Daurija Campana
SOLA TRA MEMORIA E DOLORE
Recensione di Floriano Romboli
Le poesie di cui consta la silloge Sola tra memoria e dolore, recentemente
pubblicata dalla Casa Editrice Guido Miano, scandiscono i temi fondamentali e
le prevalenti soluzioni formali-stilistiche di una ricerca artistico-letteraria
rigorosa e coerente, che copre all’incirca un arco cronologico decennale, da La casa di paglia (2013) a L’ultima campana (2021). Al fine
dell’impostazione di un’analisi critica inizierei con il porre in risalto la
forza caratterizzante del motivo vitalistico,
che sovente assume nei testi il tratto specifico dell’amor vitae («…Del nostro stupore / il mondo era degno, / i sassi
sembravano chiari diamanti, / la nostra capanna parea un castello, / ed ogni
bottone una medaglia… //…// O era la bella estate di allora, / la speme di
bimbo, senza bisogni, / che coglie la vita come il più bel fiore?», La casa di paglia), e viene
ulteriormente precisandosi come amore
della terra, con tutta la serie
di correlazioni naturistico-descrittive, con un corpus di spunti studiatamente celebrativi della grande civiltà
contadina, rappresentata nella freschezza coinvolgente, nell’autenticità
corroborante rese anche mediante le sequenze enumerative: «Sopra le chiare colline di grano / che bionde
ondeggiano al soffio del vento / qui, oggi, io ho scoperto la vita: / era vestita di fiori di pesco // che
cinguettavano mesti lontano / portavano al cuore un bel sentimento / come d’eterna gioia infinita / di un respirare umido e fresco // di fronde, di erba, d’acqua e di zolle / di coccinelle e
farfalle nell’aria…» (La vita, corsivi
miei, come sempre in seguito); «…Avremmo ancor / vissuto tra i canti degli usignoli / in pace … tra le onde del mare e ricordi
lenti / che si dissolvevano all’orizzonte? / Avremmo ancor respirato, sentito,
/ toccato, annusato, mangiato, visto? / O la vita si sarebbe spenta lì?» (Guerra).
Nell’àmbito di tale ethos rurale, nel contesto di questa schiettezza agreste si creano
profondi rapporti affettivi, legami sentimentali saldissimi che costituiscono
la trama sostanziale e irrinunciabile dell’esistenza: « “…E quando l’aria
fresca di settembre, / dolce la pelle d’oro accarezza, / non resta che l’aratro
preparare / e raffinar le secche e dure zolle. / E bella è la terra anche a
novembre, / quando è lavorata e non più grezza / pronta per il grano seminare, /
o quando l’inverno la rende molle. //…// Chi mi darà la mano in questo mondo, /
quando mi troverò davanti a Dio?” / ti stringo forte e d’impulso rispondo: “Babbo,
vedrai che te la stringerò io!”...» (La
mano del padre).
Tuttavia il quid proprium dell’elaborazione estetico-culturale di Daurija
Campana consiste nella sofferta sottolineatura della precarietà delle
condizioni ideali ed emotive della felicità, della facile, dolorosa
disgregazione di quelle relazioni preziose sotto l’azione inesorabilmente
distruttiva del tempo: «… E scorre il
tempo tra le dita / e non te ne accorgi? / Non rimane che il solco / e la
ferita che sanguina nel cuore. / Niente è;
nulla sarà più. / Senza di te,
neppure l’azzurro pare sereno; / è solo uno dei tanti colori, / senza scopo né
senso, / che illudono l’attesa senza
consolare, / senza riempire, senza essere veri…» (Novembre).
Da ciò deriva quel tono di triste,
sommessa elegia che pervade i versi, non schermata e tanto meno risolta dalla
tenace inclinazione memoriale: «Avrei
voluto che fossi rimasto / fino alla fine della partita / ma il tempo agisce
spesso in contrasto / e te ne sei andato pieno di vita //…// Prosegue ora lento
il gioco del calcio, / tutto è scandito con ritmi lontani / di quei ricordi rivivo uno stralcio, / vorrei
stringere forte le mani // ma l’arbitro fischia, la palla cade, / tu chiudi gli
occhi ed inizi a dormire, / dormon le stelle e dormon le strade / e la mia
gioia inizia a finire…» (La partita).
Il linguaggio dell’autrice è
lessicalmente medio e sintatticamente agile ed essenziale, pur rivelando
accuratezza di esecuzione e notevole equilibrio, nel ricorso a qualche arcaismo
(«…Eppure ancora io credevo / parole di bimbi lontani / con desiri da realizzare…», Non i sogni ma le persone), alla rima («Settembre: acre profumo di mosto. / Vorrei cogliere fichi al solito
posto / e guardar la strada dalla
collina / mentre l’inverno, lento si
avvicina…», Settembre), all’anastrofe
(«Pennello che accarezzi la mia tela, / sinuosa traccia dalla mano stanca / quello
che io vedo tu rivela / colore imprimi sulla parte bianca…», Colori), all’enjambement («Ti ho perso, sai? Tra le lacrime / uggiose del
meriggio / ho lasciato che solo la mente /
mia migrasse
lontano…», Novembre, op. cit.);
all’eleganza dell’espressione poetica corrisponde quella della composizione pittorica,
la quale si affida a un disegno vigoroso e a intense “macchie” cromatiche, che
evidenziano, su uno sfondo solitamente sfumato e semplicemente accennato, una
figura principale, ora soltanto evocata e non realisticamente riprodotta (v.
l’olio su tela Mio padre, ove la
persona è non casualmente ritratta di spalle), ora più dettagliatamente
delineata con esattezza pensosa (v. Ryder
affamato e Autoritratto-Come
Artemisia).
Floriano Romboli
Daurija Campana, Sola tra memoria e dolore, prefazione di
Enzo Concardi, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 80, isbn
979-12-81351-05-9, mianoposta@gmail.com.
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