Il cantico
dell’aia
E’ già festa sull’aia. Ecco i canti
di giovani fanciulle, stamattina,
ai raggi luminosi sulle stoppie,
alle finestre aperte alle speranze.
I carri, pieni zeppi, porteranno
i covoni stridenti di calura.
Braccia nude (coperte gaie teste
di pezzuole ricamate arcobaleno)
batteranno le spighe per stornare
i grani dalla paglia. Ton, ton…
Si avvicendano i tonfi sul selciato,
e l’uno dopo l’altro danno il ritmo
ai canti tramandati dagli atavici
riti rurali. Girano le fiasche
di acqua cristallina a liberare
le gole dalla pula: voci allegre,
grida di piacere, scherzi loquaci,
lieve rugiada dal cielo del cuore
che dalla fronte cala a gocciolare
sopra la paglia rovente dell’aia.
Venite dee dell’abbondanza, dèi
delle cantine, dei granai, dei
forni! Venite ad immolare le fascine
per porre pane sacro sulle mense
sane e frugali dei loro commensali.
Di già fa capriole sopra i tetti
il fumo del camino. Già si annoda
ai rami verdeggianti di stagione;
già riposa sui rossi cocci, grigio,
prima di mescolarsi fra le nubi
infilzato dai voli
svelti al sole di luglio. Il grano è
pronto.
Ritorna dal mulino in bianca veste
per darsi alla massaia. Ella lo
spegne,
lo forma, lo riscalda una nottata,
e con la pala
lo infila nella bocca generosa
per l’uso sacro del cantico del pane.
Si diffonde il profumo per la corte;
chiama padri, fanciulli, che dai
campi
a gustare corrono vogliosi
schiacciate calde di ciccioli e d’uva
che la pergola ha data in abbondanza.
Si torna dalla terra;
riposano le bestie nelle stalle
per uscire di nuovo alla campagna.
Si pranza. Il primo pane una manna
col pollo del cortile ed i fagioli
con le cotiche tenute in salamoia.
Giorni di pace, di festa, d’amore;
il connubio fra l’uomo e la natura
si attua ogni mattino ed ogni sera.
Peccato che gli dèi, stanchi oramai,
di uomini lontani dall’Olimpo,
abbiano evaso gli usi; che gli
umani
abbiano smesso antichi sacrifici
ai filari di vigne, alle raccolte;
abbiano smesso di cantare ai forni,
alle feste di sfoglie, o a pigiature
nei tini gorgoglianti di romanze,
dove gli occhi di giovani incantati
cercavano l’amore fra le chiome,
o fra i seni ammorbiditi dai sospiri.
Luglio, 1973
Caro Prof. N. Pardini,con questa poesia mi ha fatto ritornare al mio tempo di fanciullo quando anchio sull'aia facevo (si fa per dire) tutte quelle cose così poeticamente sopra descritte e le assicuro che è stata una inaspettata, piacevole sensazione che mi turbato positivamente non poco. Grazie per questo ritorno alle "corse senza fine e capriole/tra covoni a schiera a pila sull'aia".Pasqualino Cinnirella
RispondiEliminaMi perdoni quell'anchio (anch'io) e la mancata -ha- prima di turbato.L'enfasi a volte tira brutti scherzi. P.C.
Elimina" Nostalgia di un passato di fatica e gioia nella sua figurazione rurale a partire dai campi seminati a grano seguendo tutto il ciclo farina-pane. Il poeta, attentissimo a questo mondo, ora completamente trasformato, volatilizzata la sua componente romantica, con il suo Cantico ci ricorda quando abbiamo smesso di cantare. Quando abbiamo smesso di...sognare."
EliminaUbaldo de Robertis
Professore adorato, io ho rivissuto il clima dei grandi della letteratura, Leopardi, Pascoli, le loro atmosfere ben collocate nel tempo, eppure senza tempo. Non ho avuto la gioia di vivere queste esperienze, ma i miei genitori, i miei nonni, si sono soffermati spesso a descriverle e, scorrendo questo soave acquarello, ho avuto la sensazione di tornare a un 'tempo senza tempo', puro e incontaminato, nel quale:
RispondiElimina"Girano lieve rugiada dal cielo del cuore le fiasche
di acqua cristallina a liberare
le gole dalla pula: voci allegre,
grida di piacere, scherzi loquaci
lieve rugiada dal cielo del cuore"
ogni verso cesella un momento e l'Autore viaggia sul registro delle più intense similitudini... cosa dire del verso 'lieve rugiada dal cielo del cuore'? E' un'espressione in cui l'onda musicale dell'endecasillabo, dolcissima, originale, avvolgente, sembra sfuggire a ogni tentativo di approccio banale.
Il Professore ricorre alla magia degli endecasillabi,interrotti, ad arte, da un quinario e un settenario, li lascia scivolare, nella loro fulgida musicalità, tra gli eventi 'svelti al sole di luglio'. si respira l'atmosfera, a noi sconosciuta, in cui
"gli occhi di giovani incantati
cercavano l’amore fra le chiome",e, pur nel canto attinente alle cose elementari, ovvero connaturate e indispensabili all'uomo, v'è la volontà del contrasto tra la solidarietà d'un tempo e 'gli umani che hanno smesso antichi sacrifici', privandosi dei sentimenti primordiali. Il caro Nazario, con maestria e levità, invita a posare lo sguardo sull'umiltà dei ricordi con religioso rispetto. Infatti le cose citate non solo sono esistite, sono state vissute tutti i giorni, ma devono considerarsi strumenti buoni della vita dei nostri cari e della nostra storia. Rappresentano gli strumenti buoni della vita, ai quali non abbiamo tempo, nè amore per prestare il dovuto riconoscimento...
Mi sono commossa soffermandomi sul senso del perduto.
Ho sofferto e tremato. Come tremavano, forse, 'le giovani fanciulle'... E m'inchino alla saudade del Professore didattica e superba!
Maria Rizzi
Ho iniziato in prima persona e sono passata alla terza... l'Istinto non è amico!
RispondiEliminaMaria Rizzi
L'affabulazione poetica dell'amico Nazario, con il suo carico di emozioni vissute e, quindi, intensamente partecipate, trova facile accesso e indubbie rispondenze nei cuori sensibili, soprattutto in quelli di quanti hanno in comune con lui un retroterra umano e culturale, ma in particolare l'esperienza -diretta o indiretta- della vita dei campi o, comunque, una contiguità con questo mondo di fatica, di semplicità, di speranza. La festa del grano, la festa del pane. E della giovinezza e dell'amore...
RispondiElimina"Peccato che gli dèi, stanchi oramai,/ di uomini lontani dall’Olimpo,/ abbiano evaso gli usi; che gli umani / abbiano smesso antichi sacrifici ..."
Pasquale Balestriere