Ho
fatto precedere alle mie parole quelle del romanzo di Maria Rizzi perché sono
consapevole che l’opera possa presentarsi al lettore anche autonomamente, tanto
fluida e senza fronzoli risulta al fruitore la sua decifrazione. La scrittrice
si rivolge direttamente ai cuori ed alle anime di chi vuole seguirla lungo la
strada di una narrazione che fa rabbrividire per lo squallore sordido e sporco
che, dalle caverne infette, porta alla luce del Sole.
E
non si limita alla denuncia di personaggi malavitosi, che trattano le loro
simili come merce da sfruttare per i loschi e luridi affari dei quali sono
protagonisti, bensì estende il disprezzo anche a coloro che - apparentemente
distinti - sono conniventi, pur mettendosi a disposizione della giustizia.
Abbiamo appena ascoltato le parole viscide e vigliacche del teste, che non
arriverebbe a quello cui sono capaci di giungere i malviventi, ma per il quale,
le ragazzine sono soltanto prostitute extracomunitarie depravate, indegne
d’essere considerate esseri umani.
Il
brano estratto è, perciò, fedele esempio di una narrazione che prende di petto
non i cattivi - tra virgolette - ma la cattiveria tout court, la disumanità e
l’indifferenza delle persone che, a vario titolo, entrano a far parte della
vicenda. È in queste situazioni difficoltose che si mettono a nudo i migliori
pregi o i peggiori difetti. Ognuno di noi sa di non essere perfetto ma sono in
pochi quelli che, nonostante tutto, lo riconoscono. Le prove della vita sono un
setaccio attraverso il quale si deve passare cercando di filtrare il più
possibile, altrimenti ci si ritrova al di là insieme alle scorie.
La
protagonista, Miriam De Falco, dirige il commissariato della città che le ha
dato i natali; la sua famiglia (marito e due figli) risiede a Roma, dove anche
lei viveva fino al ricevimento dell’incarico sopracitato. Ovviamente questo la
costringe ad allontanarsi dagli affetti. Pur telefonando quasi ogni sera ai
suoi cari, la donna patisce la lontananza, tuttavia - ligia al dovere, che la
scelta di entrare in Polizia le impone - s’immerge, anima e corpo, in un caso
che risulterà di non facile risoluzione e metterà a rischio non solo la sua
resistenza e il suo equilibrio interiore ma la stabilità dell’intera squadra
che comanda. Miriam non si sente un “capo” e sa che gli uomini ai suoi ordini
(compresa una donna: l’ispettrice Girotti) rispettano i gradi, sebbene il suo
atteggiamento verso di loro sia alla pari e finisca con il farli sentire tutti
accomunati dallo stesso bisogno di dare il meglio nelle indagini che
seguiranno, in un’atmosfera di reciproca stima e fiducia.
Da
quanto detto sembrerebbe evincersi d’essere di fronte ad un romanzo d’azione,
un poliziesco. Perché ho usato il condizionale? Di certo non per smentire
l’appartenenza del libro a quel genere, bensì per tirarlo fuori da una
classificazione riduttiva che ne pregiudicherebbe altre, e più profonde, verità.
La
qualità del narrato va - a mio parere - rintracciata nello scavo interiore, che
prende vita dai momenti più intensi, dalle circostanze più difficili, dagli
abbattimenti nonché dalle riprese di spirito di ognuno dei personaggi (buoni e
cattivi) del racconto. Lo scandaglio non risparmia nessuno perché tutti hanno
qualcosa d’importante nascosto tra le pieghe dell’anima (criminali inclusi, nei
quali è paradossale parlare di emozioni, eppure…).
È
chiaro che la trama presenta svariati momenti di coinvolgimento, che spingono
il lettore a prendere parte ed immaginare situazioni di, purtroppo, assoluto
squallore, ma questo mare di nefandezze è disinquinato dal filtro di un’umanità
che mai ci lascia con l’amaro in bocca, opponendosi costantemente al predominio
del male.
