Recensione
a
Maria
Grazia Ferraris: Aprile di fiori
Montedit Edizioni. Melegnano (MI). 2013. Pp.
50
Un’avventura
che il poeta definisce:
“C’est
un rêve: il vaut bien le vivre”
M’affascina la natura, - è poesia, -
- un dio vi spira, - dolce e lusingante.
Ma lotta è in me, ché esser non vorrei
d’un inevitabile nevrotico idillio
l’ingenua autrice: spingermi vorrei
al di là dell’idillio…, per attingere
dal drammatico nostro quotidiano
la chiave del vivere insensato… (Poesia).
È
qui la poetica di Maria Grazia Ferraris, in questa sua fusione coi colori e le
forme floreali di cui Natura ci fa dono. Ma non si vuole fermare assolutamente
ad un semplice ritratto dillico-elegiaco; vuole andare oltre; da lì prendere
spunto per cercare armonie, musicalità perdute, che cedono il passo al sogno:
“come di sirena il canto/ fascinoso s’abbatte smemorato/ sullo scoglio arido
della vita”; vuole dire di sé, del suo essere, dei suoi pensieri, delle sue
memorie, delle sue contrarietà verso un mondo che sembra perdersi e fare di
tutto per rendere un deserto il suo cammino: “Dimentica le tue guerre che
producono solo/ deserto: il deserto che tu chiami pace./ Accarezza questa
natura, che consola” (Pace).
Plaquette di 36 poesie interamente
dedicata alla Natura, ai fiori, alle sue più preziose perle, inanellate l’una
con l’altra da un filo lucente in una collana di attraente
rarità: un luminoso filo che si fa leit
motiv della silloge: l’amore per il verso che sboccia in sepali, in petali,
in corolle tanto vicini, nella loro varietà e nel loro rapporto terra-cielo, al
dipanarsi delle vicissitudini umane. E tutto scorre in maniera duttile e
morbida, gentile e graziosa, silente e graffiante, ma pur sempre limpida come
l’acqua di un ruscello che rimanda il brillio dei candidi sassi dai fondali.
Sì, l’autrice fa trasparire i delicati abbrivi della sua più profonda interiorità,
cristallizzandoli in profumi, colori, in ossimorici azzardi, anche, ora
primaverili, ora autunnali, ora spavaldi, ora fugaci, ora ferali a significare
la bellezza, la precarietà, il mistero e il dolore dell’esistere. E c’è in
tutta la diegesi dell’opera quella tematica confidenziale, quella filosofia di
tensione orfica, volte a sottrarre la bellezza agli annichilenti artigli del tempo.
Ma il tempo c’è con il suo fagocitare senza requie, con la sua sottrazione del
bello e del brutto; e la Nostra è cosciente della sua rapacità che si manifesta
in una dicotomica visione fra il polemos
degli opposti di sapore eracliteo. Polemos
che condiziona, d’altronde, il succedersi dell’umano procedere, se il fulgore
di tali perle, il loro gioco aereo di parole alate, il loro profumo inebriante,
la loro gioia bambina, il loro caparbio fiorire, se lo stravagante brillare dei
loro colori si sfrontano con il misterioso e inquietante elevarsi dei pinnacoli
gotici dei cipressi ; o se si sfrontano con lo “ Stupore oscillante tra il
drammatico/ e il grottesco, ilare e liberatorio,/ l’hortus poetico di fiori
daliliani”, o con l’urlo muto alla morte della dalia, che tanto sanno di via crucis, di ultimazione e di redde rationem. Ossimorica dualità del tempus fugit. E la parola segue attenta
e puntigliosa, colle sue espansioni, col suo rattenersi, o col suo combinarsi
di perspicua sapidità disvelatrice, la sicurezza del ductus poetico. Una parola che denota un’assidua frequentazione
dell’ars dicendi. E la Natura non è
certo trattata come gioco a se stante, o come arcadico ozio letterario, ma
vive, umanamente vive, fino a invadere gli spazi sottostanti del pensiero. Sì,
si ravviva di memorialità, di stupefazione, di slanci emotivi che si traducono
in una vis creativa di grande impatto
esistenziale. Dacché la Nostra non si limita a descrivere, a rappresentare, ma
fa sentire continuamente la sua presenza accanto al mutare dei giorni e dei luoghi,
delle immagini ora giovanili, ora superbe, ora dimesse che richiamano i
segmenti di una storia. E tutto evidenzia una grande scientia florum di timbro lucreziano - tibi suavis daedala tellus summittit flores - ma anche e soprattutto
una capacità versificatoria di un simbolismo lirico da idillio leopardiano:
ardore allusivo di metafore con giochi sapidi di allegorie. E c’è la dalia “fra
i vibranti seducenti gelsomini” con il suo urlo muto. E ci sono i Papaveri a
Micene:
Papaveri dalle grandi corolle
rosse,
dal cuore nero, urlanti nel
vento che li culla.
