mercoledì 9 novembre 2011

Recensione a Il sogno della luce, di Pasquale Balestriere


Recensione 
Il sogno della luce 
di 
Pasquale Balestriere



Una chiacchierata in terza persona, perché voglio essere presente in questa tua dolorosa e nobile avventura. La tua ultima fatica letteraria, caro Pasquale, mi ha veramente commosso; ti ho ritrovato e mi ci sono ritrovato. Un piccolo gioiello di architettura metrico-esistenziale: ogni misura è al suo posto, lì, dove deve essere; ed ogni idea, ogni passione trova il suo crogiuolo in uno spartito disposto a flettersi alle richieste dell’anima. Mi sono commosso, sì!, mi sono commosso, soprattutto alla seconda lettura.


L’amico Nazario


E’ nelle corde umane ambire all’oltre, azzardare lo sguardo oltre i confini, azzannare il cielo per scorticarne le nuvole perché vinca l’azzurro; e se poi “preparati a esser muti d’occhi”, o volti a chiedere conforto al padre, invisibile presenza,  “in questa dura prova” , ancora più grande è l’istinto interiore  di tradurre il tutto nel senso della luce. E in questo libro Balestriere ha la forza morale, estetica, ed in/finitamente umana di traslare un disagio fisico in una arrampicata, sempre umanamente dubbiosa e pericolante, verso l’alto splendore vitale.
            Conosciamo bene la poesia di Pasquale, quella robusta, ben nutrita di lessico-corpo nel percorso poetico, quella fatta di illuminazioni verbali sempre frutto di cose di vita, quella innervata in suoni e accostamenti di una metrica suggerita dall’anima, ma pur sempre contenuta in argini ostili ad esondazioni; e come l’anima varia: ora musicalmente accattivante, ed ora rattenuta in aritmie di sospensioni e meditazioni. E se ricorre, sua sapientia, alla lingua dei padri, non è mai per sfoggio di cultura, ma perché niente di più calzante ci potrebbe riferire, o di più poetico, o di più austero, altro mezzo prosodico: “(Oculos in lucem vertit venator; / mihi oculorum lux satis esset!)  
            Sì!, il cuore è soggetto ad alti e bassi, a melanconici transiti, o a “cale sottovento”,  e anche se “Poi si stendono le corde / del cuore, anche le tue, e tu sei solo”   non  trema il poeta “ormai persuaso / all’evento e volto al riacquisto della / l   u   c   e.”
            E direi, lo conosco Balestriere, che il suo è un patema indirizzato alla ricerca di una verità che è tutta nella luce del pensiero, della parola, dell’anima, della memoria, della vita e quindi della poesia. Fatto fisico sì,  paura e incertezza per un un bene irripetibile anche, ma pur riacquistando tutto il suo potere visivo, e grande è il mio augurio, permarrebbe sempre in lui l’assillo del tutto, la coscienza di una carenza umana stimolo anche ad uno sguardo che vada al di là delle soglie del contingente.
            Lo denotano le 22 liriche, brandelli d’animo incastonati in presenze-assenze, le 22 sapide confessioni del poeta (il Poeta) alla madre nella sezione “Colloquio con la madre”. Non sono memorie rievocate che restano tali, espansioni dell’anima ad altre età,  ma realtà contingenti di morte e di vita, arricchimento del dettato di vicissitudini esistenziali non più solo personali:
” Il dolore mi sfrangia il cervello. / E’ stata mia madre a richiamare / ricordi di morti parenti.”
            Ed il dialogo è tutto volto ad addii, a partenze, a ritorni, a speranze, a cose care che fanno parte, hic et nunc, della vita attuale del poeta: “Posso dunque partire. / arato è il campo e pronto alla vendemmia. / I grappoli già opprimono le viti.” “Tu dormi dentro l’ombra della sera / nel caldo della casa, / madre di anni cento e uno…”Per me / però sopra tutto / sei tu la pace, madre, eterno porto / dove si spengono tumulti ed ire / e tace la guerra.”. La madre è presente, lì, davanti al poeta, e non è suggestione, è una reale irrealtà che schizza fuori dai suoi sentimenti facendosi fisica ed etica.  
            Una presenza viva e vitale, foriera di pace e di inquietudini, ma soprattutto di passioni, sensazioni e accadimenti legati al presente: “Ma siamo ancora qui, / con te, a bere la luce del sole, / tu a piccoli sorsi, noi / come capita. Ed ecco / che mi chiami, riemersa / a stato di coscienza, / perché controlli la giustezza / dei farmaci…”
            E’ una presenza-assenza ad alimentare la poesia di Balestriere, e la sua poesia è tanto liricamente vitale da sconfiggere l’asssenza.
            “Parlare con le ombre che vivono per azzerare il tempo”  direbbe il poeta. E Balestriere, in questa plaquette, in questa splendida e magica trasfusione di vita in versi, ha la grande carica, umanamente fragile, di tradurre i malanni del vivere e le voci delle ombre ne “Il sogno della luce”. “Pasquale Balestriere, Il sogno della luce, Castel di Iudica 2011, pp. 62”
                                                                                                                                 Nazario Pardini
Arena Metato 09/11/2011
                                                                                                                                

1 commento:

  1. Caro Nazario,
    mai avrei pensato né sperato, in questa capatina sul tuo blog, di trovarvi GIA' la tua nota alla mia raccolta "Il sogno della luce", specialmente qualora si consideri che l'ho spedita solo l'altro ieri e che alcuni amici non l'hanno ancora ricevuta.
    Ma tant'è. La tua amicizia e la tua generosità sono tali da non ammettere indugi né deroghe; la tua freschezza di cuore, poi, ti ha indotto ad un'immediata lettura, che ha generato la bella, attenta e nobile recensione della quale vivamente ti ringrazio.
    Un grande abbraccio
    Pasquale

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