sabato 9 dicembre 2023

Giampiero Stefanoni legge Giuseppe Rosato........

 


                                                        Giuseppe Rosato, L' útema lune.                                                                                                                        Mobydick, Faenza 2002. 

                                                    

Scrittura della disillusione, del buio che inabissa presenti e passate memorie nel cerchio di distanze non più raggiungibili, quella di Giuseppe Rosato, poeta sia in lingua che in dialetto  fra i più autorevoli del panorama abruzzese (ma anche narratore e saggista- a lui si deve tra l'altro insieme ad Ottaviano Giannangeli la fondazione del  Premio Nazionale di poesia dialettale "Lanciano - Mario Sansone"). Una scrittura che si discosta da aperture di luce e rimandi che in qualche modo possono porsi, seppure nella cosciente sospensione, a contraltare e barriera di un' inarrivabile e stabile cucitura di sé e del mondo. Narrazione allora che partendo da un dialogo con se stesso, nel conto di un'età ormai più che matura, nel registro di una voglia di vivere che viene a mancare, non ha che da osservarla nell'inerzia di giornate che si fanno infinite. Il discorso allora  vertendo inevitabilmente su un tempo che in realtà si rivela eternamente immobile, porta al conseguente smascheramento del nostro modo di percepirlo, nella lucida consapevolezza di una condizione umana al contrario soggetta velocemente a passare, a scomparire. Il carico del giorno che porta a timide illusioni di notti sollevate, acquietate al tormento, trova piuttosto proprio nel sonno e nel sogno la malia della propria conferma entro ore ancora più lunghe, soffocate dal rovello di un peso avvertito più forte fino alla consegna, ogni volta, ad un mattino sempre uguale a se stesso, senza cambiamenti e ricominciamenti, senza nemmeno più teneri inganni. E non c'è luce, accennavamo, non c'è uscita se non nella parzialità dello spiraglio, dell'appiglio alle parvenze delle figure care di defunti che nel sonno sfilano di nuovo mischiate ai vivi, ai figli soprattutto, mentori di un presente che non li riconosce (almeno ai suoi occhi, cresciuti e indistinti in una oscurità più vasta) e che insieme nell'intreccio di una sostanza impalpabile (nell'evidenza dell'ombra, al tatto vagante della rivelazione, forse la sola vera) in realtà non fanno che incrociarsi giocando a confondere e, ancora, a smentire. Quei volti tornati bambini che tremolando svaniscono    sono   la   punta    dolorosa   della   spina  ,   della   notte   appunto   che  rompendo  l' illusione  di  un  risveglio  possibile agghiaccia nell'incrinatura di una morte piuttosto che può rivelarsi senza albe, mai risanati. 

Eppure, nella lucida e dolorosa consapevolezza di un pensiero che non si nega, nella poesia di Rosato la cessazione di tutto muove già nel pensiero stesso superato e, dunque, sempre, beffato dal tempo dove anche il ricordo sa in definitiva solo di morte ("Ma lu recorde è gne nu campesante"- Ma il ricordo è come un camposanto- come dal titolo di un testo). Nel dialogo continuo con la morte, con i suoi morti, la dialettica dunque è tra un tempo che non ha le alternanze del nostro ("e vu dentr'a lu scure, a ucchie chiuse,/a vocca chiuse,chiuse a-èsse dentre.. - e voi dentro il buio, a occhi chiusi,/a bocca chiusa, chiusi lì dentro) e lo scetticismo di un uomo che nella costanza del cammino e della parola non ottiene risposta. La parola, già, a cui si appella, la vita ancora forse solo, almeno, nella dignità dell'interrogazione ma la parola anche che può ritorcersi (compiuti i doveri d'ogni giorno, con fatica, poi cosa resta? "Qualu misterie te s'ha spalazzàte,/qualu penzère n'hi da penzà' cchiù?"- Quale mistero ti si è aperto,/quale pensiero non hai più da pensare?), o sfuggirgli proprio come i figli, senza nessuno che abbia la volontà di ascoltare (in un altro scherzo del tempo che mina le vicinanze) aprendo naturalmente al dubbio. Parlare o restare in silenzio a che serve se il mondo proseguirà come è? Si chiede infatti in un brano a metà testo ("Sta vulije de dì chi sa che ccòse"- Codesta voglia di dire chissà che cosa). A  che serve soprattutto se l'intreccio del pensiero non può che sbattere contro il solito muro di insfondabili malinconie e la consapevolezza di una esistenza segnata dal male e dal dolore? E come detto da  una morte che incalza nei versi, seppure sovente proprio nella benignità di salvaguardia dal male stesso ( esemplare in tal senso "Quanta bbardèsce se muré na vòte"-Quanti bambini morivano una volta- in cui i morti precoci almeno un tempo se ne andavano nell'innocenza mentre adesso la morte più che mai viene condotta dal maligno) quando non piuttosto nella metafora della propria- e altrui- secchezza- uomo che non guarda più all'opportunità del giorno che viene come tutte le cose che piano piano in silenzio iniziano a inabissarsi ("e tu remaste sole, n'ombre appene/assòpr'a lu respire, a chi sa quala/lontananza, a 'spettà'"- e tu rimasto solo, un'ombra appena sul respiro, in chissà quale/ lontananza, ad aspettare). Nel cortocircuito del tempo in cui si dipana  il  libro ,  il  divenire  appare  bloccato  allora  alla  propria  catena di pene  e di  dubbi (anche riguardo se stesso e le cose effettivamente compiute) per cui, pur nell'invocazione dell'illusione del domani, tutto in realtà è fisso a un eterno passato, a un eterno ieri di fatica. Qui, in quell' amarezza del disfacimento di cui acutamente parla Loi nella prefazione, si leva nella coscienza la consapevolezza, nel riconoscimento, di vedere nella morte - esattamente come il padre - anche una soluzione alle angustie di sempre (ripetendo dopo tanti anni anche lui ora i medesimi tormenti davanti allo specchio "come/dentr'a 'n'acque de mare,/come de une che se te 'nnegà'"- come/dentro a un'acqua di mare,/come di uno che sta annegando") seppure nella dolenza della negazione di qualsiasi buona fine per l'uomo (inghiottito nel nulla senza "cchiù crescenze e nné mancanze" -"più crescenza né mancanze"). Eppure Rosato procede senza cedimenti, entro quella serena disposizione o disperazione (per dirla con Saba) che viene da uno scorrere che comunque ci cancella, restando nella "fermezza di chi tuttavia non si lascia travolgere" come ancora in modo più che illuminante ha da sottolineare Loi ricordando come, in questa poesia i luoghi della privatezza nella " frammentazione angosciosa del vivere industriale e cittadino", finiscono col moltiplicarsi risolvendosi appunto in quella che  qualcuno ha definito maledizione del pensare. Solo l'amore è restato, resta giovane nel suo volto di fanciullo, il paese non più che un'ombra; solo l'amore ha il potere della salvezza e del sorriso in una chiusa segnata dalla neve e da rumori  di campane sotto un cielo avvertito sempre più distante e che attenta nell'angoscia del suo inabissare nei ricordi (il buio e le raffiche del vento nelle prime paure gettate ragazzini tra le ginocchia delle donne di casa).








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