Rosso: il colore del dio della
vendetta.
Micene ancora sanguina al
ricordo.
Papaveri rossi, rossi… di
sangue! (Papaveri a Micene).
Le
Ninfee:
Ninfea bellissima, di fredda
perfezione,
tutta superficie, senza radici
vere,
bianca e immobile, casta e
algida,
fiore di acqua, giglio di
morte:
la metafora sei di tante vite
di donne,
belle e inutili,
egoisticamente perfette,
senza radici (Ninfee),
in
cui la Ferraris non disdice un appunto a questo esibizionismo fatto solo
d’immagine in tempi di disvalori.
Ed è superbo, poi, perderci in giardini
segreti, incantati di magnolie lucide, carnose, morbide e levigate debordanti
dai cancelli chiusi che richiamano la bellezza, il mistero, il sogno, la felicità
e ri/conducono ad antiche primavere; ad alcòve verso cui la Nostra tenta una
fuga di edenico riposo, pur con il rammarico di occasioni sprecate:
… le ultime interrogazioni,
poi l’estate adolescente.
Più sognato che realmente e
felicemente vissuto.
La felicità era in quel
risveglio, in quello stupore,
in quell’attesa di non so che…
Non lo sapevo
e il ricordo ingenuo ha un
retrogusto amaro,
quello delle giovani occasioni
sprecate (La magnolia).
Perché
si sa che la memoria riporta a galla, anche ingigantite dal tempo, immagini
tanto forti che gridano la loro esistenza per ritornare a vivere.
Ma è nelle sei pièces di Le stagioni delle viole che la Ferraris
riesce a raggiungere note di tale intensità lirica da tradire quel tale Krònos
che tutto pretenderebbe di distruggere. Un canto che la poetessa affida alla
pagina con intenti da dolci illusioni foscoliane. Chiede persino aiuto ai
grandi poeti del passato, ricorre ai loro versi più incisivi da cui prendere
spunto e dimostrare quanto valga la bellezza per la memoria umana; per il sogno;
per la vita. E non è certo sfoggio di sapere, ma indice del grande spessore
culturale della Nostra. Una cultura, che, decantata nel suo animo, torna a vita
verniciata di un sentire fresco e rinnovato. Un mélange di poesia, mito, natura
e ricordi che, sapientemente fusi fra di loro, offre una resa lirica corposa di
significativi richiami fonico-allusivi: la favola di Zeus e la violetta (“fece
spuntare tra l’erba piccoli fiori dolci e profumati”), la commozione di quei
racconti ri/vissuti (“Il primo amore della mia vita”), l’incanto della Disputatio di Bonvesin della Riva (“il
fascino della bellezza quieta del piccolo fiore”), o quello del paesaggio
fiorentino primaverile del Poliziano. È il gioco delle immagini che lascia
indenni, accovacciate nell’anima, quelle gioie che tornano più lucide nei
nostri autunni. E il tutto narrato senza pesare, in maniera sciolta e en passant, come quando si confessa in
poesia un nostro qualsiasi naturale sentimento: “O violae… molles et violae,
Veneris munuscula nostrae…/ quae vos, quae genuit tellus?”. Oh i suoi petali di
velluto! “Vos semper amabo”. Anche il
latino stesso assume una connotazione sentimentale fresca e pura, di acqua
sorgiva carsica che talvolta scende nel sottosuolo, talvolta scorre in
superficie, fluisce limpida e soprattutto toglie sete. E non si può di certo
soprassedere a quel “mazzolin di rose e di viole” di memoria leopardiana: la
felicità dell’attesa. La grandezza della semplicità nel poeta dei poeti:
… leggevo presa, e mi
dimenticavo che la poesia
sola può legare
fantasticamente insieme
rose e viole, nella fantasiosa
suggestione
poetica dell’idillio…
Il dì di festa: domani di rose
e di viole… (Le
stagioni delle viole, 4)
Sì,
nei giardini da sogno, dove brillano petali e piante lussureggianti, debordanti
fuori dai cancelli che li recingono, in quei giardini possono crescere anche
fiori che mascherano colla loro bellezza veleni mortali; come nella vita. Ma in
questo giardino la Ferraris sventola amore, ed è esso che prevale sul tutto.
Amore per il mondo, per l’esistere, per questa avventura che il poeta definisce
“C’est un rêve: il vaut bien le vivre”.
Amore per questa arte sempre-verde e per la natura che la ispira. Ed è a lei che
affida il suo caldo grido perché faccia eco e risuoni senza tempo nei cuori
degli uomini:
… Pace è questa natura trepida
e luminosa,
sollecita fantasia, ballo di
colori brillanti,
il sorriso della vita che si
ridesta (Pace).
Nazario
Pardini
10/10/2013
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