venerdì 24 febbraio 2012

Prefazione a: Egizia Malatesta, IL GIOCO DELLE NUVOLE, Edizioni ETS, Pisa 2012.


Prefazione
a
IL GIOCO DELLE NUVOLE
di
Egizia Malatesta


Ci sono giorni in cui
mandrie di nuvole
pascolano l’azzurro,
s’ammucchiano, ribollono,
traboccano giù dal cielo
cancellando l’orizzonte
ed io, come una vela
gravida di vento,
scivolo silenziosa a ricucire
i confini del mare.

Sta qui la ricchezza umanamente caduca e spiritualmente elevata della poesia di Egizia Malatesta: in questa corsa verso i confini del mare su una barca gravida di vento, oltre il trabocco delle nubi. Ed è lo stupore per la bellezza del creato, la coscienza della nostra caducità a nutrire l’anima della poesia, ed è lo slancio verso l’inarrivabile a renderla infinitamente suggestiva. Direbbe il poeta: “ La coscienza di noi e il volo verso l’alto, non tradiscono la vita, ma la traducono in arte”. Silloge compatta, organica, strutturata su uno spartito metricamente vario ed articolato ad accompagnare l’estensione di un’anima tutta volta a tatuarsi in sintagmi e accorgimenti stilistici di grande impatto lirico. Ed è la musicalità che cattura la sensibilità del lettore. Con malizia tecnica e spontaneità ispirativa l’autrice abbina versi di diversa misura metrica a seconda della domanda emotiva; e spesso, a segnare il culmine di una vera romanza è l’endecasillabo, che esplode in tutta la sua portata sonora, valorizzato da misure ipometriche: “…gravida di vento, / scivola silenziosa a ricucire / i confini del mare”. Quello scivolare risalta come sinfonia da intermezzo lirico fra il senario e il settenario. E tanti sono i giochi stilistici con effetti di ritorni onomatopeici. Ma cosa è la poesia se non utilizzo di suoni e intrecci fonici, di impiego di figure, che valorizzino significati e significanti? e che cosa se non ricerca di noi attraverso le nostre confessioni? se non che l’impellente necessità di vincere i limiti che ci chiudono nello spazio ristretto di un soggiorno? se non che sognare, sognare, perché il sogno fa parte della vita, è vita, e ci aiuta a scalare vette insormontabili? e che cosa è la poesia se non che  repêchage di attimi sfuggiti con troppa velocità, e riportati a vivere come un grande patrimonio che sollecita interrogativi altamente esistenziali? o che cosa, infine, se non che fare della Natura un linguaggio visivo, che parli con la nostra voce, e che, rimbalzando sulle cose, ritorni all’anima rivestito dei suoi colori?
   Dice un poeta francese Marcel Dégas, che ho avuto occasione di conoscere alla fiera del libro di Francoforte nel lontano 1993: “La memoria e il senso dei limiti umani, l’azzardo della parola e lo sguardo verso il cielo sono l’alimento più proficuo della poesia”.
   E questa silloge dal titolo Il gioco delle nuvole è tutta in questi intarsi. E’ memoriale, è ricchezza di esplosioni di luce, è traduzione del nostro essere ed esistere in segmenti visivi, è coscienza della brevitas vitae, è slancio oltre quelle nubi che tendono ad oscurare l’azzurro; è sentimento di precarietà che nasce dalla contemplazione del bello commisurandolo alla nostra debolezza: dum loquimur fugerit invida aetas. Ma se vita fugit, e noi abbiamo la percezione della labilità del tempo, che cosa di più umanamente poetico del ridare linfa a storie che ci chiedono di rivivere, di tornare a esistere per non cadere nei vortici dell’oblio?
   Ed è emblematica la prima poesia che dà il titolo alla silloge: Il gioco delle nuvole. E’ il gioco di queste brume fumose e leggere, il loro accoppiarsi, dividersi, intrecciarsi, sparire, riapparire, e svanire a darci l’idea del tempo che fugge, ma anche quella di un sogno che ha il potere di trasferire il nostro cuore in mondi immaginari o ritrovati.  Forse mondi di ginestre rosa e di grani che ci richiamano ad altre età; “A volte / quando rincorro il tempo /con l’ansia dei giorni / che non concede abbandoni, / mi sorprendo a guardare lassù / dove da sempre si compone / il gioco delle nuvole. / Così fantasticando ritrovo / l’aria serena / che accendeva fasci di luce / in mezzo al grano, e torna / quel profumo sottile di ginestre rosa / che fa della mia pelle / il cielo, del vento…il mio respiro.” (Il gioco delle nuvole). E’ la capacità di sorprendersi che alimenta questa poesia, quella di reinventare, di rigenerare, appunto, attualizzandole, scintille luminose di infanzie che tornano su questi spartiti con freschezza e generosità. Non c’è bisogno di una poesia oberata di orpelli, ma di un linguaggio semplice e arrivante come quello dell’autrice: un canto intonato a tanta emozione.  
