mercoledì 20 dicembre 2023

Anna Vincitorio legge: "JONN FOSSE"

  JON FOSSE 

Tre drammi – Variazioni di morte, Sonno, Io sono il vento Editore Titivillus – Teatrino dei Fondi Premio Nobel per la letteratura – 

Secondo la motivazione dell’Accademia, le sue opere tradotte in più di quaranta paesi, danno voce all’indicibile”1 . Osservo il suo volto ombrato: occhi chiari che trapassano il tempo. Solitudine, tristezza. Uomo dei fiordi e delle nebbie. Ha 64 anni. Un passato di alcool. Il suo sentirsi solo, attraverso la parola, ha suscitato emozioni profonde, un linguaggio scarno, innovativo, fortemente drammatico. La sua scrittura esprime il dramma del vivere attraverso la parola scarna, visionaria a volte, minimalista che trapassa e scava come goccia sulla pietra. Jon Fosse: “nuovo Ibsen”. I suoi personaggi sono nel tempo e fuori del tempo. Non hanno un nome. Sono visioni di una realtà crudele e incisiva. La sua scrittura prevarica le convenzioni, i limiti della parola. Scrive parole che vanno oltre la parola stessa, producendo emozioni che solo la poesia autentica può dare. Chi ascolta o legge i suoi drammi si sentirà proiettato in una dimensione atemporale. Il saggio di Leif Zern su Fosse – Quel buio luminoso – è introduzione e origine del volume. Tre drammi: Variazioni di morte, Sonno, Io sono il vento. Immagini come cascate che fiottano parole. I suoi personaggi non sono eroi ma quelli che non ce la fanno a reggere il peso degli eventi, gli smarrimenti, sono personaggi la cui identità è sospesa tra la vita e la morte. VARIAZIONI DI MORTE Spazio in cui si susseguono eventi in cui sovrana è la parola. Il tempo non ha una dimensione oggettiva. Si ripetono e si dilatano suoni. Possono estasiarti come ferirti. Sei avvolto da una atmosfera che ti imprigiona. La parola quando ti penetra, fa di te il personaggio. Sono attimi di una realtà che non ti appartiene ma che tu avverti sulla pelle come un brivido. L’uomo anziano, la donna anziana. Dialoghi brevi: “Che errore!/ proprio non capisco…/ che lei se ne potesse andare”. Lei disperata: “Possiamo ancora fare qualcosa…” L’uomo anziano: “Non possiamo fare niente”. La loro unica figlia che segue il suo destino… “È morta/ È via per sempre”… Nulla tiene ora uniti quei due. Lui non vuole vederla. Se ne vuole andare. Un evento tragico quasi sempre distrugge un passato comune. È crudele ma inevitabile. Sulla scena una donna giovane entra e un uomo giovane. Si incontrano e si abbracciano… Poco denaro; una 1 6 ottobre 2023 – Repubblica cultura – pag. 38-39. squallida cantina dove vivere. “Non è davvero molto/ Tutto è così incerto;/ questa è la vita/ Ho paura e sono preoccupata/ Non aver paura/ tu…: Dovetti andare/ Loro telefonarono/ E lei stava stesa là…/ E i suoi capelli/ E i viso/ il suo viso”. Parole, quasi sussurrate ma dure come pietre. Sulla scena nuovamente i due giovani. “Lei ha le doglie. Sta male…”. “E così lei se n’è andata/ via per sempre”. Si alternano un prima e un dopo. La storia non è chiara. Presente e passato s’intrecciano. C’è una figlia; contrasti tra i due giovani di prima; incomprensione tra gli anziani. Non è importante il susseguirsi di una storia con vuoti improvvisi e ritorni, quanto le emozioni provocate dal suono delle parole. Riandare ripetuto dalla vita alla morte e viceversa. “Credo che si possa avere/ un segreto, una pace dove si riposa/ solo riposo/ l’uno nell’altro/ Ma io voglio stare sola/ sempre sola…”. Ricordi di un tempo che non c’è più: “E lui veniva verso di me/ con la pioggia nei capelli/ una sera: veniva verso di me/ con la pioggia nei capelli/ una sera/ veniva verso di me…/ la luce nei suoi occhi/ veniva…/ in quella musica che è sua veniva/ E la pioggia nei suoi capelli/ resterà sempre là/ I suoi capelli nella pioggia/ una sera/ proprio là/ proprio allora” “Lei uscì di notte/ nella pioggia/ nel vento/…” È un susseguirsi di parole che straziano. È un parlare, ricordo e presagio di morte. Ma affascina. “Perché i suoi capelli nella pioggia/ stavano là/ come la luce del cielo/ Perché l’amore assomiglia alla morte… È una sola sera con la pioggia”. Ho riportato alcuni frammenti dei dialoghi. Vanno ascoltati, non descritti. Il lettore ne proverà la potenza su se stesso. Ancora, la figlia: “Mi pento/ voglio ritornare/ voglio stare sola/ Non avrei dovuto/…”. È importante per me in un’opera teatrale, non tanto comprendere quanto affogare nell’estasi trascinante delle parole. SONNO (2005) I