La nuova raccolta poetica di Gabriella Maggio, Echi (Il
Convivio Editore, Castiglione di Sicilia, 2022), segue la
via dell’essenzialità e, al contempo, della compattezza
contenutistica. La pregevole prefazione dell’illuminato
poeta e fine critico Dante Maffia ne traccia con perizia
le linee distintive, “vestendo” la silloge del miglior abito
cui abbia potuto aspirare. Non a caso Maffia parla di
una “macerazione lenta e limpida che porta ad esprimersi
con chiarezza e semplicità”.
Gabriella Maggio, ex insegnante ora in pensione, nel
corso della sua carriera letteraria che l’ha vista collaborare
attivamente con la Libreria Spazio Cultura di
Palermo, vincere importanti premi letterari e pubblicare
– prima di questo volume – la silloge Emozioni
senza compiacimento (2019), appare all’attento lettore
dei suoi versi come una donna resiliente dalle capacità
comunicative assai rare. Il dettato linguistico dei suoi
componimenti (pochi, è vero, ma in grado di aprire
mondi vasti, a noi paralleli o, in quanto al passato,
da noi fedelmente ricercati) predilige uno stile per lo
più asciutto in cui la parola è generalmente fruibile in
via automatica, in altre circostanze fanno capolino altre
costruzioni leggermente più elaborate fondate su
un’esigenza di dire tramite il dato evocativo. Non infrequenti
appaiono le analogie; alcuni versi sembrano
addensarsi attorno a immagini ben definite, a loro volta
plausibili chiavi di lettura e fili rossi distintivi dell’intera
“narrazione per immagini”. Mi pare di avvertire anche
una lieve adesione a quella poetica del frammento che
fa dell’essenzialità e della rievocazione per squarci del
reale il motivo di partenza per ricondurre poi, in chiave
sinottica, a una visione di completezza e di globalità
dela vasta gamma dei temi a lei cari. Il titolo della raccolta,
“echi”, ben chiarifica il rimando a un qualcosa che
si è prodotto in un altro spazio-tempo e ha avuto un
prolungamento in un dopo. La poesia (e la letteratura
tutta) dato al fenomenale mezzo (se ben usato) dell’intertestualità
e della rievocazione di fonti, non è proprio
un bagaglio inesauribile di echi, di voci che ritornano,
di linguaggi e messaggi lanciati in altre età, riletti e fatti
propri? Rientrano negli “echi” della Maggio i componimenti
che parlano di uno ieri apparentemente lontano
(così come le figure importanti della nonna e del genitore
paterno) eppure ancora percepibili in quei riflessi
intimi. Sono echi non sonori, privi della loro dimensione
prettamente uditiva, ma che esemplificano quel
profondo radicamento a un prima che connette doppiamente
la Nostra, donna prima che poetessa, tanto
alle origini ancestrali quanto al cambio progressivo
della società e alla fluidità del presente. L’immagine di
copertina, che propone una sorta di sdoppiamento (e
rispecchiamento) dell’autrice tra una Gabriella Maggio
reale (a sinistra), in carne e ossa (ritratta, immaginiamo,
durante uno dei tanti eventi a cui prende parte) e
di una Gabriella Maggio in forma di oleogramma (viene
da pensare anche al risultato di un possibile “ricalco”
su carta con la non più utilizzata carta copiativa),
fa riflettere su questo scambio tra età, tra mutazioni
che il nostro io più o meno coscientemente vive e realizza
nel corso dell’esistenza. Le due donne sembrano
colloquiare in maniera molto garbata e interessata (lo
sguardo della Gabriella reale ci fa pensare questo) ed
è in questo interscambio di vedute tra le due donne,
sfaccettature della medesima persona, che prendono
piede le liriche della Nostra, in un flusso di coscienza
inarrestabile, giunto a noi grazie alla trascrizione di
momenti della memoria, gioie ritrovate, istanti cruciali,
epifanie e riflessioni. Nella raccolta, che si compone
di trentaquattro liriche, vi è il dato emotivo-sensoriale
della donna, la sua autenticità di essere senziente legata
al mondo degli aletti e circoscritta nel baluardo della
memoria personale e familiare (Maffia richiama giustamente
la massima sabiana della “poesia onesta”) ma
anche il dato socio-politico di questa età scapestrata.
Quest’ultimo è ben evidenziato nella poesia che chiude
il libro dedicata ai poveri disgraziati di Mariupol, Kiev e
di tutta l’Ucraina, che da troppi mesi vivono il dramma
del conflitto: “le betulle / […] / s’aprono un varco nelle
voragini / nei palazzi avvolti dalle fiamme”. Come ulteriore
“eco” le betulle della Nostra non possono non ricordare
quelle dell’ampia foresta in prossimità di Chernobyl
(nella sempre martoriata Ucraina) che nel 1986,
a seguito del grave disastro radioattivo, per gli alti tassi
di tossicità assunsero una colorazione rossastra, anomala,
frutto della pesante contaminazione, prima di
trovare la morte.
Lorenzo Spurio
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