Ed interviene la Natura con la sua forza evocativa a collaborare, disponibile, a farsi voce, a chiamare le emozioni, rivestirle dei suoi palpiti, per ridarle fresche e rigenerate. La luna, il mare, le dune, il lentisco selvatico si fanno corpi di un’anima che si frantuma in parvenze naturali dando a ciascuna il compito di rivelare immagini ora vergini, ora annose e saporose di vita: “ Dolcemente / mi abbandono al suo profumo / che è di lentisco selvatico, / di resina e di mare.”. (Al silenzio)
   Ed è una sinfonia, una sinfonia trasmessa dagli archi di viole e violini, dalle mani che corrono sulle tastiere ad accompagnare il silenzio che complice crea un’atmosfera di surreale armonia, quasi romanza pucciniana, alcova di un’anima volta a fare della realtà un trampolino di lancio verso slarghi di cielo. Ed è proprio la poesia, credo, lo strumento che ci permette di avvicinarsi il più possibile all’inarrivabile: “Poco a poco / si ricompone il silenzio, / irreale, purissimo. /  Sfavillano gli archetti / delle viole e dei violini, / corrono svelte / le mani alla tastiera: / il tempo di un respiro…/ ed è improvvisamente, /meravigliosamente / sinfonia.”. (Preludio al concerto).
   Una silloge zeppa di motivazioni umane, troppo umane; una silloge che arriva al cuore del mondo per farne l’epicentro della parola poetica. Ed è la parola col suo piegarsi, col suo espandersi, col suo frammentarsi, col suo scomporsi e ricomporsi a far di tutto per combinarsi colle emozioni che zampillano dal seno dell’autrice. Ma la parola si dilata in uno sforzo, sebbene spontaneo, anche tecnicamente malizioso ed esperto in questa funzione complessa di rivelare a pieno la profondità dell’anima. Ed il poeta sa che la parola non è mai del tutto sufficiente a completare questa simbiotica contaminazione. Essa è umana, è un congegno di articolazioni tecnico-foniche finalizzato alla comunicazione, al linguaggio. Ma l’anima è divina e il suo pozzo è profondo quanto l’immensità dei cieli. Come lo è quello della Malatesta. E per questo la poetessa ricorre ad una Natura fortemente umanizzata e le affida il compito di rivelarla, in tutto il suo aveu: “E quando / un cielo grigio ristagna / nelle pozzanghere ghiacciate / della vita / dove ammainano le stelle / una ad una, io so / che basta un raggio di sole /  ad inventare un mattino / e a scoprire / in quello specchio di fango / un cantuccio d’azzurro: in fondo / c’è sempre un po’ di cielo / sopra di noi.”. (Un po’ di cielo). C’è sempre un po’ di cielo verso cui espandere i nostri sguardi anche se in basso ristagnano pozzanghere di fango. Ed è verso quel cielo che la poetessa ambisce a proiettarsi, per svincolarsi, forse, da quello spazio ristretto in cui siamo destinati a vivere. L’azzardo dei confini è il cuore di questa silloge che con voce chiara si veste d’azzurro, di vita, di ritorni, di fughe, di ricerca di luce: “Lasciami andare /libera e leggera / lungo i viali della Grande Anima, / ombra d’aria nell’aria / a sciogliere stagioni con le mani: / per te ritaglierò / pezzetti di cielo sempre nuovi / distesi ai piedi dell’aurora / dove potremo ritrovarci ancora / perché tu sei / e sempre per me sarai / la vita!”. (… Mara)  (Lasciami andare). Anche la persona amata, seppur lontana, si fa talmente viva, e fresca da farsi rappresentazione fisicamente reale, tanta è la forza evocatrice della Malatesta: “  Posso sentire forte il tuo profumo / anche se sei lontano / e sfiorare con le dita il tuo profilo: / è strano, non so dire / quanto mi manchi / e quanto sei vicino, / forse perché quell’ombra / che mi si allunga accanto sulla riva / è qualcosa di più / di un bizzarro riflesso della luna.” (Stasera).
