L’ordine del tempo”.
RispondiEliminaE’ solo nella dimensione di un tempo siffatto che ho intravisto la possibilità – hai visto bene, caro Nazario – di trascendere gli impacci infiniti che immiseriscono il nostro quotidiano, per ritrovare l’odore di una bellezza del vivere cui tutti, credo, abbiamo diritto di aspirare, se – come del resto vale per ogni umano diritto – siamo disposti ad impegnarci ogni giorno per conquistarla.
Grazie a Pardini, dunque, per aver capito tutto questo di me.
Sonia Giovannetti
Ai giorni nostri già ci vuole del.coraggio a pubblicare in poesia, farlo prendendo come tema qualcosa di così spinoso e controverso come il tempo mi pare sfiori la temerarieta. Leggerò il testo della Giovannetti.
RispondiEliminaGrazie infinite, gentilissimo Luca Del nevo, della gradita attenzione al mio libro. Anche questo è un gesto temerario.
EliminaSonia Giovannetti