L’autrice
non lesina mai di mettere in bocca a Miriam parole di conforto e di speranza;
come quando, dopo aver incontrato Gianni, l’uomo della sua vita, che le fa la
sorpresa di andare a trovarla perché ha compreso “che la donna vive una sorta
di crepuscolo della coscienza” e non gli è mai capitato “di sentirla in questo
stato”, tanto che, richiamandola al telefono, le dice: “Ti abbraccio e riparto”
rendendosi conto delle difficoltà che attanagliano la moglie. Appena ascoltate
queste parole, senza parlare le viene da pensare che “Al di là di tutto il male
esiste uno spazio, lì ci incontreremo”. ‘Sei qui?’ - esclama - ‘presa da un
sentimento difficile da definire, un misto di panico e gioia.’ […] ‘Non
riuscivo a restare a casa sussurra lui, mentre la guarda, e si perde
nell’azzurro degli occhi tanto cari’ […] Lei sorride e lo bacia. E Gianni non
bacia solo le sue labbra, bacia la sua rabbia, la sua paura, i suoi dubbi, il
suo coraggio”. Trascorsa la notte abbracciati, al mattino il marito esordisce: ‘Non
mi molli subito. Andiamo a fare colazione. Poi ti accompagno in ufficio’ […]
Miriam beve il suo primo caffè con Gianni e mormora: ‘Forse ci penserà il mare
a perdonare questo lungo inverno’. ‘La mia poetessa in divisa…’ risponde
l’uomo, mentre le stringe la mano […] Lui parte e la donna che varca la porta
dell’ufficio non è la stessa del giorno prima […] La prima ad accorgersene è
l’ispettrice Girotti […] ‘Quale miracolo le ha permesso di riprendersi,
dottoressa? Io mi sento così stanca che non ho chiuso occhio. La scalata mi
sembra infinita’. ‘Non è merito del sonno, in questo periodo sto sentendo
spesso parlare di miracoli, anche se sono circondata da sventure. Forse le
disgrazie scavano in noi miniere nascoste…’”.
Non
ci si riferisca, tuttavia, soltanto ai momenti felici (come quelli dello
stralcio sopra riportato), la sensibilità poetica della donna commissario,
della poliziotta, viene fuori anche nel pieno dello scoramento: “Miriam, mentre
sta per entrare nell’alloggio, nota il cielo trafitto di stelle. Pensa che si
trovano ad anni luce di distanza. Ciò che si vede di loro non esiste più. Sono
solo bugie. Il tiglio (l’ultimo amico con cui si ferma a parlare quando ritorna
al suo alloggio) la attende e lei mormora tristemente ‘Per fortuna hai avuto il
tempo di crescere prima che arrivassi io, altrimenti non avresti frequentato il
cielo’”. Quello con il tiglio è davvero
un rapporto di amicizia profonda: “Il tiglio la attende e non può fare a meno
di fermarsi un attimo a guardarlo e a sussurrargli: ‘Oggi ho ascoltato la tua
lezione, ma non saprò mai emularti, hai le unghie sporche di azzurro a furia di
scavare dentro il cielo’.”. Se questa non è poesia!
La
natura tutta è fonte di ispirazione per il commissario/poeta. Ispirazione e
distrazione nei momenti in cui si colpevolizza addossandosi responsabilità in
prima persona: “Miriam si distrae. Osserva gli oleandri che costeggiano il
viale. Il discorso vale anche per loro. La libertà delle foglie che abbandonano
i rami è direttamente correlata alla responsabilità di tornare ogni
primavera.”. Se si osservassero i comportamenti degli altri esseri del creato,
e si riflettesse, avremmo tutte le risposte che vorremmo e tutti gli esempi da
seguire per la corretta evoluzione della specie umana, che - al contrario -
prende le distanze dalla natura per svincolarsi, in nome di un libero arbitrio
di comodo, senza rendersi conto che quelle leggi sono necessarie, e ubbidendo
non si corre il rischio d’imprigionarsi né quello di sbagliare. Siamo suoi
figli e forse, come i nostri figli, vogliamo affrancarci dalla genitrice per
esigenze di autonomia e libertà, salvo poi - in età più matura - accorgersi che
aveva ragione. Gli errori si pagano e ce ne stiamo avvedendo, ma non è ancora
sufficiente per cambiare rotta e, anche qui, non emuliamo la natura, che sa
essere (noi diremmo crudele) ma sempre in nome di un equilibrio sano e
universale.
Non
credo d’essere andato fuori tema con la digressione, non lo credo perché la
scrittura di Maria Rizzi, in quest’esito, è intensamente calata negli elementi
naturali. Nel libro ci sono momenti di assoluta durezza, eppure i temporali,
sebbene frequenti, sono sempre seguiti dalla comparsa degli arcobaleni che non
colorano soltanto il cielo ma portano l’iride ovunque, persino nelle pozzanghere
che si formano e si mescolano alla sporcizia sulla strada.
“[…]
forse è la poliziotta l’alter ego della sua personalità, avrebbe desiderato
scrivere. […]”. E, nel testo, moltissimi sono i ricorsi alla poesia, che si
esplica, senza infingimenti, nei frequenti flashbacks che, parallelamente alla
storia portano avanti la liricità dei ricordi. Tanto che - al termine - il
commissario, Miriam, l’autrice coincidono.
Si,
perché - conoscendo Maria - si deve parlare di un romanzo autobiografico, che
nulla toglie alla bellezza dell’opera, anzi la accresce, connotandola per
un’ulteriore qualità: l’autenticità di chi scrive
Sandro
Angelucci
Ringrazio Nazario per aver dato spazio sul suo blog alla mia recensione su "L'arcobaleno nelle pozzanghere" dell'amica carissima Maria Rizzi. Un abbraccio fraterno a te, amico mio!
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