   Ma la sua visione universale, che si fa totale abbandono dell’essere nella bellezza e nel canto della Natura, spesso è contaminata dalla percezione del nostro essere umanamente vinti e vincibili: “Così mi sento / un atomo di luce, / una particella smarrita / nell’incanto della Genesi / mentre un raggio di sole / s’imprigiona / tra le mie ciglia socchiuse / ancora innamorate di un sogno.”. (Alba chiara). Questa particella smarrita nel cuore dell’universo, cosciente della sua breve e irripetibile avventura, sa abbandonarsi attraverso il sogno ed un raggio di sole alla totalità della poesia. Quanta luce, quanta positività, quanta ricchezza umana in questi versi!  Ed è in novembre, forse, che la poetessa meglio che in altre effusioni, riesce a trasmettere quel senso di umano abbandono ad una sorte che il novembre stesso simboleggia a pieno con le sue foglie stanche: “Dorme Novembre / nei mucchi di foglie secche / che il vento raduna / qua e là come pensieri / che si alzano / e ricadono inerti / per diventare / briciole di niente.”. (Novembre). Il lirismo della Malatesta si fa pieno, coinvolgente, e la poesia tocca vertici di grande levatura spirituale con ritagli brevi e concisi, nella loro funzione simbolica: briciole di niente. Ed è il ricorso alle singole particolarità autunnali a significare il passaggio della vita da rami curvi del melo / rossi di frutti ad una inesorabile fine  de l’ultimo boccio di rosa settembrina.
   42  pièces, che si dipanano su un dettato poetico  vario e articolato, ma che rispettano il leit motiv conduttore che ne garantisce l’organicità. Si legga Ricordi di aprile, per avere un’idea chiara della gentilezza con cui la poetessa tesse le maglie del memoriale. E anche qui sono i riferimenti esterni coi loro corpi luminosi a offrire una tangibile collaborazione alla epifania dell’anima: “Un diluvio di luce / e di sereno / riempiva l’aria / di quell’Aprile / innamorato / di un profilo di vento, / e gli aquiloni / nuotavano / negli occhi dei bambini / chiari / come pozzanghere di cielo.”. (Ricordi d’aprile). Ma c’è tanta luce, c’è tanto cielo, e che profumi!, a dare unità inscindibile alla memoria di un tempo che si fa alcova, riposo-ritorno, pace e nirvana edenico per la poetessa.
   La scalata lirica dell’opera si completa con un colloquio soffuso d’amore che nella composizione finale, dedicata alla mamma, raggiunge il colmo del pathos, l’apice di una storia che, decantata nell’anima, si traduce in poiein. In un argomento in cui facile sarebbe cadere nel retorico o nell’eccessivo sentimentalismo, la Malatesta riesce a creare un gioiello d’incastonatura, dove tutto è equilibrio e dove la parola con una spontaneità effusiva, riesce a combinarsi attraverso una trasfusione sentimentale in linguaggio-supporto; la parola si fa ancella, si dona tutta per assecondare un’anima pulita, volta a dire la parte più intima di sé: “Lascia aperte, ti prego, / le porte del sonno, / che io possa accompagnarti per mano / (come allora facevi con me) / da dove non sei più / a dove ancora non sei, / perché è lì che si addormenta l’onda / e la notte s’imbeve di sogni, / perché è lì che tutto riposa / e all’ombra della luna / si compongono le trame della tela /  che si farà vela / per il tuo viaggio di ritorno.”. <<Lascia aperte (…Amia madre)>>
   Alla fine della lettura emerge chiaramente l’amore della Malatesta per un dire arrivante e suasivo. Tutti i tasti delle corde umane vengono più che toccati accarezzati. E quello che più ci resta è un sentimento di amor vitae, un lessico luminoso, incalzante, fatto di invenzioni e lampi immaginativi, che lasciano il lettore emotivamente coinvolto. E proprio il linguaggio, supportato da figure retoriche quali metafore, sinestesie, assonanze, allitterazioni, da enjambements e da rime usate in maniera modernamente parsimoniosa, si regge su una versificazione spigliata, libera, breve e concisa.
   Se nella letteratura contemporanea primeggia l’idea di una vita la cui felicità è rappresentata da una muraglia con cocci di bottiglia, e se la stessa poesia, spesso, è vista come una solitaria esperienza senza gioia e senza orizzonti, per la Malatesta c’è sempre un raggio di sole o uno squarcio d’azzurro  verso cui elevare lo sguardo dalle pozzanghere ghiacciate della vita: basta amare; amare le memorie, anche le negative a volte, amare il bello, amare insomma; e lei ama la poesia, perché la poesia la ama, e fa di tutto per corrisponderla nel suo atto umano e non solo di renderla libera.  
  

