Giovanna
Sommariva, Dodes tucc
mas’c.
Edizioni Puntoeacapo,
Pasturana (Al), 2021.
Ripensare
il tempo, riflettere il tempo e riportarlo nel cardine di una circolarità non
svincolata ma pienamente agganciata al ciclo di una natura cui l'uomo è rimesso
nel limite ma anche nell'aspirazione del suo abitare, è forse questo sul senso
stesso del nostro essere la terra, il tema su cui adesso più che mai è bene
incentrare la nostra meditazione, le questioni ambientali, la pandemia avendo
portato in superficie quelle dinamiche sociali culturali ed economiche di
negazione e di cancellazione di cui questo tempo è andato nutrendosi. Ora non
sappiamo a proposito di questo quanto la Sommariva abbia avuto in mente nello
scrivere il suo splendido canto dei mesi, certo è ben riuscita in questo inno
di reciproca appartenenza degli elementi a rammentarci quale, dove la radice di
una fecondità che non è solo quella di una disarticolata espressione del
profitto ma di una comune, fragile ed originaria appartenenza. Autrice
rovellese alla sua terza pubblicazione ci restituisce così in dialetto milanese
una meditazione sulla vita e sulla morte naturalmente riportata e iscritta là
dove ogni cosa ha origine e fine nel dettato di una temporalità che tutto lega,
che tutto avvolge. I riferimenti come
evidenziato da Ivan Fedeli nella prefazione sono quelli dei cantari medievali,
più precisamente a quel Trattato dei mesi
del padre del volgare lombardo Bonvesin de la Riva, dall'oralità di una lingua
in continuo rimescolamento e apprendimento alla trasposta calendarizzazione del
tempo, delle stagioni nella cadenza del lavoro e della semina, nella fatica e
nel raccolto. Questo lo spunto certo, e la detta fondante direzione, pure è
nella sicurezza della lingua che sa risolversi
per felice semplicità nella trasparente corposità dei suoi oggetti l'esatta
resa di quel sottoposto passare che scivolando resta e rifonda imprime e
incrina.
Il dialetto infatti insieme agli elementi, zolle, animali, uomini, erbe e piante da cui si leva, si fa esso strumento e servizio più della lingua, per carnale segretezza e per immediata origine, di quella terra, da quella terra dal cui humus nasce. E a ben dire non potrebbe essere diversamente nella elementarità, nella singolarità di un dialogo dapprima dei mesi con se stessi, con gli elementi nel loro spiovere, dilatare, accendere o costringere a seconda delle stagioni e poi dei mesi tra loro, l'uomo nell'apprendimento di una semina di cui figura tra le altre con le altre non ne è che rappresentazione, oggetto nell'esercizio del suo distendere. A proposito allora di semplicità, di ridirsi o per meglio sentirsi ridetti in un sistema di nominazione che vivaddio non è possibile dominare, ciò che ridesta meraviglia, in un tempo sia in alto che in basso di banalizzazione della parola, è questo racconto di alberi, di piane, di montagne ora innevate ora schiacciate dal sole, di ricordi di distese a perdersi nella memoria anche infantile del cuore, come a fuoriuscire da un immutato sussidiario di scuola, di minima- e per questo sapiente- poesia appresa per dimenticate stanghette, scandite vocali ogni volta nuove a seconda di quei piccoli alunni in cui è possibile- nella forza vera del libro- riconoscersi e insieme, insistiamo, finalmente riapprendersi nella dinamica avvolgente di una cosmologia, anche, nel cui mistero è tutta la sua persistente favola. Sono dunque tanti piccoli quadri questi ventisei testi in cui la Sommariva in una descrizione altamente pittorica viene a sorprenderci già dal primo testo, "Rebellion paroll rimedi" ("Ribellione, parole, rimedi"), in cui nell'incalzare a spirale del ritmo, a legare nomi, dinamiche, tempi sentimenti in un collante che tutto unisce, divelte, ricompone e canta cadenzando il tempo, sembra dischiudersi nella curva del lavoro umano uno scenario, una coralità nella resa dai tratti fiamminghi. Coralità nel cui segno poi tutto è caldeggiato, raccolto in un restituire dato per piccole e grandi intimità, da un inverno "ferm cagiaa" ("fermo e rappreso") in un invecchiare di orizzonti e cortecce ad annunci di primavera in piccoli echi, nell'assurdità di un "blueoù/che el fa immattì el ciel/ e maa al coeur" (di un "azzurro/che fa impazzire il cielo/ e fa male al cuore"). La fede che è della poesia è la stessa, perché in essa iscritta, di una terra, di una natura a sostenere di ogni fiorire il peso, a imprimersi nella memoria del rinnovo come nel realismo di quel glicine d'Aprile che fermo lo sguardo a terra sembra abbassarsi nel conforto delle radici, il cielo- come a sostenere- e a confermare/si nella granella dei fiori. Rotondità allora di un tempo nella sicurezza sferica delle sue accoglienze e dei suoi rimandi, di immagini, di ponti, case elementi ancora, sempre abbracciate protette in mappamondo "casalingo" ("mappamond casalingh") e necessario nella preservazione di un amore come conocchia atta a cucire "a fil doppi/reff de memòria e poesia" ("a filo doppio/rete di memoria e di poesia"). Ecco di qui dunque nella restituzione entro quella dimensione evocativa di un'accadere in cui è racchiuso anche tutto il nostro suggestivo esserci, la processione/progressione in luce nei colori di ore, istanti a punteggiare poi del sole il suo trionfo, i suoi silenzi tra le addormentate ombre estive, vita e morte sempre a braccetto, sempre nel fuoco nell'arsura della terra e delle cose. Terra infatti a perdersi poi, a spogliarsi non prima dell'offerta dei suoi succhi, delle sue vendemmie nella freccia di un Ottobre veloce a sfaldare giorni e calendari verso il termine di un dicembre che come in un girotondo va a riunire i mesi e nei mesi gli uomini nella consegna di "paur sògn gioi e dolor" ("paure sogni gioie e dolori"). Andando a concludere, infine siamo grati alla Sommariva per averci ricordati in questo prezioso libricino come espressioni, e non soggetti, di un sistema in cui nel compimento siamo chiamati a volgere, e ad addentrarci superando le nebbie e i tranelli delle nostre immiserite riflessioni, lo sguardo cercando di frugare di là dalle ombre smarrite, ogni passo a uscire una necessaria conquista giacché "dedree tuscòss l’è già nagòtt/o domà on limb indovè i sògn/resten semper bagai" ("Dietro tutto è già niente/o solo un limbo dove i sogni/restano sempre bambini").
Nessun commento:
Posta un commento