personaggi non hanno nome. Dove il tempo? Nel ricordare. Il lettore affonda in personaggi senza storia. Attese malinconiche; eppure in questo – poco –, si comprenderà la natura nemica. Sono le voci di dentro che tutti conosciamo e scopriamo a un tratto. Non ha importanza l’evento che potrebbe anche non verificarsi ma penetrare nel non detto, sentirsi reietti, vivi o nel “sonno” che precede la morte. I personaggi sono anziani o di mezza età. Più che dialoghi si notano esternazioni di un pensiero. “Ti ricordi/ e la stessa cosa/ e fai la stessa cosa con me (ride un attimo) no che sciocchezza”. La donna anziana: “E io sto sempre peggio/ le gambe/ non mi vogliono sostenere/ Non ce la faccio quasi a fare più niente/ E non posso più parlare”. L’uomo anziano: “…ecco è caduta… l’ho trovata stesa sul pavimento…non parlava…ma si cioè respirava/ e così tornasti di nuovo in vita e incominciasti a parlare…”. Il dramma è la solitudine e l’attesa. Il figlio arriva ma deve subito andare via. Resta l’uomo anziano: “Noi ce la facciamo/ Non preoccuparti di noi/ tutto va bene”. In qualunque paese queste scene si ripetono. Attese, fuga e arrivi e poi, nuovamente solitudine e silenzio. Il sonno diviene conforto o solo preludio di morte? Ha debuttato in prima assoluta a Sesto Fiorentino per il festival Intercity Oslo il dramma Io sono il vento. Ne parla Eleonora Tedeschi: “Il suo è un teatro complesso in cui il ritmo è scandito dai silenzi, sospensioni, interruzioni. La parola stenta ad arrivare alle labbra per la difficoltà e forse addirittura l’impossibilità della parola di esprimere il dramma dell’esistenza”. IO SONO IL VENTO Due soli attori. Voci che fluttuano in uno spazio immaginario che però prende forma dalle loro parole. Una barca sul mare. È tutto grigio: gli isolotti, le isole, i monti e le pietre sulla spiaggia. L’uno vorrebbe attraccare la barca in una insenatura. “La barca sarà al sicuro/ Entriamo a vela e attracchiamo… E oggi il mare è tranquillo… E il mare è mare aperto”. Sono voci che si spandono nella nebbia… L’uno: “Io non volevo/ Lo feci così per caso”. L’altro: “Accade così per caso/ Ma poi avevi/ paura che accadesse/ Si. E così accadde.” È un lungo dialogo sulla vita che ognuno plasma secondo il suo essere. La vita è presente nell’altro. L’uno parla, forse spiega il perché del suo atto. Il non voler più essere. Non è ma ricorda. Non può essere sulla barca ma c’è. Cosa rappresenta la barca? Un rifugio precario perché il vento la spinge verso il mare aperto. Il pericolo affascina come la follia perché non può essere compreso. L’uno che non è più invita l’altro a fissare le corde e nella vicinanza della costa a saltare. La corda fissata ad un palo e poi nuovamente saltare per tornare sulla barca e qui, insieme, consumare del vino…mangiare. Sembrerebbe che il dramma tenda ad allentarsi. Il mare aperto è oltre la scogliera “e là/ là si incontrano il mare e il cielo”. Così come la vita va incontro alla morte. Parole, parole che si dicono. Parole che diventano pietra. La pietra è greve, non muta come il deciso impulso di non essere più. Disteso nell’acqua e poi via per sempre. È la solitudine che sospinge verso la morte “che sta là/ non solo come pensiero/ non solo come paura/ ma come qualcosa vicina”. “Ma tu/ la vita… non è poi così brutta/ Non sempre… è bello vivere”. Sempre il vento sospinge la barca immaginaria verso il largo. L’uno: “Ho sempre avuto paura che accadesse/ e ho pensato che sarebbe accaduto/ e ho avuto paura”. L’altro: “…io non posso far niente/ in mezzo al mare aperto…; Io guardo e lo cerco… la barca va avanti. Dove sei? Ma non posso vederlo”. Le onde sono nere e bianche e piove. “Ma perché lo hai fatto?” “L’ho fatto e basta… Sono via/ Sono andato via con il vento/ Io sono il vento”. Dramma trascinante. Sospensioni, riprese. Il tutto in un clima allucinatorio. La sua fine è la fine di ogni essere umano sia che la agogni, sia che la tema. Teatro di pensiero in spazi immaginati, descritto con parole di mare e di nebbia e noi, perduti, affascinati e avvolti dal sibilare del vento. Il teatro siamo noi che ci immedesimiamo negli attori. Siamo quel pubblico che ascolta dall’alto del loggione e che Giorgio Albertazzi definì: “Les enfants du Paradis”. Mi rivedo ragazzina correre per le ripide scale della Pergola per guadagnare un posto e poi… Si alza il sipario. 

Firenze – 24 novembre 2023 Anna Vincitorio

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