sabato 1 agosto 2020

NAZARIO PARDINI LEGGE; "SCISSURE" DI LUIGI MANZI


Luigi Manzi. Scissure. Ensemble Editore. 2020. Roma

Scende la sera più rossa d’un corallo.
Un giovane, pallido come un giglio,
sferza il puledro, caracolla sul sentiero.

Il fuoco sotto l’acero inargenta l’aria e la raddensa;
la chioma dell’albero ospita un corvo.

L’orizzonte divora il viola, lo mescola al vermiglio.
Il bracciante esausto
dorme arrotolato:
si sogna scolopendra. 

Il sole in lontananza
è un occhio
che si osserva (L’acero).

Eccolo Manzi, è qui nei suoi guizzi visivi, nei suoi palpiti reificati in giochi di inclusioni naturali. Cosa sarebbe Manzi senza lo specchio naturale, senza il linguaggio della sera, del giglio, dell’acero o del corvo? Un poeta senza parole, senza mezzi giusti per concretizzare le sue emozioni. Il fatto sta che la sua poesia va per tentoni, per segmenti, per quadri che noi dobbiamo mettere assieme come fossero parte di un puzzle; solo così possiamo capirne il senso e farlo nostro. E anche se il poeta si rifugia in un linguismo articolato e colto, non riuscirà mai a sfuggire alla nostra voglia di sapere di più sulla sua poesia franta, realisticamente surreale, alla ricerca di una sistemazione, di un equilibrio, di una positura lesso-fonica e verbale, che possa tenere tanta energia sperimentale nel suo travaglio linguistico; sempre in fieri, sempre in ebollizione. Una poesia plurale, polisemica, proteiforme, dove il verbo, con tutta la sua elasticità significante, si contorce per seguire gli input emotivo-costruttivi che gli vengono dal dentro.  Non è arduo dire che il poeta si scinde, si frantuma, si scavalla e si accavalla, si compone e si scompone nelle stesse poesie, passando da visioni ad altre spesso senza un filo logico. Forse si vuole dimostrare che la poesia è frutto di impennate istantanee, di momenti improvvisi, di riquadri policromi atti a delineare un animo in continuo viaggio verso un’isola, di cui si hanno percezioni immaginifiche, non riuscendo a vederne i tratti, anche i più vaghi, nei momenti di maggiore luminosità solare. Il verso si fa compagno di viaggio, amico indissolubile: fa capriole, si ingrippa e si sgrippa, si allunga e si scorcia, tanto che si passa comodamente da una prosastica andatura ad un dire breve e apodittico; da ipertrofie a ipotrofie con una agilità espressiva che fa di tutto per nascondersi dietro i ricami delle sinestetiche fughe lessicali, verso improvvisi metaforismi che ti sorprendono per la loro creatività. Dovessi definire questa poesia, cosa non facile dacché sfugge ad ogni classificazione, la direi di un realismo personale, al di fuori di capassiane  contaminazioni, o epigonismi di carattere anceschiano. Di certo non poesia di nostrana tradizione, dove tutto è attivo e fattivo con l’iperbolica intrusione dell’io poetico. Qui si parte facilmente da una suggestione estemporanea per passare quasi subito ad altra che riposa nella mente dell’autore. Tante sono; e il poeta passa da una all’altra senza preoccuparsi di dare loro un fil rouge, un assetto razionale, una continuità filologica, in sintonia con le possibilità recettive del nostro essere umani. Proviamo a fare un viaggio col poeta: Il faro: c’è una stella, la prima, che trema all’orizzonte; c’è una visione che arde le tempie;   un tu, l’unica creatura al centro del turbine; poi diventiamo in due, dispersi, ma che a volte ci incontriamo;  siamo complici eppure estranei.  Un procedere nuovo e frammentato, fatto di momenti a sé stanti, di tempi incongruenti, che non hanno la forza di dipanarsi o di spanarsi;   il poeta quasi stenta a riunire i suoi palpiti esistenziali  in un continuum. Un  faro, sì, che è essenziale per la navigazione ma che estende la sua luce in un campo ristretto oltre il quale domina il nero del nostro esistere. La barca naviga, anche nell’oscurità della notte, ma lì in agguato ci sono secche e scogli pronti a sfasciare l’imbarcazione; il poeta non  si ferma di certo, si aggrappa ad un asse scampato, e va verso l’isola  immaginata, agognata; è là che il navigante potrebbe avere la ricompensa del lungo viaggio; ma le stelle potrebbero essere offuscate dalle nubi, il cielo farsi annuvolato, la prua non trovare la rotta senza bussola. A parte la  metafora, il poeta percorre strade sorprendenti, colte e rare, e  cerca schizzi lessicali difficili, forse per seguire una via personale, senza intralci o affollamenti (cerilo, diffratti…). Una cosa è certa: l’opera presenta un’andatura narrativa, una sintassi poetica di grande elaborazione scritturale; il contenuto di fattura filosofica mette alla prova il cervellotico sforzo umano, ma non si può mettere in dubbio la completezza di un discorso che fa della navigazione la metafora di una vita spesso intrappolata  nella rete dell’esistere:

(…)
O come il pesce
che si muove in cerchio
intorno all’amo
che strazia la carne (Solstizio).

Nazario Pardini                       

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