mercoledì 7 settembre 2016

UMBERTO CERIO: "PROMETEO", INEDITO



Umberto Cerio, collaboratore di Lèucade


PROMETEO 


    Ed ora dove sei, mio Prometeo,
rapito da una morte disperata,
vagante tra spazi stellari
o negli inferi di Ade maledetta
-un’altra aquila a divorarti il cuore-
senza poterci dare il fuoco
per riscaldarci il corpo
e stringere nel pugno
la nostra vita prima della morte?
Dove sei, Prometeo,
ora che l’uomo è piccolo e triste
e più non vede il seme
che germoglia lungo il sentiero scabro?
Tra pietra e pietra, sotto il sole
che a picco a valle scende,
raccogli le memorie di una vita.

     Ed io non so, non so dov’è l’anima,
quale viaggio prepara
-quale roccia comincia a sgretolarsi-
e quale orribile vuoto si appresta
oltre la memoria del tempo.
Oltre il breve fluire del mio fiume.

     Dove si è smarrita la tua anima,
o l’aquila fiera ancor non è morta
per la freccia di Eracle
e il martirio continua
oltre gli oscuri abissi degli inferi?
Oltre la carne di grassa giovenca
a Zeus celi l’inganno del fuoco:
la vendetta di Pandora per l’uomo,
lacci di acciaio per te
del Caucaso sulla roccia nemica.

O è l’anello di acciaio e di roccia
che ancora ti lega nel cuore
per il feroce castigo di Zeus.

     Non abbiamo serbato
ferola dove nascondere il fuoco
né altro dono per l’uomo venale
che a lusinga fragile cede.
Scorie e detriti e putridi residui
per memoria lasciati
che altro non danno se non ripugnanza.

     Ora si è smarrita la tua anima,
il destino d’uomo fatto immortale
dal dono di Chirone,
e l’aria si avvelena,
si corrompe il seme dell’uomo
nella terra contaminata
di sangue marcito sulle sue strade.
Si è persa l’anima della vita
negli abissi profondi del dolore.
Non torna al sole l’armonia del giorno.
Nessuno più ruba il fuoco agli Dei
e l’amore si è perso
trasformato in lamento
nella cenere di pire ormai spente.
La morte non è più eterno riposo,
è un gioco di fuoco e di piombo,
corpi scomposti sulle strade
o portati su barelle di corsa
verso l’ignoto o folli cimiteri.
Nessun Chirone dona
la vita e l’immortalità.

     Resta la memoria
del rovo e del nero filo spinato,
 di corpi appesi che oscillano al vento
agli atroci fili del telegrafo,
e nessuno ci ridarà quei morti
con le tenebre alla fine del tempo.

     Dove consumi la tua immortalità
e disperdi i tuoi doni,
la tua arte di vate
che ignora il giorno dei mortali,
perché non torni umano
e gli uomini non salvi dal diluvio
che di nuovo ci investe
sulla riva di questo fiume
che scorie trascina e scorze di tronchi?

     Mi sei precipitato nell’anima,
hai scavato nelle molli viscere
in cerca del mio dolore
e tra le scarne certezze perdute
nell’aspro cammino della mia infanzia.
Hai sciolto nevi e remoti ghiacciai,
hai sconvolto mari sereni in cuore,
le ombre della sera, i geli delle notti,
hai violato le mie innocenze
per il tuo fegato strappato.
Ma mi hai donato umanità profonda.

     Donami una scintilla,
ancora, ch’io possa scaldare il cuore
e l’anima, la sete
per la verità nascosta nel cavo
di una pietra o nel volo di farfalla
in lunga primavera;
donami un respiro fatto immortale
dal tuo dolore d’uomo,
 un anello forgiato col tuo fuoco,
l’immagine del mondo
purificato dal tuo fuoco sacro,
la sacertà di una parola
che non confonda più la nostra mente,
il tuo amore per l’uomo
che non ha meritato il tuo dolore.
E donami certezze
mentre risali in un Olimpo umano.

     Ogni scintilla è un raggio di luce.
Un pugno della tua sacra terra
non è un pugno della mia terra.
Scagliato verso il cielo
forse un pugno della mia terra esplode
al rombo di uragano
nella mia anima inquieta
che al ritmo di una clessidra impazzisce.

     Ora il tuo fuoco smuove
flutto d’aria e di mare
e ragnatele buie di memorie:
un lampo per un uomo,
mille esplosioni per morti innocenti,
un tuono immenso per un bambino,
una tempesta per donne violate
con stupido furore.
Anche un sorriso azzurro
nel delirio della luce sul mare,
il nostro pugno di fragile terra
che si cela nell’erba della notte
per cancellare il disgusto del mondo.

