ANDREINA CEKOVA E LA POESIA NEL DIALETTO SLOVENO DELLE VALLI DEL NATISONE
La ricchezza culturale e linguistica del
nostro paese si nutre nella varietà delle sue innumerevoli voci del bene anche di
presenze che oltre a confermarla nella polisemia di una sostanza non secondaria
nel cuore di un'Europa ancora lacerata e divisa hanno il merito all'interno
stesso di dette fratture di un'interrogazione e di una memoria franca. Questo
grazie soprattutto a una parola aperta e libera nell'incisione del riconoscimento
a vincere nella pronuncia delle identità chiusure e retrodatazioni delle storie
nel carico e nella gioiosità di un'esistenza insieme universalmente appresa e
condivisa. E' il caso, splendido, di Andreina Cekova, autrice nel dialetto
sloveno delle Valli del Natisone da dove proviene, Benečija slavia veneta o slavia friulana, in quell'area di confine con
la Slovenia che va da Tarvisio a Muggia, e insediate da popolazioni parlanti
diverse varietà di lingua slovena a risalire al VI-VII° secolo. Zone segnate
nel cammino di sangue del secolo scorso da processi di segregazione e
progressive cancellazioni il fascismo
della minoranza slovena, a proposito di identità, capillarmente, violentemente
assimilando a quella italiana (nella ricchezza bibliografica segnaliamo
soltanto tra gli ultimi titoli il bel romanzo di Alojz Rebula Notturno sull'Isonzo). Infermiera, classe 1961, la Cekova educata
come lei stessa racconta a non nascondersi e a non vivere nella vergogna (cresciuta
tra l'altro negli anni terribili della guerra fredda) si fa strumento allora
con la sua scrittura non solo "di ricordo, di difesa, di protezione"-
e dunque di forma di resistenza- della propria comunità (soprattutto per chi
non della provincia di Trieste non ha avuto la possibilità di una educazione
slovena) ma con determinazione, semplicemente e senza retorica, della comunità
umana tutta nella familiarità di luoghi, trasmissioni, figure, dell'abitare, a
buon diritto e prossimo, della terra. Questo infatti risale dal sistema di
incisioni, tracce, impressioni a lasciare nel peregrinare ora simbolico ora più
carnalmente reale tra strade, pietre di paesi in abbandono e tunnel di confine,
dai cui imbuti ancora l'odore e il rimestare delle carni sembra incombere sulla
geografia storica e spirituale, il senso di un esserci che nell'imprimersi
dicendo dice ancora la vita nella sua evocazione, almeno a lasciare "un
segno/- fino alla prossima pioggia" ("no znamunje/- do druzega daža").
Giacché quella della Cekova è sempre una poesia nel raccordo di una letizia che
proprio dalle macerie si accende annunciandosi da una natura sempre più forte
dei condizionamenti e degli stravolgimenti umani. Si veda al proposito il testo
"Kolovrat" ("Colovrat") dove proprio dai tunnel della prima
guerra mondiale il pensiero di morte finalmente va a perdersi "proprio
davanti all'ingresso buio/disorientato/ da tutti quei bucaneve in fiore"-
"glih pred veliko tamno jamo/zmotile so jo/vse tiste cvetoče
pindulince"). La volontà allora di raccontare e celebrare la sua
Valle, l'affetto verso il luogo in cui è nata, ha il valore anche, come già ben
rilevato da Alfredo Panetta, di un interrogare dalle figure dei suoi archetipi,
dei suoi sogni, delle sue radici una civiltà e una contemporaneità disgregante,
riappuntando allora, senza cancellarne gli orrori, motivi e aspirazioni di un
essere nella terra come essere della terra. Di qui allora come dicevamo nella
rievocazione affettiva di boschi, luoghi, cari, interni domestici tutta la
forza di una grata rimessa al perché dei giorni nei legami di sempre, rivissuti
e rivitalizzati nella riattualizzazione delle promesse (si veda "Mamine
narve"- "Le briciole di mia madre"- nel ricordo piccolo ma
esemplare di doni, di biscotti ad attendere sopra la mensola), sferzante sempre
poi nell'apparenza di una leggerezza che ha nel tratteggio delle figure il
perché di un coro da cui nessuno è escluso. Fiori bianchi nei ciliegi del cuore
a smentire nella vita quel volere della morte nei luoghi da noi stessi
altrimenti addormentati nella morte ("čerieŠnjove rože"- "Fiori di ciliegio"). Una poesia dunque saldamente aderente alla
storia certo ma a partire dalla realtà delle piccole cose come la Cekova stessa
tiene a ricordare (ricordando in questo la Szymborska), "poesia
briciola", come la giuria del premio Ischitella- Giannone l'ha definita in
uno dei tanti e meritati riconoscimenti, che ha nell'amore, in una lingua
semplice perché molto pratica, la consapevolezza- e la misura- del non sapersi
bastare. Un'opera infine che all'esordio nel 2011 per la cura del Circolo
culturale sloveno di Cividale del Friuli con
Sanje morejo plut vesoko (I sogni
possono volare alto) è ora nella fase di stampa del già apprezzato nella
sua versione inedita Pingaluenca ki jo
nie bluo (L'altalena che non c'era) e
a cui andando a concludere auguriamo tutta l'attenzione che merita.
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