Luigi
Manzi. Scissure. Ensemble Editore.
2020. Roma
Un giovane, pallido come un
giglio,
sferza il puledro, caracolla
sul sentiero.
Il fuoco sotto l’acero
inargenta l’aria e la raddensa;
la chioma dell’albero ospita
un corvo.
L’orizzonte divora il viola,
lo mescola al vermiglio.
Il bracciante esausto
dorme arrotolato:
si sogna scolopendra.
Il sole in lontananza
è un occhio
che si osserva
(L’acero).
Eccolo
Manzi, è qui nei suoi guizzi visivi, nei suoi palpiti reificati in giochi di
inclusioni naturali. Cosa sarebbe Manzi senza lo specchio naturale, senza il
linguaggio della sera, del giglio, dell’acero o del corvo? Un poeta senza
parole, senza mezzi giusti per concretizzare le sue emozioni. Il fatto sta che
la sua poesia va per tentoni, per segmenti, per quadri che noi dobbiamo mettere
assieme come fossero parte di un puzzle; solo così possiamo capirne il senso e
farlo nostro. E anche se il poeta si rifugia in un linguismo articolato e
colto, non riuscirà mai a sfuggire alla nostra voglia di sapere di più sulla sua
poesia franta, realisticamente surreale, alla ricerca di una sistemazione, di
un equilibrio, di una positura lesso-fonica e verbale, che possa tenere tanta
energia sperimentale nel suo travaglio linguistico; sempre in fieri, sempre in
ebollizione. Una poesia plurale, polisemica, proteiforme, dove il verbo, con
tutta la sua elasticità significante, si contorce per seguire gli input
emotivo-costruttivi che gli vengono dal dentro.
Non è arduo dire che il poeta si scinde, si frantuma, si scavalla e si
accavalla, si compone e si scompone nelle stesse poesie, passando da visioni ad
altre spesso senza un filo logico. Forse si vuole dimostrare che la poesia è
frutto di impennate istantanee, di momenti improvvisi, di riquadri policromi
atti a delineare un animo in continuo viaggio verso un’isola, di cui si hanno
percezioni immaginifiche, non riuscendo a vederne i tratti, anche i più vaghi,
nei momenti di maggiore luminosità solare. Il verso si fa compagno di viaggio,
amico indissolubile: fa capriole, si ingrippa e si sgrippa, si allunga e si
scorcia, tanto che si passa comodamente da una prosastica andatura ad un dire
breve e apodittico; da ipertrofie a ipotrofie con una agilità espressiva che fa
di tutto per nascondersi dietro i ricami delle sinestetiche fughe lessicali,
verso improvvisi metaforismi che ti sorprendono per la loro creatività. Dovessi
definire questa poesia, cosa non facile dacché sfugge ad ogni classificazione, la
direi di un realismo personale, al di fuori di capassiane contaminazioni, o epigonismi di carattere
anceschiano. Di certo non poesia di nostrana tradizione, dove tutto è attivo e
fattivo con l’iperbolica intrusione dell’io poetico. Qui si parte facilmente da
una suggestione estemporanea per passare quasi subito ad altra che riposa nella
mente dell’autore. Tante sono; e il poeta passa da una all’altra senza
preoccuparsi di dare loro un fil rouge, un assetto razionale, una continuità
filologica, in sintonia con le possibilità recettive del nostro essere umani.
Proviamo a fare un viaggio col poeta: Il faro: c’è una stella, la prima,
che trema all’orizzonte; c’è una visione che arde le tempie; un tu,
l’unica creatura al centro del turbine; poi diventiamo in due, dispersi, ma che
a volte ci incontriamo; siamo complici
eppure estranei. Un procedere nuovo e frammentato,
fatto di momenti a sé stanti, di tempi incongruenti, che non hanno la forza di
dipanarsi o di spanarsi; il poeta quasi
stenta a riunire i suoi palpiti esistenziali
in un continuum. Un faro, sì, che
è essenziale per la navigazione ma che estende la sua luce in un campo
ristretto oltre il quale domina il nero del nostro esistere. La barca naviga,
anche nell’oscurità della notte, ma lì in agguato ci sono secche e scogli
pronti a sfasciare l’imbarcazione; il poeta non
si ferma di certo, si aggrappa ad un asse scampato, e va verso
l’isola immaginata, agognata; è là che
il navigante potrebbe avere la ricompensa del lungo viaggio; ma le stelle
potrebbero essere offuscate dalle nubi, il cielo farsi annuvolato, la prua non
trovare la rotta senza bussola. A parte la
metafora, il poeta percorre strade sorprendenti, colte e rare, e cerca schizzi lessicali difficili, forse per
seguire una via personale, senza intralci o affollamenti (cerilo, diffratti…).
Una cosa è certa: l’opera presenta un’andatura narrativa, una sintassi poetica
di grande elaborazione scritturale; il contenuto di fattura filosofica mette
alla prova il cervellotico sforzo umano, ma non si può mettere in dubbio la completezza
di un discorso che fa della navigazione la metafora di una vita spesso intrappolata nella rete dell’esistere:
(…)
O come il pesce
che si muove in cerchio
intorno all’amo
che strazia la carne (Solstizio).
Nazario
Pardini
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