     Aquila in alto fra nuvole grigie,
-la tua triste aquila!-
o azzurro aquilone fuso in azzurro
cielo col filo nella mano
che pensieri trasmette
ed in alto spinge come a futuro
di inattesa tempesta
ancora assale il tuo corpo inerme.
E mi sento nel buio della notte
da fragile fantasma attratto
-che so non esistere-
e cerco l’armonia di cetra cava
che non ritrovo ancora
nel tempo di una fine disperante.
E che si può sognare
se il mare in cuore si rovescia
con detriti di un mondo
che non riconosciamo come nostro
-la bussola impazzita-
e insieme abbiamo il buio nell’anima?

     Così, sentiamo frantumate
speranze di una vita
che si farà più amara alla vigilia
dell’infinita vanità
se la tua ribellione è terminata.

     Abbiamo il buio nell’anima
ma nella mente la rivolta.
Ancora lungo della clessidra è il corso
e qui è la tua cetra
che canta ancora il tuo destino d’uomo
che si ribella a Zeus
e all’uomo dona ancora il fuoco sacro.

     Brucia di vana attesa
all’ombra del tuo fuoco
l’ultima terra del canto infinito.
Ancora oggi, forse,
l’uomo non merita il tuo dono
e l’anima tua soffre
in giro per lo spazio informe, vuoto,
nella giostra dei vortici del cielo.

     Perché non dirti, oggi, a me fratello,
pure se secoli ci separano?

     Verrò al passaggio di ritorno
dell’ultima fredda astrale cometa
e col tuo fuoco fonderò suo ghiaccio
delle notti oscure
in un cielo lontano dalla terra.

Umberto Cerio 
                             (inedito, aprile 2012)

    









4 commenti:

  1. La tradizione assegna a Prometeo il ruolo di antagonista del divino e di promotore dei valori umanistici, ma si dovrebbe riflettere maggiormente sul fatto che il mitico eroe, al termine della sua sofferta ribellione, riesce a guadagnare l'immortalità, indicando agli umani proprio l'impervia via che può farli ricongiungere con la divinità. Forse quello che vuole dirci la leggenda è che l'uomo ha dentro se stesso il divino e sbaglia a proiettarlo tutto fuori di sé. Se così fosse, la rivolta di Prometeo non sarebbe più l'antitesi dell'uomo nei confronti del divino, ma la ribellione dell'uomo verso l'uomo stesso che nasconde la propria divinità. Prometeo sarebbe così il prototipo dell'uomo che riscopre le proprie origini divine, anziché dell'uomo che si ribella platealmente alla divinità. In questo lungo poemetto, Umberto Cerio, poeta da sempre ancorato ad una mitologia di cui scopre e ci dona la perenne attualità, sviluppa un accorato appello verso quell'essere eccezionale che rubò il fuoco agli dei per donarlo agli umani, pregandolo di tornare ancora a salvarli, non dall'Olimpo, ma da se stessi, dalla propria perversione e dalla propria malvagità. Ed ecco l'attualità irrompere sulla scena con potenza devastante: "La morte non è più eterno riposo, / è un gioco di fuoco e piombo, / corpi scomposti sulle strade / o portati su barelle di corsa / verso l'ignoto o folli cimiteri". Il poeta sente che l'uomo è "piccolo e triste", sente sgretolarsi l'anima e sente l'"orribile vuoto" avanzare tra i suoi simili e dentro di sé: "Si è persa l'anima della vita", "Nessuno più ruba il fuoco agli Dei / e l'amore si è perso". Prometeo è sparito, "rapito da una morte disperata", "un'altra aquila a divorargli il cuore" e l'umanità sembra avere dimenticato l'esempio di un "uomo fatto immortale", capace di tornare al mitico tempo in cui il conflitto non c'era e gli uomini erano addirittura ammessi alla presenza degli dei, in momenti di grande convivialità. Questa lunga invocazione, allora, cela e rivela a un tempo una meditazione e un dialogo del poeta con se stesso, con il suo alterego o con il suo daimon, con il divino che pulsa dentro di sé: "Mi hai donato umanità profonda. / Donami una scintilla, / ancora, ch'io possa scaldare il cuore / ... / E donami certezze / mentre risali in un Olimpo umano".
    Franco Campegiani