 Nazario Pardini

Arena Metato 22/02/2012          







2 commenti:

  1. Sempre puntuali e calzanti le prefazioni di Nazario Pardini. Non si affossano in tecnicismi troppo puntigliosi, ma si lasciano andare, dando di più, offrendo squarci di vita vissuta o rivissuta, reale o decantata, immaginaria o ambita con tatto ed invenzione poetica ed oggettiva. Veramente piacevole la lettura.
    Prof Angelo Bozzi, Pisa

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  2. Carissimo Nazario,
    voglio esprimere il mio pieno consenso per questa tua presentazione de "Il gioco delle nuvole" della cara amica Egizia. Conosco bene la sua poesia, e da molto tempo: mi ha sempre riservato intense emozioni perché autentica, pura come l'acqua di una sorgente di montagna. Egizia ha davvero quello che non si può definire altrimenti, ossia il dono della poesia; lei è nata "poeta" in quanto - come tu giustamente sostieni - "il pozzo della sua anima è profondo quanto l'immensità dei cieli". Ed hai fatto benissimo ad evidenziare che la sua parola "si dilata in uno sforzo, sebbene spontaneo, anche tecnicamente malizioso ed esperto in questa funzione complessa di rivelare (appunto) la profondità dell'anima". Cosa dirti: hai centrato perfettamente il suo fare poetico e - non è da tutti, credimi - il suo "essere poesia".
    Non mi dilungo ulteriormente in questa sede (forse l'ho fatto anche troppo) ma tenevo a farti partecipe dei moti, sia estetici che interiori, suscitati in me dalla tua ottima prefazione, di cui Egizia non potrà che essere orgogliosa.
    Tutto questo, mentre attendo di ricevere da lei stessa - ci siamo sentiti da non molto - "Il gioco delle nuvole". Sono molto contento di sapervi insieme nell'opera e ti rinnovo la stima profonda nelle tue alte doti esegetiche.
    Con un abbraccio e la speranza di vederci presto,
    il tuo amico fraterno, Sandro.

    Sandro Angelucci

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