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  2. Commentando qualche tempo fa, su questo stesso sito, l’ ”Euridice” di Umberto Cerio, ebbi a scrivere: “Nella rivisitazione del mito, e nella sua riproposizione sospesa tra l’esigenza della verità (…) e il desiderio di “riscrivere” in chiave realistica, e a un tempo attuale, la storia di Orfeo ed Euridice, Umberto Cerio non solo nobilita da par suo l’arte della bella poesia, ma compie anche un viaggio rivelatore nella storia dell’uomo, condensando non tanto, e non solo, l’evoluzione sentimentale ed esistenziale del genere umano (…), ma anche, a ben vedere, quella “politica” e “sociale” degli uomini e delle donne, viaggiatori stremati dell’umana avventura, naufraghi avviliti e sopraffatti dall’odio e dalla barbarie, dalla violenza e dalla sofferenza, dalle guerre, dalla ferocia, dal sangue”.
    Bene, sulla stessa falsariga, con le stesse finalità e nella medesima prospettiva di quello scritto, Umberto Cerio colloca questa sua ennesima “intrusione” nel mito, a ciò sollecitato dalla necessità di riscoprire e, in un certo senso, di “riciclare” e rivitalizzare la forza prodigiosa, rigeneratrice e ideale del mito stesso. Afferma con convinzione Franco Campegiani che “l’uomo ha dentro se stesso il divino e sbaglia a proiettarlo tutto fuori di sé”. In un certo senso anche Umberto Cerio, con la continua invocazione di Prometeo (“Ed ora dove sei …? /… // Dove si è smarrita la tua anima …? /…// Dove consumi la tua immortalità…?), non lamenta certo la diserzione di una divinità amica che, come per capriccio, abbia deliberatamente voluto abbandonarci in balia degli eventi, ma al contrario punta il dito contro l’uomo stesso, ne denuncia il tradimento e sottolinea la fuga dalla sua stessa “umanità” e da quella pietas che, insieme alla forza luminosa del pensiero, della parola, della poesia e dell’arte, possono redimere e reindirizzare un mondo dal quale sembra essere sparita del tutto ogni forma di vicinanza, di solidale convivenza.
    E’ quindi l’uomo stesso ad essere chiamato in causa, essendo Prometeo niente altro che la proiezione del divino nell’uomo, la sua immanenza nella nostra vita. La denuncia dei mali del mondo è quindi un approdo doloroso e obbligato :“Non abbiamo serbato / ferola dove nascondere il fuoco / né altro dono per l’uomo venale, / che a lusinga fragile cede”. La denuncia appare senza appello: la corruzione, certo, ma anche l’abbandono e il martirio della terra e dello stesso genere umano: “l’aria si avvelena,/ si corrompe il seme dell’uomo / nella terra contaminata / di sangue marcito sulle strade”. E, ancora, l’uomo sembra avere smarrito il coraggio della ribellione e della denuncia del male, e sembra avere perduto la forza e la voglia dell’amore, assecondando invece un disegno di autodistruzione e di morte: “Nessuno più ruba il fuoco agli Dei /e l’amore si è perso //…/ La morte non è più eterno riposo, / è un gioco di fuoco e piombo // …// Resta la memoria / del rovo e del nero filo spinato, / di corpi appesi che oscillano al vento/ agli atroci fili del telegrafo”. Questi ultimi versi, che riecheggiano quelli indimenticati di Salvatore Quasimodo e della sua struggente “Alle fronde dei salici”, sembrano chiudere ogni via di fuga, spegnere ogni illusione sul destino dell’umanità. Eppure il sogno, eterno e indomabile e ribelle, lascia ancora accesa la fiamma del riscatto: “Donami una scintilla, / ancora, ch’io possa scaldare il cuore / e l’anima, la sete / per la verità nascosta /… / donami il respiro fatto immortale / dal tuo dolore d’uomo, /…/ l’immagine del mondo / purificato dal tuo fuoco sacro, / la sacertà di una parola / che non confonda più la nostra mente”.
    Umberto Vicaretti

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  3. Intinge la penna nel mito di Prometeo l'amico Umberto Cerio. E del titano, generoso amico dell'uomo, rivive la nobile e dolorosa vicenda che entra d'impeto nella grettezza dei nostri giorni e si pone come spietato termine di paragone per l'uomo d'oggi "piccolo e triste", incapace di slanci autenticamente cordiali e altruistici. A me pare che il nucleo di questo poemetto, strutturato in metro libero ( con discreta presenza di endecasillabi) e in forma di soliloquio (che, come si sa, presuppone un interlocutore, anche se non presente fisicamente), sia tutto nell’accostamento di luoghi, fatti, persone , nel confronto che tra loro viene a stabilirsi o, forse meglio, in una confliggente giustapposizione che elegge Prometeo a simbolo tutto umano di scoperta e di rivolta, di progresso e d coraggio. Il titano, che stupendamente Cerio percepisce fraterno, (in)segna all’uomo la strada da seguire, invitandolo a trarre fuori (in latino e-ducere), cioè a educare, il prometeo che ha in sé, cioè trasformare in realtà quelle potenzialità che, sole, gli consentono di vivere degnamente la propria esistenza.
    Cerio ama il mito che sa elemento fondante ( e dunque necessario) della vita, momento di crescita e di inveramento di quegli ideali ai quali ogni essere pensante non può fare a meno di ispirarsi. “Mi sei precipitato nell’anima” scrive il poeta; e dice, così, la forza sconvolgente della passione, del sogno, della fede nelle idee positive che reggono il mondo.
    Pasquale Balestriere

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  4. I commenti di Franco Campegiani, di Umberto Vicaretti e di Pasquale Balestriere hanno offerto, con dovizia di riflessioni, un chiaro e validissimo approfondimento oltre ad notevole arricchimento, cogliendo i vari punti salienti del Prometeo.
    Per questo è difficile trovare parole per ringraziarli e sottolineare le loro perspicaci notazioni che sono, ciascuna, una vera e propria esegesi.
    Ancora grazie
    Umberto Cerio

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